domenica 17 maggio 2009
LA DEMOCRAZIA DEL PRIVATO di ILVO DIAMANTI
E' comprensibile lo sconcerto pubblico suscitato dalle vicende personali del premier. Al di là del "merito" (si fa per dire), hanno indotto a riflettere sul significato stesso della politica e della democrazia.
Al proposito, Barbara Spinelli, sulla Stampa, ha denunciato l'intreccio perverso che lega i fatti personali e la politica. Sottolineando che "non si vorrebbe saper nulla dell'uomo politico se non quel che riguarda il bene comune". Le ha fatto eco Eugenio Scalfari, osservando, opportunamente, che la "tenda divisoria" tra pubblico e privato in democrazia può sussistere: sottile. Ma, ha aggiunto, scompare nei regimi autoritari. In realtà, è scomparsa anche nei regimi democratici. Da tempo. Anche dove il conflitto di interessi non si presenta esplicito come in Italia. Che costituisce, semmai, un laboratorio, come si è soliti dire. Dove i processi avvengono più violenti che altrove. Ma non un'anomalia. Perché - ormai da tempo - in molti paesi occidentali la politica si è personalizzata, insieme ai partiti. I quali hanno rimpiazzato l'ideologia con la fiducia nella personalità del leader; l'organizzazione e la partecipazione con il marketing e la comunicazione. Bernard Manin ha parlato, a questo proposito, di "democrazia del pubblico". Dove il "pubblico" non si riferisce a "ciò che è di interesse comune". Né allo spazio del dibattito sui temi (appunto) pubblici creato e occupato dagli intellettuali. Il "pubblico" evoca, invece, il cittadino-spettatore di fronte alla "messa in scena della politica" (per parafrasare Balandier, quando definisce i rituali del potere nelle società pre-moderne). Interpretata dai leader. Massimo Gramellini, commentando la performance televisiva di Berlusconi nel salotto di Bruno Vespa, ha parlato (anch'egli sulla Stampa) del "primo statista pop che abbia mai calcato il Palcoscenico della Storia". Osservazione spiritosa e acuminata. Ma anch'essa imperfetta.
Berlusconi, infatti, non è il "primo" ad aver scelto la strada della "politica pop" (titolo di un interessante saggio di Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini, in corso di pubblicazione per "il Mulino"). Intanto, perché, non solo in Italia, la politica si è da tempo travasata dal territorio e dalla società sui media. E, proprio per questo, si è rapidamente integrata nei moduli e nei linguaggi pop della televisione.
Delineando format e generi sempre più ibridi: "infotainment", "politainment". Miscela di informazione, intrattenimento e politica. Dove i fatti privati degli uomini pubblici fanno spettacolo e audience. Con le parole di Edmondo Berselli: "Nei talk show politici a metà programma accanto a D'Alema, Amato, Rutelli e Berlusconi possono entrare in studio Anna Falchi, Valeria Marini, Alba Parietti, Sabrina Ferilli (.); una conferma spettacolare che la televisione è fungibilità assoluta. L'importante è esserci".
Dunque, non è solo la politica ad aver appreso e imitato il linguaggio e il format dei media. è vero anche l'inverso. I media hanno adeguato i loro format e i loro linguaggi alla politica. La satira è entrata dovunque. Anzi: ambisce a fare "informazione vera". Mentre i programmi di informazione politica hanno accolto i comici, gli attori, gli esperti di vario genere e tipo. Peraltro, l'ingresso in politica di personaggi dello spettacolo e dei media (attori, giornalisti, ecc.) è frequente. (E non nuovo). Tuttavia, si assiste anche al passaggio inverso. Dalla politica allo spettacolo. Irene Pivetti: da presidente della Camera ai reality choc, alle danze sotto le stelle. Vladimir Luxuria. Dallo spettacolo alla Camera di nuovo allo spettacolo. L'Isola dei famosi. Reality di successo, che, peraltro, ha vinto.
Da questo ragionamento possiamo trarre alcune considerazioni sul cambiamento dei sistemi democratici. Le abbozziamo in ordine sparso.
1. Se il rapporto fra politica e media è così stretto (soprattutto in Italia) i media (e la televisione) diventano luoghi di lotta politica. E la televisione (si pensi alle nomine) un campo di battaglia permanente.
2. La distanza fra cittadino e spettatore si sta assottigliando sempre più. L'opinione pubblica è sovrana. Identificata dall'intreccio fra media e sondaggi. Principio di legittimazione politica e istituzionale sempre più importante. Anche perché agisce in tempo reale. La democrazia (parafrasando Renan sulla nazione) diventa, così, un plebiscito, o meglio: un sondaggio di ogni giorno. Anzi: ogni ora. Pubblicizzato dai media, testimoniato dai giornalisti, legittimato dagli esperti. Ispirato da chi li fa, commissiona, pubblica, commenta, ecc.
3. Se nella scena pubblica i ruoli sono fungibili, se il politico canta e cucina oppure discute di etica e della finanziaria con la velina, il cuoco e il cantante, perché scandalizzarsi se il cuoco, il cantante e perfino la velina ambiscono a calcare la scena politica? Ad andare in Parlamento?
4. Per la stessa ragione, la pretesa di ridurre le vicende personali e familiari dei leader politici a "fatti privati" e dunque privi di interesse pubblico, per questo, è insostenibile. Tanto più nel caso del premier, che ha fatto della "politica pop" (e del populismo mediatico) la base del suo successo: negli affari e in politica.
5. D'altronde, la "democrazia del pubblico" si sta traducendo in "democrazia del privato". Dove i fatti personali e familiari diventano di pubblico interesse. Non perché siano di interesse pubblico ma perché interessano al pubblico.
6. Questa tracimazione del privato nel pubblico, secondo alcuni studiosi (Crouch e Mastropaolo, fra gli altri), evoca l'avvento di una "post-democrazia". Una democrazia minima. Ridotta al voto. Dove il cittadino esercita il suo potere (?) una volta ogni cinque anni. Per trenta secondi. Poi si siede davanti alla Tv. E guarda. Al più: risponde a un sondaggio.
Noi ci limitiamo a osservare la singolarità del caso italiano anche nell'era della "democrazia del privato". Dove il governo, il partito e i media sono tutti e tre personalizzati. Tutti e tre riassunti in una sola persona. La stessa.
da Repubblica 17 Maggio 2009
Al proposito, Barbara Spinelli, sulla Stampa, ha denunciato l'intreccio perverso che lega i fatti personali e la politica. Sottolineando che "non si vorrebbe saper nulla dell'uomo politico se non quel che riguarda il bene comune". Le ha fatto eco Eugenio Scalfari, osservando, opportunamente, che la "tenda divisoria" tra pubblico e privato in democrazia può sussistere: sottile. Ma, ha aggiunto, scompare nei regimi autoritari. In realtà, è scomparsa anche nei regimi democratici. Da tempo. Anche dove il conflitto di interessi non si presenta esplicito come in Italia. Che costituisce, semmai, un laboratorio, come si è soliti dire. Dove i processi avvengono più violenti che altrove. Ma non un'anomalia. Perché - ormai da tempo - in molti paesi occidentali la politica si è personalizzata, insieme ai partiti. I quali hanno rimpiazzato l'ideologia con la fiducia nella personalità del leader; l'organizzazione e la partecipazione con il marketing e la comunicazione. Bernard Manin ha parlato, a questo proposito, di "democrazia del pubblico". Dove il "pubblico" non si riferisce a "ciò che è di interesse comune". Né allo spazio del dibattito sui temi (appunto) pubblici creato e occupato dagli intellettuali. Il "pubblico" evoca, invece, il cittadino-spettatore di fronte alla "messa in scena della politica" (per parafrasare Balandier, quando definisce i rituali del potere nelle società pre-moderne). Interpretata dai leader. Massimo Gramellini, commentando la performance televisiva di Berlusconi nel salotto di Bruno Vespa, ha parlato (anch'egli sulla Stampa) del "primo statista pop che abbia mai calcato il Palcoscenico della Storia". Osservazione spiritosa e acuminata. Ma anch'essa imperfetta.
Berlusconi, infatti, non è il "primo" ad aver scelto la strada della "politica pop" (titolo di un interessante saggio di Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini, in corso di pubblicazione per "il Mulino"). Intanto, perché, non solo in Italia, la politica si è da tempo travasata dal territorio e dalla società sui media. E, proprio per questo, si è rapidamente integrata nei moduli e nei linguaggi pop della televisione.
Delineando format e generi sempre più ibridi: "infotainment", "politainment". Miscela di informazione, intrattenimento e politica. Dove i fatti privati degli uomini pubblici fanno spettacolo e audience. Con le parole di Edmondo Berselli: "Nei talk show politici a metà programma accanto a D'Alema, Amato, Rutelli e Berlusconi possono entrare in studio Anna Falchi, Valeria Marini, Alba Parietti, Sabrina Ferilli (.); una conferma spettacolare che la televisione è fungibilità assoluta. L'importante è esserci".
Dunque, non è solo la politica ad aver appreso e imitato il linguaggio e il format dei media. è vero anche l'inverso. I media hanno adeguato i loro format e i loro linguaggi alla politica. La satira è entrata dovunque. Anzi: ambisce a fare "informazione vera". Mentre i programmi di informazione politica hanno accolto i comici, gli attori, gli esperti di vario genere e tipo. Peraltro, l'ingresso in politica di personaggi dello spettacolo e dei media (attori, giornalisti, ecc.) è frequente. (E non nuovo). Tuttavia, si assiste anche al passaggio inverso. Dalla politica allo spettacolo. Irene Pivetti: da presidente della Camera ai reality choc, alle danze sotto le stelle. Vladimir Luxuria. Dallo spettacolo alla Camera di nuovo allo spettacolo. L'Isola dei famosi. Reality di successo, che, peraltro, ha vinto.
Da questo ragionamento possiamo trarre alcune considerazioni sul cambiamento dei sistemi democratici. Le abbozziamo in ordine sparso.
1. Se il rapporto fra politica e media è così stretto (soprattutto in Italia) i media (e la televisione) diventano luoghi di lotta politica. E la televisione (si pensi alle nomine) un campo di battaglia permanente.
2. La distanza fra cittadino e spettatore si sta assottigliando sempre più. L'opinione pubblica è sovrana. Identificata dall'intreccio fra media e sondaggi. Principio di legittimazione politica e istituzionale sempre più importante. Anche perché agisce in tempo reale. La democrazia (parafrasando Renan sulla nazione) diventa, così, un plebiscito, o meglio: un sondaggio di ogni giorno. Anzi: ogni ora. Pubblicizzato dai media, testimoniato dai giornalisti, legittimato dagli esperti. Ispirato da chi li fa, commissiona, pubblica, commenta, ecc.
3. Se nella scena pubblica i ruoli sono fungibili, se il politico canta e cucina oppure discute di etica e della finanziaria con la velina, il cuoco e il cantante, perché scandalizzarsi se il cuoco, il cantante e perfino la velina ambiscono a calcare la scena politica? Ad andare in Parlamento?
4. Per la stessa ragione, la pretesa di ridurre le vicende personali e familiari dei leader politici a "fatti privati" e dunque privi di interesse pubblico, per questo, è insostenibile. Tanto più nel caso del premier, che ha fatto della "politica pop" (e del populismo mediatico) la base del suo successo: negli affari e in politica.
5. D'altronde, la "democrazia del pubblico" si sta traducendo in "democrazia del privato". Dove i fatti personali e familiari diventano di pubblico interesse. Non perché siano di interesse pubblico ma perché interessano al pubblico.
6. Questa tracimazione del privato nel pubblico, secondo alcuni studiosi (Crouch e Mastropaolo, fra gli altri), evoca l'avvento di una "post-democrazia". Una democrazia minima. Ridotta al voto. Dove il cittadino esercita il suo potere (?) una volta ogni cinque anni. Per trenta secondi. Poi si siede davanti alla Tv. E guarda. Al più: risponde a un sondaggio.
Noi ci limitiamo a osservare la singolarità del caso italiano anche nell'era della "democrazia del privato". Dove il governo, il partito e i media sono tutti e tre personalizzati. Tutti e tre riassunti in una sola persona. La stessa.
da Repubblica 17 Maggio 2009