giovedì 30 aprile 2009

BREVIARIO DEL CANDIDATO

  1. Verifica quali risorse, in termini organizzativi, può metterti a disposizione la segreteria cittadina, provinciale o regionale del tuo partito.
  2. Studia la composizione geografica del tuo collegio e analizza i dati delle precedenti elezioni tenendo conto della situazione politica dell’anno in cui ti sei candidato.
  3. Se necessario individua un esperto, sociologo o economista nel tuo collegio, in grado di aiutarti ad analizzare i dati che raccogli.
  4. Individua la sede del tuo ufficio elettorale tenendo conto della sua facilità ad essere raggiunto, il comfort e i costi.
  5. .Installa nell’ufficio elettorale una linea di fax, almeno due linee telefoniche, una fotocopiatrice, dei computer in rete.
  6. . Compila una lista dei possibili finanziatori e incontrali personalmente.
  7. . Ringrazia personalmente e immediatamente ogni sponsor anche se la cifra che ti mette a disposizione è irrisoria.
  8. . Tieni sotto controllo, con il mandatario elettorale o con il tesoriere, tutte le entrate e le uscite.
  9. . Leggi ogni giorno attentamente i giornali, guarda la televisione, ascolta la radio.
  10. . Individua e approfondisci i problemi locali.
  11. . Chiedi alla gente quali sono, secondo loro, i problemi più importanti che vorrebbero fossero affrontati e risolti.
  12. . Non farti sfuggire e non sottovalutare i problemi emergenti.
  13. . Parla con degli esperti di ogni singolo settore dei specifici problemi.
  14. . Riduci al minimo il numero dei temi che affronterai durante la campagna elettorale
  15. . Non contare su quanti dicono di voler lavorare gratis nel tuo ufficio elettorale
  16. . Non credere a chi sostiene di “manovrare” un pacchetto di voti
  17. . Non pagare nessuno a priori in cambio di un presunto procacciamento di voti
  18. . Non dare per scontato che chi dice di votare per te lo faccia
  19. . Ingaggia un bravo consulente politico o un coordinatore per darti una mano nella gestione delle pubbliche relazioni e nei contatti con la stampa
  20. . Individua gli abiti che meglio si adattato a ogni diverso evento
  21. . Vestiti in maniera sobria, comoda e appropriata ad ogni circostanza. Gli uomini tengano in macchina sempre una camicia pulita e una cravatta; le donne un paio di scarpe, un paio di calze e una giacca.
  22. . Scegli un colore standard per gli abiti che indosserai per le foto da usare sui manifesti, brochures, ecc.
  23. . Cerca di mantenere buoni rapporti formali con i tuoi avversari
  24. . Accetta di dibattiti pubblici con i tuoi avversari se sei sicuro che ciò contribuirà al tuo successo
  25. . Non concentrare l’attenzione sulle campagne elettorali degli altri. Investi tutte le tue energie sulla tua.
  26. . Fatti dare l’elenco degli iscritti del tuo partito e non esitare a visitarli in casa uno ad uno. In Italia, contrariamente a quanto accade negli altri paesi, la pratica del “canvassing” non è ancora diffusa. Per questo adottala.
  27. . Comincia a visitare i possibili elettori sin dall’inizio della campagna elettorale.
  28. . Dedica alle tue visite agli elettori due ore al giorno.
  29. . Contatta telefonicamente le persone che non hai trovato a casa.
  30. . Segnati i nomi di tutte le persone che hai incontrato per implementare la tua mailing e phone list.
  31. . Non cercare di conquistare un gruppo di persone o una categoria che sai essere a priori contro di te
  32. . Organizza un gruppo di persone in grado di raccogliere i dati sulle tue preferenze in ogni singolo seggio.
  33. . Organizza la serata delle elezioni e fornisci tutte le persone che ti devono inviare delle informazioni di un telefonino e di una linea telefonica dedicata solamente a loro.
  34. Studia le leggi elettorali
  35. . Se sei un esordiente impara perfettamente le norme e i contenuti del ruolo che ricoprirai se sarai eletto
  36. . Non uscire dal tema centrale della tua campagna elettorale e non perderai il controllo della situazione
  37. . Non cogliere le provocazioni che vengono dai tuoi avversari
  38. . Più lavori e più gli altri lavoreranno per te
  39. . Conosci te stesso prima che lo facciano gli altri
  40. . Sii umile ed ascolta più che parlare
  41. . Sorridi. Devi sempre sembrare una persona che sta vivendo un momento felice
  42. . Parla con i tuoi collaboratori, chiedi loro per chi voteranno, invitali a cena
  43. . Quando vieni intervistato oltre a porre domande sul tuo programma politico i giornalisti, soprattutto alla radio o alla televisione, tendono a rivolgerti alcune domande personali. Preparati a rispondere a queste domande:
  44. Qual è l’ultimo libro che hai letto.
  45. Qual è l’ultimo film che hai visto
  46. Vai in chiesa?
  47. Qual è il tuo scrittore preferito
  48. Che musica ascolti di solito
  49. Quanto costa un litro di latte
  50. Quanto costa un litro di benzina
  51. Quanto costa un chilo di pane
  52. Quanti punti ha in campionato la squadra di calcio locale
  53. Quanto costa un biglietto dell’autobus
  54. Qual è il budget della tua campagna elettorale

mercoledì 29 aprile 2009

CERCARE SOSTENITORI

Un'ottima attività per il prossimo week end potrebbe essere quella di raccogliere i nominativi di tutte le persone che si conoscono personalmente nella propria circoscrizione elettorale.
Stendere un elenco. Indicare con il colore rosso gli amici stretti, in azzurro i quasi amici, in giallo i conoscenti. Inventare, insomma, un codice per i livelli di contiguità.
Scremare, ricominciare. Indicare quelli che potrebbero dare una mano in campagna elettorale, escludere quelli della cui "infedeltà" si è certi.
Annotare i numeri di telefono. Iniziare a chiamare quelli apparentemente più distanti. Prendere appuntamenti informali, offrire un caffè. Chiedere, a chi si dimostra disponibile, se ha altri amici che potrebbero dare una mano. Prendere nota di tutti i contatti, indicare che cosa hanno risposto, quando e a che ora. Non sentirsi stupidi o frustrati. E' il mestiere del candidato.

VACANZE A STRASBURGO


In Francia il presidente Nicolas Sarkozy ha abolito la settimana lavorativa di 35 ore. Il Parlamento europeo, invece, quest'anno ha introdotto una novità mondiale: l'anno lavorativo di 33 giorni. Ai 785 eurodeputati, pagati 30mila euro mensili, basta volare a Bruxelles o a Strasburgo una volta al mese, starci due-tre giorni, ed è fatta.
Certo, ci sono anche le mezze giornate. Lunedì 4 maggio, per esempio, la seduta comincia alle 17 e va avanti fino a mezzanotte. Ma in realtà è una giornata libera: basta che l'eurodeputato prenda un aereo dal suo Paese verso le nove di sera, atterri a Strasburgo alle undici e vada subito a firmare il registro presenze. Così non perde la diaria di 300 euro al giorno. Idem per le mezze giornate al mattino: non è tanto importante l'orario di chiusura, le 13, quanto quello di inizio seduta: le nove. Anche lì, una capatina in sala, firmetta, e poi via verso l'aeroporto.
Il 2009 è un anno particolare, è vero: il 7 giugno si vota, quindi salta la sessione di quel mese. Risultato: ferie extralunghe, dall'8 maggio al 14 settembre. Ai nuovi eletti basterà andare tre giorni a Bruxelles a metà luglio per acclimatarsi.
L'eurodeputato radicale Marco Cappato ha chiesto che il Parlamento renda noti i dati di presenza dei suoi membri, in vista delle elezioni: unica occasione in cui possiamo giudicare i nostri rappresentanti. Niente da fare, il presidente ha opposto questioni di privacy. Allora i radicali hanno fatto da soli, e hanno compilato la classifica dei più assidui e degli assenteisti. Attenzione, però: hanno calcolato non solo le riunioni plenarie, dove come abbiamo visto il giochetto è facile, ma anche altri indici di «produttività»: la partecipazione alle commissioni, il numero di rapporti scritti, di interrogazioni, di interventi in aula.
I RISULTATI SONO IMBARAZZANTI.
«Il problema degli eletti italiani è che non sanno le lingue», ci dice una dirigente dell'Europarlamento, ai piani alti della Torre di Strasburgo. Anonima, altrimenti addio carriera. La maggioranza assoluta dei nostri eurodeputati non parla bene l'inglese, o almeno il francese. «E questo è grave non tanto per le riunioni d'aula, dove è assicurata la traduzione simultanea, quanto per tutti i contatti di corridoio con i colleghi delle altre nazioni, che rappresentano il vero lavoro utile da svolgere a Bruxelles».
Infatti, da un punto di vista concreto l'Europarlamento serve a poco. È un organo consultivo, non decide quasi niente da solo. Non nomina governi, non toglie la fiducia, tutte le leggi (direttive) devono essere «codecise» assieme ai burocrati della Commissione. Alla fine chi comanda veramente non sono né il Parlamento né la Commissione, ma il Consiglio, composto dai ministri dei 27 stati membri. «E neanche loro hanno l'ultima parola, perché poi ciascuno stato è libero di mettere il veto, o di non applicare una norma».
Insomma, quello che voteremo fra un mese è un enorme, simpatico e costosissimo ente inutile che serve soprattutto per far socializzare centinaia di giovani portaborse multietnici (dalla Lettonia a Malta, dall'Irlanda a Cipro): sono loro a effettuare il vero lavoro, per l'eurodeputato di cui sono «assistenti». Il quale è libero di decidere quanto pagarli. Dispone di 17.500 euro al mese: può darli tutti a uno solo (magari parente o amante), oppure assumerne 17 a mille euro ciascuno. Può tenerli al Parlamento oppure nel proprio collegio elettorale.
Nella Babele di Strasburgo si parlano 22 lingue. Quindi, in teoria, il numero di interpreti è di 22 al quadrato, perché ciascuna lingua dovrebbe essere tradotta in ogni altra. Impresa impossibile. assorbirebbe tutto il bilancio dell'Unione. «Ci sono quindi le lingue-ponte», spiega la dirigente, «per esempio un interprete dall'estone all'inglese, e subito dopo un altro dall'inglese all'italiano». Il risultato è comico. Se qualcuno fa una battuta, un terzo della sala ride subito, un terzo dopo dieci secondi, e gli altri dopo venti.
Sempre che capiscano qualcosa, perché si calcola che ad ogni traduzione si perda in media il 30 per cento del significato. «Gli irlandesi hanno preteso che il gaelico diventasse lingua ufficiale, anche se neppure loro lo parlano. E così i maltesi». Ora si aspettano il croato, il serbo, l'albanese, il norvegese, l'islandese, l'ucraino e il turco. Si spera invano che i moldavi accettino il rumeno.
L'altro grande spreco dell'Europarlamento sono le tre sedi: Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo. Grandi traslochi di migliaia di persone e casse ogni mese. Costano 120 milioni di euro all'anno in più, calcolano i radicali. Di più, secondo i verdi. 200 milioni. Dieci anni fa sia il Belgio sia la Francia, per paura di perderlo, hanno costruito un nuovo palazzo. Tutto è doppio.
Fino al '99 Strasburgo usava le sale del Consiglio d'Europa: un altro ente diventato inutile dieci anni prima, col crollo del Muro di Berlino e l'entrata dei Paesi dell'Est nell'Unione. Ora i due palazzi troneggiano uno accanto all'altro, desolatamente vuoti per quaranta settimane all'anno. Questa è la vita dell'eurodeputato. Pagatissima, undici mesi di ferie annui. Ma frustrante.
Marco Suttora per Oggi

CANDIDATA ALLE EUROPEE

http://video.corriere.it?vxSiteId=404a0ad6-6216-4e10-abfe-f4f6959487fd&vxChannel=Dall%20Italia&vxClipId=2524_9d5d9ec6-34cc-11de-b6cb-00144f02aabc&vxBitrate=300

SPOT EUROPEO

CHI ANDRA' A STRASBURGO


I candidati alle elezioni europee sanno che a vincere sarà il partito che li sostiene e i partiti sanno che a vincere saranno i rispettivi leaders. In questo senso Berlusconi, che è capolista nelle cinque circoscrizioni italiane, è ben consapevole (ancora una volta) che gli eletti saranno dei suoi sottoposti. Così come accade nelle regioni (Sardegna ad esempio) e nelle città dove decide di esporsi in prima persona. Per non parlare dei parlamentari che devono la loro elezione quasi esclusivamente al premier. Gli elettori, lo si voglia o meno, votano "per Berlusconi", "per Di Pietro"... E in questo senso la mancata presenza di Franceschini capolista creerà ulteriori problemi al Pd. In caso di disfatta potrà dire che non è dipesa da lui e, in caso di tenuta, i candidati potranno vantare un'autonomia che è ancora più pericolosa e che i vecchi soloni del partito già si apprestano a intercettare (uno per tutti: D'Alema è più vispo e attivo che mai e il suo modello riformista "dispone" sia di un giornale sia di una televisione).
Gli eletti certi sono quindi i candidati collocati in pole position dopo i rispettivi leaders. Gli altri si trovano davanti a una strada irta e pericolosa: 100 mila voti o giù di lì sono tantissimi e il territorio di una circoscrizione è enorme. Non bastano i voti della regione o del territorio di appartenenza. E' indispensabile prendere voti ovunque e questo obbliga a macinare migliaia di chilometri in macchina, fare migliaia di incontri con gli elettori lasciando perdere (consiglio vivamente) il "vizio" di perdere tempo con i vertici dei famosi rappresentanti di categoria che ormai rappresentano solo se stessi. I voti si prendono tra la gente mettendo in gioco la propria faccia.
I manifesti, il materiale cartaceo, sono SOLAMENTE un supporto alla comunicazione elettorale e non sono LA comunicazione elettorale. Lo stesso vale per gli spot, le paginate a pagamento sui giornali.... Gli elettori devono SCRIVERE una preferenza e lo fanno solo per una persona o nota o che conoscono (hanno incontrato) personalmente. E che comunque è portatrice di un elemento di fiducia che può essere dato dalla sua vicinanza al leader o dalle cartteristiche della sua personalità (ma quale leader asseconda un personaggio che potrrebbe oscurarlo?).
Un seggio a Strasburgo (73 quelli a disposizione degli italiani) è uno straordinario privilegio in termini economici e, nel predisporre le liste, i partiti ne hanno tenuto ben conto. E' per questo che i nomi degli eletti potrebbero già essere scritti semplicemente scorrendoli. Le "veline" e i "velini" messi in capo dai diversi partiti non andranno da nessuna parte ma servono, e i responsabili ben lo sanno, a fare spettacolo. E' il gioco della politica attuale che, totalmente mediatizzata, ha bisogno di volti telegenici, di una ventata di novità che vada a compensare la riproposizione dei vecchi "arnesi" della politica: quelli che a Strasburgo già ci sono e che non vogliono perdere il privilegio di volare gratis, di aggirarsi nelle remunerative commissioni e di portarsi a casa uno stipendio che ormai nemmeno i super manager possono permettersi. E anche quelli che dopo una vita politicamente tormentata esigono un pensionamento definitivo e soddisfacente. E quelli, poi, che nei partiti non servono più ma che vogliono una poltrona pena l'iraddiddio e che i partiti si vogliono togliere di torno.
Di outsider non se ne è mai vista l'ombra. Quelli cioè che pensano che la candidatura (a volte additittura la prima!!!!!) equivalga a un'elezione, nella corsa delle europee è meglio che abbandonino da subito il campo, pena cocenti frustrazioni.
Esiste l'eccezione, certo ma io non l'ho ancora incontrata. O forse sì. Ricordo un oscuro candidato alle europee che non è stato eletto ma che aveva ottenuto un numero strabiliante di voti. Era un ciellino per il quale la sua organizzazione aveva lavorato in tutte le regioni della sua circoscrizione. Ma, appunto, è stata un'eccezione. E quei voti, ci scommetto, qualcuno li ha rivendicati.
La politica è questa: spettacolo e vendette. Sorprese scarse.

CIRCOSCRIZIONI, ADDIO?

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martedì 28 aprile 2009

LA SEDE ELETTORALE


La sede elettorale è uno strumento di comunicazione. Verificate che disponga di un parcheggio e dello spazio sufficiente per stipare depliant, manifesti, santini e ogni altro materiale cartaceo che dovrà essere distribuito nel corso della campagna elettorale.
Se affittate temporaneamente dei locali solitamente adibiti a negozio fate in modo che la porta rimanga sempre aperta e non tappezzate le vetrine con i manifesti. Nessuno resiste alla tentazione di sbirciare in un ufficio elettorale e dimostrare che si sta lavorando è un ottimo segnale per chi è alla ricerca di un candidato in cui riporre la propria fiducia (ergo, il voto).
Controllate che ci sia il segnale per i cellulari e non lesinate sull'uso delle nuove tecnologie.
Per non rischiare di restare senza connessione internet dotate i pc portatili di chiavetta.
Fate salvare i dati, soprattutto il database, su pennette di almeno 4GB.
Dotatevi di cellulari, più d'uno, semplici da usare e con i quali avete già dimestichezza: in campagna elettorale non c'è tempo per leggere le istruzioni.

Spese di propaganda, finanziamenti e agevolazioni per i partiti politici e per i candidati

Per i candidati alle elezioni amministrative vige l’obbligo della dichiarazione, che può essere resa anche a mezzo di autocertificazione, dei finanziamenti ricevuti di importo superiore a euro cinquantamila (articolo 4, comma 3, della legge 18 novembre 1981, n. 659). I consiglieri provinciali ed i consiglieri dei comuni capoluogo di provincia o con popolazione superiore ai 50.000 abitanti sono tenuti a presentare una dichiarazione concernente le spese sostenute e le obbligazioni assunte per la propaganda elettorale ovvero un’attestazione da cui risulti che si sono avvalsi esclusivamente dei materiali e dei mezzi propagandistici messi a disposizione dal partito o dalla lista di cui hanno fatto parte (articolo 2, comma 1, n. 3), della legge 5 luglio 1982, n. 441). Inoltre, nei comuni con popolazione superiore a 50.000 abitanti, il deposito delle liste e delle candidature deve essere sempre accompagnato da un bilancio preventivo di spesa, da rendersi pubblico così come, ad elezioni avvenute, il rendiconto delle spese sostenute (articolo 30 della legge 25 marzo 1993, n. 81). Diversamente nei comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti e nelle province, statuto e regolamenti disciplinano la dichiarazione preventiva ed il rendiconto delle spese elettorali dei candidati e delle liste.

I consiglieri delle province e dei comuni con popolazione superiore ai 50.000 abitanti sono tenuti a rendere pubblica, all’atto della elezione, in occasione dell’annuale dichiarazione dei redditi ed alla cessazione dalla carica, la situazione patrimoniale propria, nonché quella - se consenzienti - del coniuge non separato e dei figli conviventi (articoli 1, 2, 3 e 4 della legge 441/1982). Tali atti sono pubblici e tutti gli elettori hanno diritto di prenderne visione (articolo 8 della legge 441/1982). Comuni e province regolamentano la disciplina della presentazione delle dichiarazioni, in analogia a quanto previsto dalla citata legge 441/1982 per la Camera dei deputati e per il Senato della Repubblica, comprese le procedure di diffida in caso d’inadempienza.
La normativa in materia di finanziamento ai partiti ed ai candidati, che si applica anche alle elezioni per il rinnovo degli organi dei comuni e province, fa divieto a tutti gli organi della pubblica amministrazione, degli enti pubblici, delle società con partecipazione di capitale pubblico e loro controllate di fornire qualsivoglia forma di finanziamento ai partiti, ai movimenti politici, alle loro articolazioni, ai gruppi parlamentari ed ai candidati. Per quanto riguarda le società private, i contributi devono essere deliberati dall’organo sociale competente ed iscritti regolarmente a bilancio. Tale divieto riguarda anche i candidati e gli eletti in tutti i consessi (articolo 7 della legge 195/1974; articolo 4 della legge 659/1981). Le violazioni sono punite con la reclusione e con una multa.
La suprema Corte di cassazione (Sezioni penali: III Sezione, 11 febbraio 1998, n. 4187) ha avuto modo di interpretare il concetto di “articolazione politico - organizzativa” del partito politico, giungendo ad una interpretazione estensiva dello stesso, fino a comprendervi anche le correnti“ collegate più o meno organicamente e collateralmente al partito” e le testate giornalistiche che fanno riferimento alle stesse.
Partiti, movimenti politici, liste e gruppi di candidati, singoli candidati possono usufruire, nel periodo elettorale, di alcune agevolazioni indirizzate ad un più facile svolgimento della competizione. Tra queste si possono citare: agevolazioni per le spedizioni postali del materiale elettorale (articolo 17 della legge 10 dicembre 1993, n. 515); l’applicazione dell’aliquota IVA del 4 per cento per il materiale tipografico e servizi inerenti la campagna elettorale (articolo 18 della legge 515/1993); l’esenzione dall’imposta di bollo di tutti gli atti e documenti riguardanti la formazione delle liste elettorali, l’esercizio dei diritti elettorali e la loro tutela (allegato B, n. 1, al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 642); la disponibilità da parte dei comuni, regolamentata e non onerosa per gli stessi, di locali attrezzati per conferenze e dibattiti (articolo 19, comma 1, della legge 515/1993); la possibilità di affissione diretta negli appositi spazi di manifesti e stampati (articolo 7 della legge 4 aprile 1956, n. 212).
Per quanto riguarda le speciali aspettative per i candidati, le uniche disposizioni legislative sono quelle che interessano gli appartenenti alle Forze armate (articolo 6, comma 3, della legge 11 luglio 1978, n. 382: licenza speciale per la durata della campagna elettorale e obbligo dell’abito civile), i militari di leva e in ferma prolungata (articolo 24, comma 10-bis, della legge 24 dicembre 1986, n. 958: licenza speciale per la campagna elettorale non computabile ai fini dell’a ssolvimento della leva), i volontari in ferma annuale (articolo 16, comma 4, lettera b) del decreto legislativo 8 maggio 2001, n. 215) e i dipendenti dell’Amministrazione della pubblica sicurezza (articolo 81, comma 2, della legge 1°aprile 1981, n. 121: aspettativa speciale con assegni per la durata della campagna elettorale, divieto di propaganda nell’ambito dell’ufficio, obbligo dell’abito civile, divieto triennale di prestare servizio nella circoscrizione elettorale).
Per quanto riguarda i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, con l’entrata in vigore dei contratti collettivi nazionali di lavoro che hanno sostituito l’istituto del congedo straordinario con quello del permesso retribuito, deve essere valutata la possibilità di concedere le giornate di permesso, in genere tre, in base alle previsioni contrattuali dei singoli comparti relative alle ragioni che giustificano tale concessione.

PRESENTAZIONE DELLE CANDIDATURE: CHE FARE?

Che modelli vanno usati per la presentazione delle candidature per le elezioni comunali e provinciali?

È consigliabile usare quelli messi a disposizione dal Servizio elettorale sui siti Internet delle Regioni o dei comuni in quanto contengono tutti gli elementi essenziali richiesti dalla legge. In particolare, per quanto riguarda i modelli “Dichiarazione di presentazione del candidato alla carica di sindaco/presidente della provincia e di una lista/gruppo di candidati alla carica di consigliere comunale/provinciale” (Atto principale e Atto separato) vanno uniti in un unico documento in formato A3 per assicurare che le firme apposte e la loro autenticazione siano chiaramente collegate all’atto di presentazione recante il contrassegno e gli altri elementi essenziali della dichiarazione.

Da chi può essere effettuata la presentazione – intesa come “materiale” consegna delle candidature?

La legge non dice nulla in merito; pertanto, la presentazione può essere effettuata da esponenti dei partiti o dei gruppi politici, da uno o più candidati o sottoscrittori, dai delegati di lista o da un altro soggetto scelto liberamente.

Il candidato sindaco/presidente della provincia deve sottoscrivere tante dichiarazioni di accettazioni delle candidature quante sono le liste/gruppi che appartengono alla sua coalizione?

Sì. Ogni lista/gruppo presenta, come documentazione, anche la dichiarazione di accettazione di candidatura alla carica di sindaco/presidente della provincia, firmata e autenticata.

Il segretario comunale che operi a scavalco in più comuni tutti interessati alle elezioni può delegare le sue attribuzioni in materia di ricezione delle candidature? Ci sono particolari formalità da rispettare?

Sì. La delega può essere data ad un dipendente. È necessaria la previa autorizzazione del sindaco e una comunicazione alla Prefettura competente per territorio. È opportuna anche una comunicazione al Presidente della Commissione elettorale circondariale competente all’esame delle candidature.

La dichiarazione di accettazione della candidatura alla carica di consigliere comunale/provinciale deve essere di data anteriore alla raccolta delle sottoscrizioni?

No, la giurisprudenza ha precisato che può essere anche di data successiva.

La firma del soggetto che deposita la dichiarazione di presentazione delle candidature prevista a pagina 4 del modello di dichiarazione di presentazione del candidato alla carica di sindaco e di una lista di candidati alla carica di consigliere comunale (Atto principale) deve essere autenticata?

No, non rientra fra i casi per i quali la legge prevede l’autenticazione della firma.

Le liste/gruppi elettorali collegate/i allo stesso candidato sindaco/presidente della provincia devono essere presentate contestualmente?

No, non vi è alcuna prescrizione al riguardo.

Nell’atto di presentazione delle candidature si può scrivere anche lo pseudonimo di un candidato?

Sì. Può aiutare a identificare il candidato in caso di omonimia. Viene riportato anche nel manifesto delle candidature.



LA FOTO DEL CANDIDATO

Si rinunci a tutto, ma non a un fotografo professionista.

MANIFESTI O NON MANIFESTI?


E' stato Berlusconi, nel 1994 e via via negli anni successivi, a invadere l'Italia con il suo faccione e il simbolo del suo partito. Memorabile l'affollamento, in quegli anni, di manifesti 6x3 e 100x140 collocati strategicamente nelle posizioni più appetibili. Per non parlare dei vistosi addobbi delle principali stazioni ferroviarie italiane trasformate in set elettorali con totem, striscioni, manifesti retroilluminati.
Quella prima strepitosa campagna di affissioni ha segnato l'inizio, anche per i candidati locali, di una rincorsa al maximanifesto o alle affissioni pre-campagna elettorale.
Un esempio irripetibile e degno di prossimi approfondimenti è la campagna di affissioni messa in atto da un paio di mesi nella circoscrizione nord est, da tal Tiziano Motti, potenziale candidato alle Europee per il Pdl. Anche se il costo delle tasse di affissione è dimezzato nel caso in cui il committente sia un'organizzazione no profit, un partito politico e via dicendo, si è trattato di un enorme investimento di risorse finanziarie.
E' giustificato?

Per me NO.

I poster di candidati locali 6x3 e le affissioni estreme di manifesti 100x140
nella fase antecedente l'indizione dei comizi (apertura ufficiale della campagna elettorale e obbligo a utilizzare solamente gli spazi negli appositi cartelloni elettorali con dei miseri manifesti 70X100) sono un ottimo affare per le tipografie e le società concessionarie di affissione.
Dal punto di vista del consenso, della conquista cioè di voti, che è l'obiettivo della campagna elettorale, la loro influenza è praticamente nulla.
Il loro impiego è giustificato solamente in città con almeno 500 mila abitanti, con ampie periferie e in cui è difficile per il candidato raggiungere fisicamente tutti gli elettori. E in ogni caso il messaggio deve essere tale da discostarsi nettamente da quelli che promuovono eventi, svendite, offerte speciali e commerciali di ogni genere.

Il manifesto con la faccia del candidato è solamente un memo, uno dei promemoria che possono essere utilizzati per associare nella mente dell'elettore il nome a un volto.

Un poster 6x3 per un candidato locale (sindaco o presidente di provincia) non aggiunge alcun contenuto di conoscenza all'elettore. A meno che.... a meno che il manifesto non evochi emozioni speciali grazie al messaggio che veicola, la grafica che utilizza, l'originalità del messaggio stesso. Il che presuppone, da parte di chi lo realizza, professionalità, professionalià, professionalità.

Non c'è candidato alle elezioni locali che non sia certo - grazie alla complicità di un amico fotografo -, di essere un creativo in grado di "vendere" se stesso. Pessima idea.

I manifesti senza un valore da trasmettere sono solo carta. Eppure per un candidato resistere alla tentazione di finire su un poster gigante è un'impresa praticamente impossibile come lo è, ancor più, la pianificazione delle posizioni e dei tempi di occupazione degli spazi che devono rientrare in una strategia complessiva in cui i diversi strumenti di comunicazione si integrano e si supportano a vicenda.

Da oggi il capitolo poster è comunque chiuso e l'unica vetrina a disposizione sono i cartelloni elettorali allestiti dai comuni. Usarli con parsimonia e intelligenza, e soprattutto in maniera integrata alle altre azioni e strumenti di comunicazione elettorale, è il solo modo per giustificarne la stampa. Di carta, durante una campagna elettorale italiana, ce n'è sin troppa.

DEPOSITO DELLE LISTE ELETTORALI


Finalmente si sapranno i nomi definitivi dei candidati alle elezioni amministrative e soprattutto europee. Grandi sorprese, alle amministrative, non dovrebbero esserci anche perchè la campagna elettorale è insolitamente iniziata, per questa tornata, almeno sei mesi fa. Si conoscono già - salvo poche eccezioni - i nomi dei candidati sindaci e dei presidenti di provincia. Ci sarà invece qualche sorpresa tra i candidati ai consigli comunali e provinciali. Perchè? E' presto detto: sono sempre più numerosi i famosi esponenti della cosiddetta "società civile" corteggiati dalle due parti politiche (con il relativo codazzo di partiti e liste civiche) e che in queste ore decideranno da che parte stare. Il che la dice lunga sulle deologizzazione del nostrro paese dove le scelte sulla collocazione politica sono più sostenute dalla convenienza che dallo schieramento e va da se che il più gettonato è quello del centrodestra dato ampiamente per vincente.
Ancora qualche ora e le firme dovranno essere definitivamente depositate.
A quel punto inizieranno le operazioni di controllo dei simboli (la legge elettorale detta indicazioni ben precise soprattutto sull'obbligatorietà di non usare simboli confondibili o sovrapponibili con quelli di altri partiti! Facciano attenzione le liste civiche che più che simboli originali presentano citazioni di altri partiti nell'intento di intercettare i voti di quegli elettori... Un paio di simboli di riserva da tenere nel cassetto è indispensabile per non rischiare di vedersi ricusare ed escludere definitivamente dalla competizione.
Più intrigante sarà scoprire chi saranno i candidati alle europee dei diversi partiti. Se sui capilista ci sono quasi certezze (eppure sono in corso sfide all'arma bianca soprattutto tra le del Pdl, ex Fi ed ex AN), le liste sono in gran parte ancora un mistero in via di essere defintivamente risolto.
L'on. Verdini, responsabile delle candidature del Pdl, sta scremando e aggiungendo nomi proprio in queste ore nel rispetto delle indicazioni di Berlusconi.
Di Pietro, ormai sul punto di diventare un selezionatore ancor più bravo del suo acerrimo nemico n. 1, sta rispettando gli equilibri locali con l'aggiunta di qualche significativo specchietto per le allodole.
Nel PD le liste sono ancora open sotto la spada di Damocle della sistemazione coatta dei "vecchi" arnesi di partito che, dopo aver ricoperto tutte le cariche possibili, esigono il ricco pensionamento europeo (144.084,36 euro annui escluso il gettone di partecipazione a sedute, commissioni e via dicendo oltre agli innumerevoli benefits).
La Lega Nord sta cercando di sistemare i fedelissimi e di allettare quanti, per fama e notorietà locale e nazionale, possono intercettare qualche voto.
Per le altre liste tutto è in forse.
I 73 candidati italiani che diventeranno parlamentari europei dovranno vedersela con un sistema elettorale proporzionale e uno sbarramento (introdotto proprio quest'anno nella legge italiana) del 4 per cento.
Il territorio è un collegio unico nazionale diviso in cinque circoscrizioni (ai soli fini delle candidature). Ma su questi aspetti tecnici torneremo.

lunedì 27 aprile 2009

VOTA SFIG


Qualcuno spieghi, please, agli elettori italiani ma anche a me, che ho scelto l’ingrato mestiere di razzolare nella comunicazione e soprattutto nella comunicazione politica - che ho passato gli ultimi vent’anni dalle Alpi allo Ionio, dalle Marittime alle Giulie e giù giù per l’Appennino e ogni tanto anche al di là del confine ad est eppoi a fusi orari arretrati a leggere i segni del presente politico, a farne sintesi con il passato per capire qualcosa del futuro -, perché la cultura del piagnisteo la fa da padrona nel cuore e nelle menti della sinistra italiota.
Qualcuno chiarisca - e dica nomi e cognomi di grafici, creativi, copywriter, tipografi, committenti, maestri del pdf in alta risoluzione, fotografi -, perché l’Italia è stata invasa da una delle campagne elettorali più mal combinate della storia.
Qualcuno mi rassicuri che dal cilindro di questa perversa creatività non sia in agguato un ulteriore claim, una SFIG spinta nel niente da un gruppo di poveracci che se la sono già vista con i parenti stretti delle sette piaghe d’Egitto.
Ci si dica che cosa aspettarci ancora da un committente che davanti all’afflitta presentazione del novero della sfortuna quotidiana (disoccupazione, miseria, povertà, ecc. ecc…), ha annuito vigorosamente e forse applaudito all’idea che i muri d’Italia venissero ricoperti dalla versione più tenebrosa e lugubre di quel realismo socialista e menagramo che pensavamo seppellito dal figli dei fiori prima e via via da tutto quel buon senso che, non me ne se ne voglia, è comunque penetrato nella tremula società italiana.
E abbiano la compiacenza, gli estensori della campagna 6x3 insinuatasi nelle pensiline dei tram, di illuminare gli elettori, gli psicologi, i sociologi, i pubblicitari goderecci, i comunicatori frivoli, sulla tipologia di perversione che li ha indotti a rifilare una stilettata di horror a un paese che, Obama docet, meriterebbe più hope che scalogna.
Già che ci sono, dicano due parole anche sul perché Franceschini se ne va di stazione in stazione a incontrare quel popolo che potrebbe vedere comodamente in qualche auditorium (saletta) delle diverse città che “tocca”.
Di treni elettorali, da Truman in poi, se ne sono visti parecchi anche sulle FFSS e il pullman di Prodi ha fatto il suo tempo. Per non parlare della nave di Berlusconi, in cantiere di rimessaggio da tempo. Forse, ma questa è solo un’ipotesi che nasce dalla mente contorta di una maneggiona della comunicazione, tutte queste azioni (messaggi di disgrazia e treni semideserti) mirano a contrastare (!) la comunicazione del presidente del Consiglio che, dopo aver spazzato le montagne di rifiuti lasciate depositare da Bassolino e dalla cornacchiante Iervolino, sta personalmente brigando per ridare una casa agli abruzzesi (giunta regionale e comune dell’Aquila in mano al Pd … fantastica legge del contrappasso!). Non solo, l’ometto è talmente impertinente da aver deciso di portare mister Obama (lo ha chiamato proprio così, addirittura alle spalle della Queen inglese!) e i grandi del mondo (madame Sarkozy che devolve una borsetta per il recupero di una pala del Trecento sarà uno spettacolo irripetibile!) direttamente nella new town che, alla faccia dei menagramo, sarà bella e pronta già in luglio (qualcuno ha presente che a New York, per non parlare del Dubai e del resto del mondo, un palazzo di cinquanta piani viene costruito in sei mesi?). E, se proprio di sfrontatezza vogliamo parlare, non dimentichiamo la festa della liberazione in procinto di diventare la festa della libertà. Insomma, questo premier è proprio un esagitato. Talmente concitato da dimenticarsi di ricoprire l’Italia dei suoi soliti manifesti ritoccati, in capelli trapiantati e acido ianulronico d’ordinanza.
E così la SFIG può dominare incontrastata a fianco delle pale a vento di Di Pietro.
Mentre io gongolo all’idea di fare questo lavoro.

sabato 25 aprile 2009

venerdì 24 aprile 2009

WOMAN

Woman I can hardly express,
My mixed emotion at my thoughtlessness,
After all I'm forever in your debt,
And woman I will try express,
My inner feelings and thankfullness,
For showing me the meaning of succsess,
oooh well, well,
oooh well, well,

Woman I know you understand
The little child inside the man,
Please remember my life is in your hands,
And woman hold me close to your heart,
However, distant don't keep us apart,
After all it is written in the stars,
oooh well, well,
oooh well, well,

Woman please let me explain,
I never mean(t) to cause you sorrow or pain,
So let me tell you again and again and again,
I love you (yeah, yeah) now and forever,
I love you (yeah, yeah) now and forever,
I love you (yeah, yeah) now and forever,
I love you (yeah, yeah)...




Donna, faccio fatica a esprimere
Le mie emozioni contrastanti
Nei confronti della mia sventatezza
Dopotutto ti sono sempre debitore
E, donna, cercherò di esprimere
I miei intimi sentimenti e la gratitudine
Per avermi mostrato il significato del successo
Oh, bene bene, du du du du du
Oh, bene bene, du du du du du
Donna, so che tu comprendi
Il bambino che è nell'uomo
Ti prego, ricordati che la mia vita è nelle tue mani
E donna, tienimi stretto al tuo cuore
Anche se siamo distanti, non separiamoci
Dopotutto è scritto nelle stelle
Oh, bene bene, du du du du du
Oh, bene bene, du du du du du
Bene
Donna, lascia che mi spieghi
Non ho mai avuto intenzione di darti dispiacere o dolore
Allora lascia che ti ripeta
Ti amo, si, si
Ora e per sempre
Ti amo, si, si
Ora e per sempre
Ti amo, si, si
Ora e per sempre
Ti amo, si, si

lunedì 20 aprile 2009

REFERENDUM, CHE PASSIONE!

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/200904articoli/42950girata.asp

Ho visto guerre, attentati, terremoti...di Toni Capuozzo

...asciano le stesse macerie
Il letto, il cassettone, i comodini, l’immagine sacra alla parete, le foto di famiglia e il disordine del crollo, della polvere. Nelle case sventrate ogni dettaglio di vita privata diventa pubblico

Il primo nato in una tendopoli – tendopoli Paganica 3 – si chiama Maichol, scritto così, e per me, che non sono snob, questo dice tutto. Dice di una distanza di quel mondo dal mondo perdutamente innamorato di se stesso – e che dunque anche odia se stesso – che è l’informazione, la politica, la cultura che finge di essere alta. Prendiamo il caso Santoro. So che è denaro pubblico, ma non amo la censura. Non ho visto la puntata di “Annozero”. Ma da quel che so, la critica mia è molto più pesante di quella dei politici: è un giornalismo che è convinto di nutrirsi di passione civile, e qualche volta persino crede di essere l’unica opposizione. E invece è un giornalismo pigro, che ha sempre gli stessi moduli e la stessa formula, crisi dopo crisi, emergenza dopo emergenza, ha i suoi avversari, patrocina le sue vittime, svolge le sue requisitorie, concede uno spazio tollerante alla difesa, ma è imperturbabile a ogni novità, non si fa mai turbare, né sconvolgere da alcunché, è senza curiosità, senza dubbi, non si immerge mai nella realtà per uscirne un po’ diverso: invecchia su se stesso (e con lui invecchiano i suoi censori). Invece bisogna scavare, come fanno i volontari, con più modesti e inutili taccuini, penne biro, macchine fotografiche e telecamere, in punta di piedi, se si vuole provare a capire qualcosa.

Per me, il terremoto d’Abruzzo sta lavorando su vecchie cicatrici. Sul terremoto ho scritto un libretto, dopo il 6 maggio del 1976, in Friuli. Non era un libro autobiografico. Piuttosto, già dal titolo – “Vivere con il terremoto” – esprimeva la quieta, manualistica convinzione che la conoscenza di un fenomeno tutto sommato naturale potesse aiutare a governarlo, o almeno a governarne la paura. Aveva una copertina serena, a colori, e voleva ispirare, con la conoscenza, una fiducia non rassegnata. Il mio lavoro, in quel libro, consistette nell’interrogare i geologi e gli ingegneri, e tradurre il loro linguaggio in forma piana e comprensibile a tutti. Spiegava a tutti quei friulani raccolti nelle tendopoli che il terremoto no, non era un orco che si agitava nelle viscere della terra come una maledizione, e che cos’è la tettonica a zolle, e che cosa la deriva dei continenti. Raccontava che i terremoti ci sono sempre stati e sempre ci saranno, e che l’edilizia antisismica poteva quasi sempre contenerne i danni, e lo spiegava con esempi semplici: se uno ti spinge e tu stai rigido, a piedi uniti, cadi. Se assecondi la spinta, se la bilanci con gambe larghe e corpo elastico, ritorni al punto di partenza come un Ercolino sempre in piedi. Non era autobiografico, non raccontava quel che avevo visto in quella notte del 6 maggio 1976, e non aveva sentore di una preveggenza personale: eppure adesso posso dire che ho vissuto davvero con i terremoti, come se il manuale fosse stato, a mia insaputa, una profezia.

Non sapevo che il mio primo assignement, il mio primo incarico da giornalista sarebbe stato, tre o quattro anni dopo, un servizio dal terremoto del Montenegro. In realtà non me lo chiesero per meriti giornalistici: semplicemente ero uno che abitava non lontano dalla frontiera con quella che era allora la Jugoslavia, e soprattutto ero uno che viveva in una terra terremotata. Me lo chiesero come un caporedattore chiederebbe un servizio sulla sanità a un malato in corsia: una voce dall’interno. E scesi in Montenegro, per andare a dormire nella hall di un albergo sulla costa di Bar, sui divani da cui sentivamo le chiavi tintinnare dietro il banco del portiere, nessuno era salito in stanza, tutti a un passo dalla via di fuga, anche se sul manuale avevo spiegato che bisogna, prima, individuare le travi portanti, e gli angoli sicuri e non fuggire alla cieca. Si discute sulla previsione dei terremoti, ma la previsione delle fratture sociali è ancora più difficile: salimmo in paesi dimenticati accompagnati dalla Zivilne Zastite, la Protezione civile, e sembrava uno stato perfetto e solidale, non sapevo che dopo una dozzina d’anni sarei tornato a raccontarne la dissoluzione, e le divise che i volontari del soccorso avevano impolverato in quei giorni di tremori, le avrebbero rispolverate l’uno contro l’altro. Così, non mi rendevo conto che il terremoto del Friuli, mi aveva e mi avrebbe cambiato la vita, che quel mese passato in tenda, in un’aiuola spartitraffico del tempo in cui le rotonde erano una cosa rara, sarebbe stato l’apprendistato per andare a vivere per conto mio. E non sapevo che quella prima scossa alle nove della sera, in quella sala in cui tenevamo una delle solite verbose e interminabili riunioni politiche, sarebbe stato per me e per altri la fine della politica. Pensai ad un attentato. C’era stato un rumore cupo, sordo, la vetrata aveva tremato a lungo, come se non finisse mai. Erano le nove di sera, una calda sera di maggio di trent’anni fa e noi, in quello stanzone dove stavamo per tenere una delle nostre solite, interminabili riunioni di rivoluzionari di provincia, non potevamo sapere che in quel momento stava cambiando la nostra vita, e molte altre venivano cancellate, e ad esplodere non era un ordigno, ma il tempo, come se le lancette dell’orologio, che rimarranno ferme per mesi, sui campanili, a quelle ore nove della sera, non riuscissero più a tener dietro a un gorgo di luce e di buio, come se, per riportare le cose e i giorni, le ore e i minuti al loro posto, ci fosse bisogno che la polvere si depositasse, che il chiarore illuminasse un mondo completamente diverso, e che il nuovo mondo tornasse piano a farsi abitudine, e che tornassimo a misurare il tempo come gente normale: i capodanni, i compleanni, gli anniversari del tempo tornato a essere calmo e regolare, rotondo e liscio, come in questo momento, giusto trent’anni dopo.

Eravamo gente di provincia, e giovani combattuti tra noia ed eccitazione, e fummo quasi delusi che non fosse un attentato contro la nostra sede. Sì, erano successe cose da prima pagina, anche da noi, che a ricordarle adesso sembrano invenzioni da romanzo russo: i palestinesi avevano fatto esplodere depositi di carburante a Trieste, i fascisti avevano messo bombe sulle rotaie di una ferrovia, quando era stata annunciata una visita di Tito in Italia, un ragazzo si era fatto uccidere per dirottare un aereo a Ronchi dei Legionari, e una pattuglia di carabinieri era stata massacrata da un’autobomba – ma allora non le chiamavano così – a Peteano. Ma noi le leggevamo sui giornali, e non ne sapevamo niente, e passavamo il tempo a parlare, ad attaccare manifesti e distribuire volantini, sognando la Fiat e le università occupate e i braccianti del meridione, e invece stavamo in un angolo d’Italia senza operai, con tanti soldati che guardavano al confine dell’occidente e riempivano sale cinematografiche fumose, e contadini che ci guardavano sospettosi. Parlavamo di colonia, di minoranze linguistiche oppresse. Guardavamo ai politici locali come alla lunga mano di un potere lontano ed estraneo, leggevamo il giornale locale – quei giornali unici della provincia nella quale non sei morto se non appare l’annuncio nella pagina dei morti – come fosse una menzogna quotidiana. Avevamo ragione in una sola cosa: eravamo un posto quieto e distante, ai margini dell’Italia. Ed avevamo ragione a esserne stanchi, se ogni volta che facevamo una piccola manifestazione e qualche ragazzino più insofferente degli altri si calava il passamontagna sul volto il poliziotto bonario lo chiamava per nome, ridendo, e gli diceva dai tiralo su: ci si conosceva tutti, per nome o soprannome. Ma non sapevamo cosa altro fare.

Quella sera del sei maggio di trent’anni fa la ricordo come un film nitido, in bianco e nero. Fu quel rumore lungo a cambiare tutto, anche se faticammo ad accorgercene, e mentre stavamo sul marciapiede all’angolo della strada, in mezzo alla gente uscita in strada, nella sera tiepida, con gli occhi smarriti che guardavano le case, il cielo, la terra, gli occhi degli altri, in attesa di riprendere la riunione e la nostra vita, sentimmo le bottiglie dietro il bancone urtare le une sulle altre, e cadere, e la luce mancare, e l’asfalto sussultare: era davvero un terremoto, era, e non lo sapevamo, il terremoto del 6 maggio, il terremoto del Friuli, e in quel momento succedeva quello che imparai a vedere nei giorni successivi, e poi in tanti posti del mondo, a ogni guerra, a ogni sussulto impazzito del tempo e degli orologi. L’osteria lì accanto si era affollata, all’improvviso. Ordinammo da bere, e le bottiglie presero a sbattere l’una contro l’altra. Uscii in strada e mi gettai sotto una macchina parcheggiata, a cercare un riparo, perché piovevano calcinacci. L’asfalto sobbalzava. Era il terremoto, ma ancora non sapevamo che terremoto. La riunione venne rinviata e io e un amico ci decidemmo ad accompagnare un terzo amico, in auto, al suo paese, Gemona. Quella sera andai incontro al destino, per caso. Ci ho pensato tante volte, ogni volta che dovevo decidere se andare da una parte o da un’altra, e dopo, la sera, cercando di mettere insieme i resti di una giornata andata a pezzi: cos’è che ti porta, per caso, in piazza Alimonda, a Genova, o nella piazza del mercato a Sarajevo, perché qualcosa ti spinge da una parte, invece che dall’altra?

Quella sera decidemmo di rinunciare alla riunione, e in tre salimmo su una delle poche automobili che avevamo, e per questo era sempre carica di manifesti e sporca di colla, e accompagnammo un quarto amico – allora ci chiamavamo compagni – che stava a Gemona. Fu dopo qualche chilometro che incominciammo a capire, quando sulla destra della statale apparve il profilo accovacciato di quello che era stato un ristorante, e il tetto poggiava quasi sull’asfalto e da una fessura spuntavano le luci di posizione ancora accese di un’automobile. Il ragazzo che stavamo accompagnando ci mise fretta, non c’erano telefoni e telefonini, e casa sua, anche casa sua poteva essersi accovacciata. Faticammo a trovare la via per Gemona, perché le macerie ingombravano una strada, perché il passaggio a livello era bloccato, perché sulle strade si aggiravano come fantasmi persone che si sostenevano l’una all’altra, o vagavano come se non cercassero più niente. Ci fermammo alle prime case, e il nostro amico continuò a piedi. Era una casa popolare, quella dove cominciammo a mettere le mani nel calcestruzzo e nei mattoni, attorno alla gamba di un uomo che sporgeva come da una sabbia mobile. Non so perché scegliemmo lui, o perché lui scelse noi, urlando. C’erano gruppi di persone che correvano di qua e di là, e non sapevi dove andare.

E ci volevano molte persone per scavare a mani nude, perché non c’era altro, e le nostre mani da volantini e da libri avevano un solo vantaggio, a compensare i polpastrelli lacerati: erano venute da fuori, da una vetrina che tremava e nient’altro, e non sapevi il nome di quello imprigionato, eri un volontario, per caso e per fortuna. Lo tirammo fuori, e una volta, mesi dopo, lo riconobbi sotto un tendone di Gemona, ma non ebbi il coraggio di ricordargli quella sera, la sera in cui le macerie seppellirono e restituirono migliaia di persone, e raccontarono una Pompei moderna, un’Odissea del caso: quello che venne salvato dalla porta che gli fece scudo, quello che tornò dentro a salvare qualcuno e non fu salvato, quelli che vennero salvati a giorni di distanza dai cani svizzeri, e quelli che uscirono alla luce con i capelli bianchi per sempre. Per notti intere i racconti, davanti alle tende, scivolavano piano sulla morte improvvisa, e sulla morte lenta di chi rimase prigioniero di una bolla d’aria, come sepolti vivi per sbaglio, con la vita che diventa un’eco di richiami, disperati o minacciosi come una ruspa che non sa di te e ti seppellirà per sempre.

Ci perdemmo, quella notte, e io conservo due soli ricordi, il primo è una fotografia, l’altro è un film. Il primo è un’alba livida, nella quale non cantano neppure gli uccelli che cantano a maggio – avessimo dato ascolto ai cani, ci si sarebbe salvati, la sera prima – e sulla piazza, lontano dalle case, ci sono gruppi muti di donne vestite di nero, come già a lutto, attorno a fuochi che mandano un fumo lento e una luce incerta, e sembra la fotografia di scena della “Grande Guerra”, il mattino dopo, ma senza rumori, senza suoni, senza pianti, tutto è fermo. Il film è quello nel vecchio ospedale davanti al Duomo spaccato. I medici, le infermiere, i malati stesi a terra. Mancano due donne anziane, sono rimaste lassopra. Siamo andati a prenderle io e un altro che veniva da fuori, ma prima i medici ci hanno dato una sorsata di alcol forte, perché le scale tremano ancora, o forse sono solo le nostre gambe nel silenzio dell’edificio vuoto. Le due donne sono stese nei letti, trattenute da tubicini che non sappiamo togliere, se non maldestri. Non pesano nulla, scendiamo quelle scale con la paura di morire con in braccio una nonna ossuta e lieve che non è la tua, speriamo che le sue preghiere funzionino per entrambi, e funzionano. Funzionano fino a quando torno a casa, in città, e chiudo la porta e piango, perché non avevo mai visto tanti morti, e portare in salvo una vecchia non ti assolve dall’aver visto morti bambini.

Non sapevamo che quella sera non solo erano morti in tanti, ma era finito un mondo. Ci mettemmo a fare i volontari, e addio ai volantini alle fabbriche. Imparammo ad ascoltare, piuttosto che a parlare. La Politica finì, per me, molto prima che la mia organizzazione di rivoluzionari si desse un singolare addio. Quando l’organizzazione di cui facevo parte – Lotta continua – si convocò per l’ultima volta a Rimini, per sciogliersi definitivamente, non andammo neppure a quel singolare e definitivo congresso, ci eravamo già sciolti per conto nostro, nelle tendopoli. Anche se restammo sorpresi quando ci dissero che era stata sciolta con uno slogan – che era il modo allora, di esprimere sentimenti e direttive, che ci suonava familiare: “Vivere con il terremoto”. Intendevano dire, nel linguaggio astruso e simbolico della politica, che bisogna abituarsi a vivere sballottati tra il femminismo e il terrorismo, privi della mano paterna sicura di un ennesimo, piccolo partito. Ma noi pensavamo già ad altro, a distribuire i quotidiani, i fornelli a gas da campeggio, gli stivali di gomma nelle tendopoli ogni mattino, a batterci perché tutto tornasse come prima, perché si ricostruisse il Friuli com’era e dov’era, perché si spiegasse alla gente, nelle tendopoli, quel che già si sapeva, senza linguaggi astrusi e simbolici: non sapevo, allora, che avrei fatto uno dei primi miei servizi, in Italia, in giorni in cui neppure la redazione esteri di un piccolo quotidiano poteva dimenticarsi dell’Italia, quando l’Irpinia tremò, e rividi, con altri accenti, le stesse scene, ascoltai le stesse urla, gli stessi lamenti, le stesse imprecazioni. Non sapevo che avrei visto, per la prima volta, il paese di una nonna che non avevo mai conosciuto, Pescopagano. E non sapevo che poi avrei sentito la terra tremare – e prima di altri, perché l’esperienza ti rende più sensibile, più attento a quel rumore sordo che cresce all’improvviso, come un’onda anomala – tante volte, diventando un reporter di guerra nell’America centrale delle guerriglie e dei vulcani e dei colpi di stato.

Una notte, a Città del Guatemala, dimenticai di aver lavorato a un manuale quieto e istruttivo, e mi domandai se il terremoto non fosse per me una persecutoria nuvola alla Fantozzi, che mi stanava dappertutto, come uno stato d’animo, altro che fenomeno naturale (in Abruzzo è successo davvero, a Lucia Petri, friulana di nascita ed abruzzese d’adozione. A sette anni, a Forgaria, restò per sei ore sotto le macerie della sua casa. Adulta, e sposata, venne a vivere nel capoluogo abruzzese, in una casa sotto la cui architrave si sono rifugiati lei, il marito, e i due figli, quarant’anni dopo). In questo, il terremoto è come la guerra: non è che conoscerla ti protegge, o ti consente l’aria di uno che ha visto tutto: ti fa male ogni volta, peggio che la prima volta. Con il tempo ho imparato che il terremoto ha molto altro in comune con la guerra, o forse è viceversa. Le macerie del cemento armato e le macerie delle anime, il crollo di un mondo, e l’affastellarsi in un caos di tanti destini personali.

Un terremoto, come una guerra, mette a nudo le cose e le anime. A raccontare un attentato, o un bombardamento, hai lo stesso sguardo di chi si ferma davanti a una casa che abbia perso una facciata, e gli occhi si posano su un’intimità violata, su una camera da letto che pare quei giochi da bambini: il letto, il cassettone, i comodini, l’immagine sacra alla parete, le foto di famiglia, e il disordine del crollo, della polvere, e prima ancora della fuga precipitosa da vite e sonni che erano privati e sono improvvisamente, e tragicamente, diventati pubblici. Guardi una casa sventrata, una parete crollata, e la stanza che è stata la stanza degli sposi, o la stanza dei nonni, e adesso è aperta come una stanza da teatro: l’armadio, il letto, i comodini, il cassettone. Vedi l’immagine sacra sopra il letto, e i ritratti o le fotografie appese alle pareti, e ti accorgi di scrutare l’intimità di una vita, come se il crollo avesse spogliato e portato alla luce, ricoperte di polvere, le esistenze di tutti, come se fosse stata un’invasione brutale dell’ordine esistente delle cose, come se tutto fosse in piazza, e come se il frullatore del tempo avesse deciso un giro di giostra folle e casuale, al termine del quale nessuno sarà più lo stesso, nessuno tornerà a dormire nel letto che ha dato forma ai nostri corpi, alle generazioni morte e nate in quei letti: finito, si ricomincia daccapo, a credere che il destino siamo noi, di nuovo in pace con le nostre vite. E invece è come in guerra. Se racconti di uno che era uscito a fare la spesa, o a comprare il pane, e sono rimasti per sempre nella scena devastata di un attentato, non racconti quasi la stessa cosa? E non succede, in guerra come nei terremoti, che gli uomini diano contemporaneamente il meglio e il peggio di sé, in una gara di sciacalli e di eroi silenziosi?
Così, con il tempo, ho raccontato come se fossero terremoti i viaggi all’inferno di Sarajevo, di Mogadiscio, di Baghdad e di Kabul. E ho maturato un paio di riluttanze: non uso mai come una metafora il termine “terremoto”, non parlo mai di terremoto politico, o di terremoto ai vertici di una compagnia, come per un timoroso rispetto della parola, per conservarle un senso, e per mantenere una distanza. E non vado a raccontare i terremoti, se posso evitarlo. Non sono andato in Umbria, e mi sono limitato a conservarne, come una foto ingiallita, un’immagine da telespettatore che assiste in diretta al crollo del soffitto della chiesa. Non lo faccio perché ho maturato una resistenza personale all’inevitabile retorica che segue i terremoti, gli appelli ai soccorsi, gli sforzi della ripresa e della ricostruzione, i tagli dei nastri e gli anniversari, che pure sono le forme accettabili in cui la vita, e lo spettacolo che la circonda, vanno avanti. Non lo faccio perché mi sembra di rivivere quello che per me personalmente, e per le terre in cui sono cresciuto, fu un parto doloroso, una nascita in cui muore la madre, e il bimbo cresce orfano.

Non sapevamo che sarebbe venuta l’estate calda e clamorosamente bella delle tende, né l’autunno della seconda scossa, e la tristezza dell’esodo. Non sapevamo che quella gente avrebbe compiuto un miracolo senza precedenti, e senza seguito: ricostruire i paesi dov’erano e com’erano. Non sapevamo che dalla minaccia di un ground zero sarebbe emerso il sogno di un’identità, davanti agli altari all’aperto e alle messe in friulano, e nelle assemblee e nei volantini in friulano. Non sapevamo che quegli amministratori e quei politici da Prima repubblica avrebbero scritto una delle pagine migliori della Repubblica tutta. Non sapevamo che la tragedia avrebbe generato un miracolo economico, e portato il benessere. Non sapevamo che, dopo, nulla sarebbe stato più come prima, che le glorie e le miserie di quel mondo contadino erano finite per sempre, sotto le macerie, nel momento stesso in cui venivano cantate, e scoperte come uno di quei sopravvissuti dopo tanti giorni, i capelli bianchi di polvere e di paura. Il Friuli non sarebbe stato mai più lo stesso, come se una guerra pur vinta togliesse per sempre il sapore alla pace successiva. Questo è diverso che in guerra: che la guerra, quella la attribuisci agli uomini, non è ineluttabile. Ma il terremoto è una guerra senza nemici, o con i nemici peggiori: la natura matrigna, la terra che ti tradisce, e i nemici che ti porti dentro. Ricordo ancora la scossa che mi fece più paura, e mi colse all’aperto, mentre passeggiavo nei campi con un prete, e non avevamo nulla da temere, neanche un albero che ci potesse cascare addosso. Ma sentimmo sotto i piedi, rattrappiti in mezzo al campo, il terremoto arrivare come quei giochi infantili che non si fanno più, quella corda che agiti a un capo e l’onda arriva fino all’altro capo. Solo che noi due avevamo i piedi sulla corda, e il mondo che tremava era il nostro, e il rumore sordo era una specie di tradimento, di fine di ogni certezza, più simili a vecchi insicuri sul gradino che a bambini al primo passo. Eppure ho sentito parlare di quei giorni con nostalgia, senza che si usasse quella parola. Erano giorni tremendi, e ognuno doveva dare il meglio di sé. Ho pianto, in quel primo mattino, e poi basta. Perché ancora adesso, quando nelle sere di Sarajevo qualcuno mi confessa di avere quasi nostalgia di quegli anni di guerra, vergognandosene, lo capisco, e temo solo di offendere il dolore altrui dicendo che ho nostalgia di quell’estate nelle tende. Stavo in una tendina canadese con la mia ragazza di allora, finito di baciarsi in automobile, era come un annuncio della vita adulta.

Ma non puoi vivere di coraggio e paura, di generosità e vita in comune. Arriva il momento che devi solo campare, mangiare normalità e oblio, e chiuderti alle spalle le porte di una casa ricostruita, e antisismica. E di un passato che, scostate le macerie e lasciati i morti ai monumenti e ai ricordi privati, mi appare, trentatré anni dopo, come un miracolo povero di bellezza dimenticata. Cambiò tutto: i soldati che scavavano tra le macerie, i politici locali e quelli nazionali – ricordo Aldo Moro, in visita – che, a ricordarli adesso, scuoti la testa quando senti liquidare la Prima repubblica, i sindaci che sembrano sindaci di liberi comuni, e una chiesa fatta di preti contadini che celebrava le messe all’aperto, in friulano. In un certo senso scoprivo un mondo nuovo, nel momento in cui quel mondo stava per scomparire. Scompariva un modo di semplice e rude povertà, di muri a secco, di paesi come presepi, il mondo di padre Turoldo e di Pier Paolo Pasolini, un mondo di pianure sassose e di colline racchiuso dalla cinta delle montagne e solcato da fiumi azzurri, povero, sdrucito e felice. Come succede al mondo contadino imitato negli agriturismi, con il basto dei buoi o i rastrelli appesi alla parete, la riscoperta, la celebrazione, segnalano che quel mondo è finito, che la sua bellezza e la sua dignità vengono citate come si ricordano i meriti in vita davanti al feretro di uno scomparso. Perché quel modello di ricostruzione che la classe politica ha dimenticato come lezione fu anche un vertiginoso salto in avanti, fu, come dicono gli economisti, un volano: trascinò dietro a sé tutta l’economia, non si limitò a ricostruire come in un puzzle i paesi dov’erano e com’erano prima, non si fermò a numerare una per una tutte le pietre del Duomo di Venzone e a ricomporle come un Lego, con pazienza da certosini, o caparbia alpina. Finiva per sempre un mondo povero ed emarginato. Lo stato, che avevamo visto come un colonizzatore, un padre padrone lontano, fu madre, e madre generosa di soldi. Li spesero bene, i friulani, rimboccandosi le maniche, ricostruirono i loro paesi come avevano costruito la Transiberiana e le ville di Buenos Aires, o i quartieri di Toronto. A ritornarci adesso, adesso che su quelle vie troppo pulite, quelle case troppo nitide, quelle chiese troppo accuratamente ricomposte si è posata di nuovo la patina del tempo, adesso che i bambini morti allora avrebbero l’età di mezzo, e i poveri vecchi sepolti sotto le macerie sarebbero stati solo un annuncio sul giornale locale, morti in modo qualunque, mi accorgo che era un sogno credere che tutto sarebbe ritornato a essere come prima. Era una sfida testarda a non perdere anche l’anima, anche le radici, ed era inevitabile che aiutasse le braccia e le teste, i portafogli e le leggi, ma era una sfida destinata a essere persa: cambiava tutto, e spesso in meglio, ma cambiava. Per tutti, e per ciascuno.

Per questo sono stato spesso zitto, o di poche parole, in Abruzzo. Perché volevo capire, e avevo paura di rivivere. Non ho mai abbandonato quelle immagini della notte del sei maggio, come fossero un rosario personale, una processione solitaria nel passato. Mi ritornano in mente a ogni nuvola di polvere, che sbuffi dalle Torri gemelle o da un incrocio di Baghdad, o girando attorno ad Onna. Mi sono accorto, come a un esame trentennale, di quanto siamo cambiati. Ci sono stranieri immigrati, tra i morti. Da noi, gli unici stranieri erano i canadesi e gli svizzeri, con i loro cani da macerie, e gli americani e gli altri ad aiutarci. C’è una forte Protezione civile, e i soccorsi non tardano. C’è un esercito che ha esperienza di catastrofi. Da noi morirono ventinove alpini, nel crollo di una caserma che era stata inaugurata appena otto anni prima. Gli alpini scavarono se stessi e scavarono in tutta Gemona. C’era l’esercito di leva: ricordo la storia di un gemello che tenne in vita l’altro soffiandogli aria con un tubo di gomma, e veniva da chiedersi come mai due gemelli tutti e due di leva, eravamo refrattari all’eroismo, anche se i militari di leva in licenza ritornarono spontaneamente, a dare una mano. Tra quelli che morirono in caserma ci fu il geniere Livio Sciulli, un abruzzese emigrato con la famiglia in Canada, e tornato solo per restare italiano. Leggo su Internet blogger che denunciano: migliaia di morti in Abruzzo, sono clandestini sepolti nelle cantine. Sono più impermeabili di Santoro ai drammi, hanno sempre una dietrologia da maneggiare, torri gemelle o L’Aquila non importa, e diffidano persino dei cani da macerie, annusano la controinformazione ma non conoscono l’odore della morte, per loro fortuna.
C’è più solitudine, oggi, anche in provincia. L’ho capito vedendo su molte bare il fiore pietosamente deposto da mani ufficiali – il minimo sindacale di pietà per qualche anziano solo, e da pensione minima – e piccoli cortei funebri con cortei di ragazzini che non conoscevano il morto, in un gesto bello, che ricompensa di tanta anonimità in vita.

C’è molto di più e molto di meno: è bello, per me, vedere un premier che ci mette la faccia, e promette (fossi l’opposizione, invece di sospettare del suo attivismo, sarei un suo promemoria implacabile), è meno bello vedere un Pontefice che celebra il Venerdì santo a Roma, invece di venire a lavare i piedi di un prete di campagna terremotato. E’ bello vedere tanta solidarietà, e tanto volontariato, e poca militanza. E’ piccola cosa vedere la politica misurarsi sul “caso Santoro”. Bisogna pensare positivo, avere il senso delle sfide, pensare in grande e ascoltare la gente qualunque, quella che chiama i figli Maichol, non i conduttori di talk show e i grandi architetti. A questi ultimi bisogna guardare con la simpatia distante che ispirano le coazioni a ripetere, quel continuismo che è anche un modo per sopravvivere, per continuare a essere. E’ meglio invece guardare alla forza sobria, al dolore pudico degli abruzzesi, alla loro voglia di rifare. Capisci che non è gente che si illude. Dovranno costruire i prefabbricati prima dell’inverno, e dovrebbero muoversi già adesso. E decidere come ricostruire, e dove, in una sfida molto più affascinante dei conti che la giustizia deve pur fare del passato.

Che Dio risparmi all’Abruzzo una replica, e lo lasci subito pensare al suo futuro. Ma a noi toccò, la replica di settembre, e fece giustizia di ogni illusione. Avevamo detto: dalle tende alle case, per paura che i prefabbricati restassero per sempre. Fu un colpo duro, con le tendopoli svuotate, e i prefabbricati come una resa alla realtà, non si poteva più andare dalle tende alle case. La gente sfollò in riva a un mare d’inverno, e avevano i volti di tanti esodi che ho visto poi. Esodo: non fu l’unica parola biblica pronunciata in quei giorni, i giorni in cui il Dio venne pregato e bestemmiato, ed entrambe le cose con quella fede semplice e forte come le mani di questa gente che non ama tenderle a chiedere, che sa solo farle lavorare o stringerle in un pugno quasi nascosto, in un silenzio pudico che deve nascondere il pianto. Quando le giungevano l’una all’altra, nelle chiese sopravvissute o davanti agli altari all’aperto, quelle mani giunte in un gesto quasi infantile, da dottrina del mese di maggio, davano da sole l’idea di una fede semplice e forte, spoglia come una chiesetta di campagna. Ma quel settembre, anche la fede fu messa a dura prova. Era finita un’estate di caldo ed emozioni, di rabbia e di speranza, di incubi e sogni. Erano accorsi volontari da tutta l’Italia, e nelle tendopoli era stata scoperta una specie di democrazia diretta, e il taramot, come lo chiamava la gente in quella lingua che sarebbe diventata una specie di tetto per gente senza tetto, un’affabulazione cruda e dolce per raccontarsi le tragedie e le speranze, un linguaggio da banda di ragazzi che non vuole crescere e vuole riconoscersi ed essere riconosciuta per la propria identità, quel taramot era stato una tragedia corale, e sopravvivere era stata una promessa e una scommessa.

E adesso, alla seconda scossa, restava appiccicata, come una pioggia autunnale precoce e insistente, una sola certezza, segnata di paura: niente e nessuno sarebbero stati quelli di prima, nessuno è più lo stesso, in Friuli e in tutto il resto del tuo mondo, anche oltre le pianure di sassi, i fiumi azzurri e il cerchio rassicurante delle montagne. I muri sarebbero tornati a levarsi lungo gli stessi perimetri, ma avrebbero avuto per sempre il sapore delle fotografie di tutti quelli che non videro l’alba del sette di maggio, fotografie su centinaia e centinaia e centinaia di lapidi che recano tutte la stessa data, e potrebbero recare la stessa ora. Fotografie sbiadite, che hanno l’innocenza di chi non conosce il futuro. Così i paesi, i muri, le case, che hanno l’innocenza di chi non conosce il passato. Fu una tragedia, e la ricostruzione una grande prova civile: il commissario straordinario ebbe poteri da dittatore, e i comitati delle tendopoli furono dei soviet senza ideologia, e il governatore d’Abruzzo non farebbe male a farsi raccontare un po’ di cose da gente come Biasutti o Zamberletti. Furono salvati prima i posti di lavoro, perché nessuno andasse via. Poi le case, infine le chiese. Sarà una prova dura anche per l’Abruzzo. Credo ce la faranno, terranno duro anche nell’estate dell’Italia in vacanza, e sopravviveranno a noi giornalisti con i servizi del Natale in baracca, e al primo, al secondo, e forse anche al terzo anniversario. Ma bisognerà aspettare cento anni, il tempo che non ci sia più nessun sopravvissuto, perché le cicatrici che accarezzano gli anniversari, i discorsi ufficiali, e i terremoti degli altri, cessino di far male, e il mondo sia quello di sempre. Intanto, viviamo con il terremoto, delle nostre case, e delle nostre vite.

di Toni Capuozzo