venerdì 9 aprile 2010

IN UNGHERIA IL PARTITO DI CENTRO DESTRA JOBBIK VERSO LA VITTORIA


Per vedere un po' di campagna elettorale (si vota domenica 11 Aprile) mentre un sondaggio Gallup ha previsto la netta vittoria del partito Jobbik. www.pustetto.it
... e sapere che cosa sta succedendo:
http://esbalogh.typepad.com/hungarianspectrum/2009/06/after-the-hungarian-ep-elections.html








SUDAN: AL VOTO DOPO LA GUERRA CIVILE


A tre giorni dalle elezioni previste in Sudan da domenica 11 a martedì 13 aprile la situazione politica è tutt’altro che tranquilla e c’è chi ventila, a Washington, un possibile e auspicabile rinvio.
Queste dovrebbero essere le prime elezioni multipartito che si tengono dal 1986 e, in un’unica tornata, comprenderanno le presidenziali, parlamentari e amministrative. La loro rilevanza è data dal fatto che questo voto sarà fondamentale per capire il modo in cui le forze politiche del paese si avviano al referendum per l’indipendenza del sul del paese previsto per il gennaio del 2011.
Il Sudan è stato teatro nel 2003 di pesanti violenze nella poverissima regione del Darfur quando un gruppo di ribelli non arabi hanno preso le armi contro il governo di Khartoum accusandolo di aver abbandonato la regione. Le Nazioni Unite hanno stimato che almeno 300 mila persone sono state uccise dalle milizie arabe mentre il governo di Khartoum ha sempre sostenuto che i morti non sono stati più di 10 mila.
Attualmente il Sudan è guidato dal National Congress Party guidato dal Presidente Omar Hassan al-Bashir che nel 2009 è stato indicato dalla Corte criminale Internazionale come responsabile dei crimini di guerra in Darfur.
Il partito d’opposizione Umma, di ispirazione islamica, ha dichiarato che intende boicottare il voto mettendo così seriamente a rischio la credibilità delle elezioni. Anche il Sudan People’s Liberation Movement ha annunciato la stessa intenzione ampliando così il fronte dei contestatori.
L’Umma Party ha dichiarato la propria opposizione al voto dopo che gli osservatori internazionali avevano segnalato la mancanza di sicurezza in molte città del paese e dopo l’ultimatum che aveva posto al governo di Khartoum, il 2 aprile scorso, chiedendo la garanzia dell’inizio di un processo di riforme e il rinvio delle elezioni al mese di maggio.
Nel 1986 l’Umma Party aveva vinto le elezioni salvo essere immediatamente rimosso dall’attuale presidente Omar sl-Bashir che dà per scontata una sua vittoria in questa tornata elettorale. Non la pensano così a Juba, la capitale del sud del paese, dove gli abitanti ritengono ben più importante il prossimo referendum per l’indipendenza dagli arabi. E’ per questo che circolano nel Sud del paese persone che indossano t shirt con scritte ironiche tipo “Vote for Pedro” o “Vote SPLM” a dimostrazione della loro scarsa considerazione per le elezioni di dopodomani. Il problema è che senza queste elezioni non ci potrà essere il referendum e rischiando di azzerare così la lunga battaglia della regione per la sua indipendenza. La tensione tra il governo di Khartoum e il territorio di Juba è alle stelle anche perché non sono stati ancora definiti alcuni elementi fondamentali per la futura geopolitica dell’area, come ad esempio il confine tra Nord e Sud nonché a chi andranno le entrate derivanti dall’estrazione del petrolio. L’applicazione delle linee del trattato di pace del 2005 (Comprehensive Peace Agreement-CPA) che ha posto fine alla lunghissima guerra civile non potrà avvenire prima del referendum creando una sorta di cortocircuito tra questo e le imminenti elezioni. Elezioni.
Il Gruppo Internazionale di Crisi ha diffuso un documento in cui sostiene che “non ci sono le condizioni affinchè queste elezioni siano libere e corrette” e che il NCP (National Congress Party), tra l’altro, ha manipolato i risultati del censimento, ha redatto leggi che lo favoriscono e cooptato con sistemi tribali i leader tradizionali. In queste condizioni è ovvio che i partiti d’opposizione del sud e del nord intendano boicottare il voto.
Gli osservatori europei hanno dal canto loro riportato che “In alcune zone del Darfur la violenza è terribile e gli aiuti umanitari non possono arrivare così come non possiamo arrivare noi stessi”.
Tra gli osservatori internazionali presenti nel Paese per monitorare l’andamento delle elezioni c’è anche l’ex presidente americano Jimmy Carter il cui osservatorio internazionale, il Carter Center; ha inviato nel paese africano 65 osservatori mentre quelli inviati dall’Unione Europea sono 130.
Il segretario generale delle UN Ban-Ki-moon ha dal canto suo auspicato che il mandato che prevede la presenza di truppe Onu nel paese fino alla fine del mese di aprile possa essere rinnovato per un antro anno per favorire lo svolgimento del referendum del prossimo gennaio.

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Per vedere i video www.pustetto.it

giovedì 8 aprile 2010

Sri Lanka: al voto con terrore


In un clima a dir poco arroventato si vota oggi in Sri Lanka dalle 7 alle 16 (ora locale) nelle prime elezioni parlamentari dopo la sanguinosa guerra civile che ha contrapposto per 26 anni le truppe governative ai separatisti del Tamil Tiger e che si è conclusa nel maggio dello scorso anno.
Nel paese sono stati aperti 11.098 seggi nei quali stanno lavorando 123 mila scrutinatori. Oltre 70 mila poliziotti e militari sono impegnati nel garantire l’ordine pubblico. Il presidente Mahinda Rajapaksa aveva sciolto il parlamento lo scorso febbraio dopo la sua vittoria alle elezioni presidenziali del 26 gennaio in cui aveva battuto con 1 milione 8 mila voti (così come è raccontato in un apposito post) l’ex capo dell’esercito Sarath Fonseka attualmente in carcere con l’accusa di corruzione e tentata insurrezione e in attesa di essere giudicato dalla corte marziale.
I candidati al parlamento sono complessivamente 7.620 suddivisi tra 36 partiti e 10 movimenti indipendenti
Gli elettori sono oltre 14 milioni e le previsioni dicono che l’Alleanza United People’s Freedom Alliance (UPFA) che fa capo al presidente in carica dovrebbe vincere i due terzi della maggioranza necessari per avviare le riforme costituzionali.
Le conseguenze della guerra civile sono ben visibili nell’isola in cui la situazione economica è gravissima e dove migliaia di persone vivono ancora nei campi- profughi.
La campagna elettorale è stata contrassegnata da innumerevoli scontri, di cui alcuni a fuoco. Ulteriori polemiche si sono scatenate in questi giorni a causa del mancato rispetto della data di chiusura della campagna elettorale (lunedì scorso a mezzanotte) da parte di alcuni candidati che hanno continuano a tenere comizi in luoghi pubblici e che si sono rifiutati di rimuovere i loro manifesti.
Non più tardi di ieri notte il principale partito d’opposizione United National Party (UNP) ha accusato il governo di aver utilizzato automezzi ed edifici pubblici per fare campagna elettorale e di aver costretto la stampa a sostenere unicamente il partito del presidente in carica bloccando le testate indipendenti e facendo rapire i giornalisti oppositori del governo
Il sistema elettorale dello Sri Lanka è a rappresentanza proporzionale e vengono eletti al parlamento i candidati che hanno ottenuto la maggioranza dei voti e quindi delle preferenze. E’ proprio la lotta per le preferenze che ha determinato numerosi scontri tra candidati dello stesso partito. Si è trattato di scontri fisici che hanno causato 51 feriti mentre sono circa 72 le persone finite in ospedale a causa della tensione creata dal clima elettorale. Le autorità del paese hanno dichiarato che da martedì a oggi ci siano stati circa 279 incidenti in uno dei quali è stata uccisa una persona.
Gli osservatori ritengono che le minoranze Tamil e Musulmane che si trovano nel nord e nell’est del paese possano influenzare il voto soprattutto nei collegi in cui nelle elezioni presidenziali aveva ottenuto la maggioranza dei voti il generale Fonseka.
La sfida del presidente in carica è di vincere con larga maggioranza nel sud del paese per compensare i voti delle aree abitate dalle minoranze.



mercoledì 7 aprile 2010

L'IMMAGINE DEL LABOUR PARTY



LA COMUNICAZIONE DEI TORIES (CAMERON)







Il voto inglese: tutto da vedere.

Labour Party


Conservative Party


Campagna elettorale





Discussion

IN GB AL VOTO IL 6 MAGGIO


The starting gun has been fired at last.

After months of preliminary skirmishing among Britain's political parties, Prime Minister Gordon Brown asked Queen Elizabeth II on Tuesday to dissolve Parliament, triggering what many observers expect to be the most closely fought national election in decades. Britons go to the polls May 6.

As the official campaign got underway, all parties agreed on at least the key issues: tackling Britain's enormous deficit, bolstering the country's fragile economy and protecting public services.

Brown's Labor party has been in power for 13 years, but the 59-year-old leader is seeking to win his first national election. (He succeeded Tony Blair, who stepped down in 2007).

In Britain, the electorate votes for a party, not a president, and the Conservatives are currently leading by as much as 10 points in some opinion polls. But the margin is still close enough that many predict a hung Parliament, in which no party has a majority and has to seek deals with others. If that happens, the third-party Liberal Democrats could decide who becomes prime minister.

The closeness of the race marks a dramatic change since December, when Conservative leader David Cameron appeared set to sweep into power with an outright majority. If his party does win, the 43-year-old would be the youngest prime minister in nearly two centuries.

Washington Post Staff Writer
Tuesday, April 6, 2010; 6:22 PM
http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2010/04/06/AR2010040602931.html?wpisrc=nl_politics

sabato 3 aprile 2010

Chi ha vinto, chi ha perso, di quanto e dove?

L’Istituto Cattaneo di Bologna ha effettuato alcune elaborazioni dei risultati del voto regionale appena conclusosi per determinare quanto i maggiori contendenti abbiano riscosso maggiori o minori consensi rispetto alle precedenti elezioni regionali del 2005. Fra i risultati più importanti si possono citare:

La Lega Nord ha pressoché raddoppiato i consensi, passando dai quasi 1 milione 380 mila voti nel 2005 (nelle sole 13 regioni che hanno appena votato il 28 e 29 marzo) agli attuali 2 milioni 750 mila (+1 milione 370 mila voti). Si tratta di un avanzamento generalizzato in tutte le regioni del Nord e anche in quelle “rosse”. Molto forte la crescita nelle Marche (voti quasi sestuplicati) e in Toscana (consensi triplicati), anche se in quelle zone la Lega partiva da valori assoluti relativamente bassi. Ma anche nelle regioni in cui la Lega Nord aveva già una presenza radicata si registrano avanzamenti notevoli, specie laddove il candidato a presidente del centro-destra era un rappresentante della Lega: +134% nel Veneto (+450 mila voti), +83% in Piemonte (+144 mila), +61% in Lombardia (+424 mila voti). Anche in Liguria (+38 mila voti) e in Emilia-Romagna (+180 mila) si osserva uno sviluppo ragguardevole: +100% e +165%. Si tratta di un risultato ancora più rilevante alla luce dell’astensionismo che ha caratterizzato queste consultazioni.

Il Popolo della libertà, rispetto ai suoi predecessori del 2005 (Forza Italia e Alleanza nazionale), ha perso 1 milione 69 mila voti (ossia il 15%). Com’era prevedibile, una parte consistente di questo calo si registra nel Lazio (–600 mila voti) per effetto dell’esclusione della lista Pdl in provincia di Roma e quindi non può essere imputato a una minore attrattiva del partito nei confronti dell’elettorato. Ricordiamo che nel 2005 An e Forza Italia hanno raccolto 610 mila voti in provincia di Roma. Ma il Pdl conosce comunque un calo marcato anche nelle regioni settentrionali – Piemonte (–178 mila, –27%), Lombardia (–162 mila, – 11%), Veneto (–154 mila, –22%) – e “rosse” – Emilia-Romagna (–99 mila voti, -16%), Toscana (–95 mila, –19%). In due regioni del Sud, al contrario, il Pdl avanza: +224 mila voti in Campania (+35%) e +47 mila voti in Calabria (+21%)

Nel complesso, il Popolo della libertà e la Lega Nord hanno guadagnato 301 mila voti nelle tredici regioni in cui si è votato (quasi 900 mila se si esclude dal computo la provincia di Roma). Questo avanzamento si concentra nelle regioni Lombardia (+262 mila voti), Veneto (+297 mila voti), Campania (+224 mila), Emilia-Romagna (+80 mila) e Calabria (+47 mila). Si assiste invece a un calo di consensi in Piemonte (–35 mila), Toscana (–19 mila).

L’avanzamento del centro-destra è stato accompagnato da un notevole riequilibrio nei rapporti di forza all’interno del centro-destra: se nel 2005 i consensi di Forza Italia e Alleanza nazionale erano 5,1 volte superiori ai consensi della Lega Nord, nel 2010 questo rapporto è sceso ad appena 2,2. Detto altrimenti, se nel 2005 la Lega Nord incideva per il 16% sul complesso dei consensi del centro-destra (nella sua accezione più ristretta), ora essa incide per 31%, ossia ha quasi raddoppiato il suo peso entro la coalizione.

Il Partito democratico perde 2 milioni di voti rispetto ai consensi raccolti dai Democratici di sinistra e dalla Margherita nel 2005, ossia circa un quarto (-26%) dell’elettorato dei suoi predecessori. Si tratta di un arretramento generalizzato, con accenti diversi: molto marcato in Calabria (–52%), pronunciato in Campania (–36%), Basilicata (-35%) e Piemonte (-30%). Viceversa, le perdite sono state più contenute in Lazio (–14%), Lombardia (–18%) e Veneto (–19%).





Anche in seno al centro-sinistra, dunque, c’è stato un forte riequilibrio dei rapporti di forza: se nel 2005 i consensi di Democratici di sinistra e Margherita erano 23,4 volte superiori a quelli dell’Idv, nel 2010 questo rapporto è sceso a 3,7. Detto altrimenti, se nel 2005 l’Italia dei valori incideva per appena il 4% sul complesso dei consensi del centrosinistra (nella sua accezione ristretta di coalizione), ora essa incide per 21%, ossia ha quintuplicato il suo peso nella coalizione.


L’Udc di Pierferdinando Casini ha perso voti rispetto al 2005: –227 mila voti, ossia –15%. L’arretramento pare essere per lo più indipendente dalle alleanze strette nelle diverse regioni: il partito centrista ha perso consensi ovunque, tranne che in Liguria (dove appoggiava il candidato di centro-sinistra), Toscana (dove correva da sola) e in Campania (dove appoggiava il candidato di centro-destra). Nel complesso, tuttavia, il declino dell’Udc è stato più forte laddove si è alleato con il centro-sinistra.



La sinistra radicale esce sconfitta rispetto al 2005. In tutto, i partiti della sinistra radicale hanno perso 1 milione 274 mila voti, ossia quasi la metà (–48%) del loro elettorato di cinque anni fa. Si tratta di un fenomeno diffuso uniformemente sul territorio, con una significativa eccezione: la Puglia, dove i partiti di sinistra avanzano di 72 mila voti (+38%).


Infine, vale la pena di notare il risultato del Movimento 5 stelle-Beppe Grillo, che ha raccolti i consensi di 390 mila elettori nelle cinque regioni in cui si è presentato. Il risultato migliore in Emilia-Romagna, con il 6% dei voti validi. Ma è possibile che il ruolo più rilevante sia stato svolto dal Movimento 5 stelle in Piemonte, dove ha conseguito il 3,7% dei consensi e il candidato di centro-sinistra ha perso con un margine di appena 0,42 punti percentuali.

http://www.cattaneo.org


giovedì 1 aprile 2010

Le monde, the word e l'Italia

LOVE ALWAYS WINS


L'AMOUR...


SCANDALS


LE SHOW

Le elezioni viste dagli altri

http://www.libertiamo.it/2010/04/01/le-elezioni-italiane-viste-da-fuori/
La stampa internazionale, facciamocene una ragione, non è mai particolarmente prodiga di attenzioni nei confronti della politica del nostro paese. Se ne parla – inutile edulcorare la pillola – significa che Berlusconi si è reso protagonista – vittima o promotore – di una di quelle sue bizzarre trasgressioni al galateo istituzionale universalmente giudicato consono ad un primo ministro.

Di queste elezioni regionali, invece, si è parlato molto, sulla international press sin dalla vigilia. E l’opinione prevalente era che il “test” elettorale avrebbe riservato al leader del governo italiano una sonora débacle.

Si pensi, ad esempio, a cosa scriveva l’Independent, quotidiano amato dalla sinistra-sinistra britannica (il quale, oltretutto, è appena stato salvato dal fallimento grazie all’acquisto da parte del magnate-editore russo naturalizzato in Uk, Alexander Lebedev, già proprietario del London Evening Standard nonché della Novaya Gazeta, il periodico democratico-libertario moscovita sul quale scriveva la compianta Anna Politkovskaya). Ebbene, la testata enfatizza “gli insulti verbali lanciati dal Primo Ministro Silvio Berlusconi alla volta di una donna politica di opposizione” (leggi: Mercedes Bresso), durante il noto comizio piemontese. Secondo l’autore dell’articolo, un simile eccesso del premier sarebbe stato da imputarsi “al calo di consensi ed alla prospettiva di una sconfitta umiliante”. Profetico, no?

Sempre sulle corde dell’indignazione, anche il pezzo della vigilia a noi riservato dall’Economist. Nel cavalcare l’evergreeen del Berlusconi-museruola dei media – un classico del settimanale economico londinese declinato, ormai da un quindicennio, in tutte le ricorrenze comandate, tipo, appunto, le vigilie elettorali – l’Economist aggiorna i lettori appassionati delle malefatte del tirannide tycoon con le new entry nell’universo delle mostruosità, nella fattispecie Augusto Minzolini e gli AgCom’s friends. L’impalcatura della trama costruita dal settimanale regge al tempo, come un format di qualità. Ma non regge alla realtà, poiché, constatato il risultato, l’autorevole testata dovrà poi correggere il tiro e titolare
“A surprisingly good result for Italy’s prime minister”. Ma qui siamo già al dopo.

Ancora della vigilia è invece l’ironico contributo del Journal du Dimanche, quotidiano vicino alla destra sarkoziste, che ripercorre la “epica campagna” del Cavaliere, descrivendola una “commedia dell’arte” combattuta a suon di manifestazione con 150.000 partisans ed il supporto di bizzarre iniziative editoriali, tipo il tomo “sobriamente intitolato” L’amour l’emporte toujours sur l’envie et sur la haine. Puntuale, il giornale spiega che l’opera, “dedicata all’Italia che sa amare”, raccoglie una parte delle 50.000 testimonianze ricevute dopo l’aggressione, nelle quali i fan esortano il premier a “clonarsi”. “Proprio come un topo”, chiosa l’autore dell’articolo.

Sempre rispetto alla preveggenza della stampa straniera sui fatti nostrani, si segnala infine un fenomeno curioso. Appena qualche giorno prima dell’apertura delle urne, il Times dedicava un pezzo a “Little Renato” ed alla sua corsa alla conquista della città lagunare. A rapire la testata della New Right d’Oltremanica, le “big ideas to revive dying Venice” avanzate dal Ministro Brunetta. Come dire, se solo i veneziani avessero letto il Times, il ministro-candidato avrebbe magari pure potuto farcela!

Con queste premesse, è comprensibile lo straniamento della international press a cospetto di un risultato che, beh, non è affatto – come ci si attendeva – assimilabile alla débacle subita in Francia da Sarkozy. E così, se il conservatore Times sottolinea la svolta a destra della coalizione di Berlusconi – e se simpatia c’è, non la si lascia trapelare – il progressista Guardian relativizza l’esito: la partecipazione è stata la più bassa nella storia, quindi la vittoria, praticamente, non è una vittoria.
È poi da rimarcare, secondo il quotidiano della sinistra liberal, l’avanzata della Northern League, di cui è d’uopo nutrire inquietudine. Sentimento, questo, ben espresso dall’immagine scelta a corredo dell’articolo – Bossi senior e Bossi Trota con spadone minaccioso – che, certo, agli occhi del britannico lettore proprio rassicurante non deve esser apparsa.
Il Financial Times – in maniera impeccabile – constata i fatti senza perdersi in interpretazioni: “Berlusconi makes gains in regional elections” – osserva – e tuttavia non ignora come il Partito democratico di Pierluigi Bersani, “quarto leader in appena due anni”, pur avendo patito una “sconfitta totale”, abbia ritenuto di rivendicare l’avanzata rispetto alle ultime europee.

Le Figaro, all’indomani delle urne, dedica un pezzo alla vittoria di Stefano Caldoro. Chissà perché proprio lui e non – chessò! – la Polverini. Beh, il sospetto c’è. Ed il sospetto è che visto che il week-end elettorale era metereologicamente perfetto per una gitarella sulla costa partenopea, il collega francese ne abbia legittimamente approfittato. Il suo pezzo, a onor del vero, lo fa per benino. Si intitola La Campanie gagnée par un poulain du “Cavaliere” e racconta il neogovernatore proto-craxiano – qui appunto definito “pupillo” del Cavaliere – con pregevole verosimiglianza. In pratica, un fedele résumé dei ritratti pre-elettorali dedicati dalla stampa italiana a pochi giorni dall’apertura delle urne, all’ancora semisconosciuto candidato.

Il palmarès della creatività, tuttavia, va a Le Monde ed al contributo audiovisivo prodotto dal corrispondente in Italia assemblando qualche foto d’archivio – Bossi e Berlusconi, Bossi da solo, Zaia, la prima della Padania… – con accompagnamento di commento sonoro nel quale si racconta della “Ligue du Nord, parti populiste et xénophobe”, nonché “allié au Peuple de la liberté de Berlusconi”, che “dirigera pour la première fois deux régions, la Vénétie et le Piémont.” Et voilà!
E, per illuminare i lettori sulle caratteristiche inquietanti del partito di Umberto Bossi, l’audio-commentatore cita il federalismo fiscale che – ammonisce – “è una roba un po’ complicata da spiegare” ma che, insomma, più o meno consiste nel fatto che il ricco nord non ha più voglia di sprecare il proprio denaro per il sud povero.
Chiaro, no?


Ciao ciao Pd? Rondolino sa quel che dice


http://www.thefrontpage.it/2010/04/01/il-pd-rischia-di-dissolversi-se-non-diventa-il-pd/
Azzardo una tesi: il Pd rischia di implodere. Non lasciamoci fuorviare dall’apparente bonaccia. Lì preparano l’ennesima resa dei conti. E’ vero: ci apettano tre anni senza fibrillazioni elettorali. Per un partito ambizioso e unito questa sarebbe la condizione ideale per investire sul futuro e per costruire un progetto e una classe dirigente per l’alternativa. Per un partito disunito e in cui covano rancori interni e ambizioni mediocri è vero il contrario: tre anni senza elezioni sono un’occasione ghiotta per immaginare scenari di ogni tipo per regolare conti o sognare rivincite personali.

Propendo per una previsione catastrofica: si divideranno e si aggroviglieranno. Ponendo le premesse per una sconfitta epocale del centrosinistra. Il segretario del Pd sta sbagliando l’approccio. Non ha alcun interesse a cacciare i problemi sotto il tappeto. Bersani farebbe meglio a dire: è vero, abbiamo perso. E a fare il seguente ragionamento: le elezioni, così ravvicinate al cambiamento di leadership del Pd, confermano le ragioni della svolta del congresso e ci impongono di accelerare e realizzare un cambiamento di profilo, di programmi e di alleanze.

Al leader attuale spetta il compito di proporre un indirizzo chiaro e coraggioso. E di richiedere che ad esso si accompagni un corollario conseguente: un patto politico interno perché, se intorno a tale indirizzo si raccoglie una maggioranza, il gruppo dirigente abbia tre anni di stabilità per realizzare il progetto politico indicato. Naturalmente il succo del discorso dovrebbe stare nei contenuti. Spettasse a noi, riformisti incorreggibili, conseguenti e orfani di una classe dirigente e di un partito da ambizioni nazionali, ce lo figureremmo organizzato intorno a pochi e chiari punti. Tali, però, da rappresentare un indubbio cambiamento di profilo politico.

Primo: uscire da questa ridicola diatriba tra “vocazione maggioritaria” e/o “politica delle alleanze”. Il primo compito di un partito è mostrare una percepibile e visibile identità. E l’identità di un partito è fatta degli obiettivi, delle riforme e della visione che offre del futuro del Paese. E’ questo il punto chiave. Le alleanze o, al contrario, la decisione di andare da soli, vengono dopo e sono solo conseguenti e strumentali allo scopo di raccogliere una maggioranza sul progetto che si indica per il governo del paese. Che senso ha dividersi oggi su Vendola e, peggio ancora, su Di Pietro (e magari Grillo) o Casini? Nessuno. Un partito serio e ambizioso rimanda queste discussioni all’imminenza del voto. Il tema di oggi è l’identità del Pd, non con chi decide di accompagnarsi.

Secondo: dichiarare finita, archiviata e gettata alle anticaglie la concezione di una lotta politica ridotta alla farsa della “guerra civile” permanente e dell’esasperazione ossessiva e demonizzante del berlusconismo. Sono 15 anni e più che la sinistra si lascia impantanare, sistematicamente, in questa autentica palude da cui esce sempre e irrimediabilmente perdente. E’ ora che cambi l’agenda. E che cambi la lettura che l’opposizione fa dell’Italia di oggi.

L’ansia e l’ossessione del berlusconismo portano a disegnare un paese irreale e, dunque, un’agenda politica dell’opposizione incomprensibile al paese reale. E fondata su due premesse entrambe non percepite dagli elettori concreti e in carne ed ossa: che in Italia esista un regime illiberale da cui liberarsi con gli strumenti prepolitici della via giudiziaria e della protesta viola; che in Italia siamo nel pieno di una crisi economica catastrofica e dagli esiti pauperizzanti e socialmente devastanti.

Uno guarda alla Grecia, confronta i propri dati macroeconomici con quelli della…Germania o della Francia (peggio dei nostri), ascolta in tv i giudizi insospettabili dei dirigenti del Fondo Monetario sulla situazione economica dell’Italia e tira le conseguenze. Nessuna sinistra ha mai prosperato o tratto profitto dal catastrofismo economico. Al contrario: le grandi fortune del riformismo europeo nascono dalla capacità della sinistra di imporre un’agenda per lo sviluppo e la crescita. E, oggi, anche per cambiare la politica fiscale e per modernizzare lo stato sociale. La sinistra si è illusa sugli esiti della crisi economica. E’ ora che riapra gli occhi. E torni a parlare un linguaggio non inutilmente catastrofico e che lasci intravedere, nelle sue proposte, miglioramenti positivi e progressivi nella condizione sociale ed economica della maggioranza dei cittadini.

Terzo: sfidare il governo a fare sul serio le riforme politiche. E fare dei passi evidenti perché risulti la disponibilità chiara e incontestabile dell’opposizione al confronto per le riforme. Tre anni sono un tempo sufficiente per realizzare un pacchetto condiviso di innovazioni sul federalismo, sulla giustizia, sul completamento di un moderno assetto bipolare del sistema politico. Di esse ha bisogno il Paese, è ovvio. Ma di esse ha bisogno l’opposizione se vuole scommettere su una ripresa politica e di consensi nella sfida del 2013. E Bersani dovrebbe dire la verità ai suoi (infidi) alleati: per il Pd questa è una priorità assoluta. Non subìta o percepita con imbarazzo. E’ una priorità che non si concilia con la pretesa di tenere sotto lo scacco della soluzione giudiziaria la guida del governo. Che porta solo all’immobilismo e all’esasperazione inconcludente della lotta politica.

Infine. Fossimo in Bersani dichiareremmo conclusa la lunga fase della alimentazione parassitaria, con i voti del Pd, delle avventure politiche più diverse a sinistra del Pd. Mi spiego. In tutti questi anni l’insediamento elettorale del Pd è stato sottoposto al continuo risucchio di un’idrovora insaziabile: prima l’estrema sinistra e poi il giustizialismo di Di Pietro. Martellando l’elettorato del Pd con un continuo ed esasperato rilancio massimalista, essi hanno costruito la propria fortuna politica sulla scommessa di una ininterrotta redistribuzione dei consensi nella sinistra: dal Pd verso le componenti radicali e massimaliste prima, e verso l’Idv poi.

Questo flusso, continuo e debilitante, ha indotto nei comportamenti politici dei dirigenti del Pd una sorta di strabismo: più il Pd perdeva verso la sponda massimalista e giustizialista, e più si inchiodava in una rincorsa al recupero inglobando valori, atteggiamenti e parole d’ordine del variegato arcobaleno massimalista e giustizialista. E più si impegnava in questa rincorsa, più perdeva voti verso questo mondo. E più si impantanava in questa assurda e testarda rincorsa a sinistra, più si appannava il profilo riformista e si allargava il varco verso l’elettorato moderato.

Questa politica sciagurata ha contraddistinto tutti i gruppi dirigenti del Pds/Ds prima e del Pd poi, senza eccezione alcuna. Il corpaccione elettorale della sinistra di governo, ereditato da una storia secolare, è diventato, in questi 20 anni, una sorta di serbatoio a disposizione delle avventure elettorali e professionali più variegate, ma con un unico e ricorrente segno distintivo: incalzare da sinistra il Pd; attaccare da quel lato del campo perché lì esso mostrava il punto debole e vacillante.

Inseguendo l’agenda massimalista e riconoscendone le ragioni, il Pd ha aperto il varco al maneggio del suo serbatoio elettorale. Che è diventato un invitante banchetto per radical chic, guitti, questurini, giacobini, magistrati democratici tentati dalla politica, comunisti in permanente rifondazione, improbabili anchormen mediterannei che hanno prosperato sulla rendita offerta loro dal sacrificale autodafè della sinistra di governo. E’ così che dopo vent’anni, nessuno lo dice, la sinistra di governo si ritrova inchiodata alle percentuali elettorali più basse della sua storia. Fossimo in Bersani dichiareremmo finita la festa. E smontato il banchetto. Ma lo farà?