venerdì 29 febbraio 2008

CREVER D'ENVIE


Mentre il numero degli italiani non in lista è sempre più esiguo (nella mia città si presentano circa 10 liste, civiche e non, con 40 candidati l'una: praticamente un candidato ogni 150 elettori) il tormento che vivo riguarda ancora una volta monsieur le President. Capisco di essere compulsiva ma non comprendo perchè una signora impalmata all'Eliseo, bella che più bella di così non si può, il massimo che si concede sono le ballerine (i centimetri in più o in meno fanno SEMPRE la differenza, ca va sans dire) con calzoni e camicetta neri. Io, fetish&fashion addict, che mi aspettavo che da quegli armadi uscissero i fari che mi avrebbero indirizzata alla più squisita eleganza post Jackie, mi ritrovo a chiedermi come posso emulare una tizia che ha optato per il back basic come una qualsiasi commessa di Zara. Fosse una mia vicina in gramaglie non avrei nulla da obiettare ma essendo costei quella che trasformerebbe anche un moccio in un Dior di saison (nessun riferimento al President, per carità!), mi chiedo perchè mai abbia buttato la chiave dei suoi armadi nella Senna come una sua qualsiasi collega in pensione, lasciandomi in balia del last look di Vogue.
Mi consola il pensiero che nella Maison Hermes siano ancor più depressi di me. Già li vedo che stavano pensando di affiancare alla Kelly la Sarkò (con liste di attesa di almeno 20 anni) e quella non solo non esibisce i loro articoli ma non esibisce nemmeno una misera pochette. Insomma, la modella senza modelli mi sta seriamente imbarazzando al punto da convincermi che se invece di finire sotto la Torre Eiffel fosse rimasta sotto quella Antonelliana, DabliuVì avrebbe fatto carte false per ingaggiarla.
Vicino a quella del call center, all'operaio, al rampante e a chi più ne ha più ne metta, la degna rappresentante del beauty in Italy avrebbe fatto fare al next premier (He can) la sua bella figura. Credo che il bamboccione romano si stia mangiando le mani per aver perso questa succulenta opportunità di qualificare esteticamente il suo partito. Che occasione mancata! Una ragazza dall'aspetto così democratico, condannata alle piannelle da chambre ed esclusa dalla Camera! Vuoi mettere con quelle due scatenate della destra, piene di mascara e di rossetto e di silicone e di botox. La vera rappresentazione delle destra più bieca. Quella che si mette il rimmel dopo averci sputato sopra e non ha la mano ferma nel farsi il contorno labbra. Insomma, di donne comme il faut non c'è traccia. A questo punto, è ovvio, di pari opportunità non se ne parla.

COGITO

La predisposizione delle liste elettorali rappresenta il punto più alto dell' ipocrisia politica.

FACCIA A FACCIA ALL'ITALIANA


Mentre negli Stati Uniti Hillary Clinton e Barack Obama si confrontano in tv per le primarie (e soprattutto insegnano come ci si confronta davanti alle telecamere) noi, come al solito, riusciamo a trovare la soluzione più inutile e mortificante: il faccia a faccia virtuale. Cioè inesistente.

La commissione di Vigilanza, l’organismo attraverso cui i politici mettono sotto tutela la tv, ha infatti stabilito che l’unica possibilità per la Rai è quella di «fare una sola tribuna con tutti i candidati premier presenti», ovviamente vigilando «strettamente sul rispetto del principio delle pari opportunità che regola la seconda parte della campagna elettorale». Siccome i candidati premier sono più di quattro, per fare singoli confronti servirebbero più di 50 trasmissioni: un delirio. Per evitare un simile affollamento (che peraltro creerebbe solo saturazione) si è preferito tagliare la testa al toro.

Il che significa che non vedremo mai il confronto diretto fra Silvio Berlusconi e Walter Veltroni. Lontano dal clima scolastico delle «Tribune elettorali», quando un moderatore teneva a freno l’indisciplina di politici e giornalisti, non riusciamo a piegare la tv a favore della democrazia. Alla base di tutto c’è un problema di comunicazione che è sempre più centrale nella vita delle istituzioni. I nostri politici sono troppo abituati alla «cortesia istituzionale» (la politica come talk show, dove la lusinga prevale sul confronto) e non tollerano domande imbarazzanti. Si concedono volentieri all’applauso ma non al contraddittorio.

Questa spettacolarizzazione ha reso la politica povera di contenuti ma ricca di abiezione televisiva, insulti compresi. Come se ne esce? Immaginando e praticando nuovi scenari mediatici e lasciando la tv generalista al suo destino, alla sua Vigilanza.

Aldo Grasso

mercoledì 27 febbraio 2008

Memorandum

La politica è l'arte del tradimento. L'avevo già scritto e forse anche già letto. Giova però ripeterlo.

I SOLITI IGNOTI

Un vispissimo e giovanissimo giornalista in carriera ha scritto un libro (diario?) sulla storia della politica locale negli ultimi, più o meno, trent'anni.
Prima di comprarlo (non si finisce mai di imparare...) ho dato un'occhiata all'indice dei nomi (quello che giustifica tutto il libro) e ho scoperto che ne mancano almeno due. I noti ci sono tutti, gli ignoti no. Non l'ho comprato.

Sondaggi faziosi

di ILVO DIAMANTI

Berlusconi si è molto risentito, nei giorni scorsi, contro il PD e i giornali di sinistra. I quali farebbero, a suo avviso, informazione scorretta perché presentano sondaggi diversi da quelli di cui lui, personalmente, dispone. Che lui personalmente commissiona, visiona e divulga. E i sondaggi che Berlusconi personalmente commissiona, visiona e divulga danno il PdL sopra il PD di 10 punti percentuali. Non 6, come invece indicano i sondaggi artefatti commissionati dal PD e dai giornali di sinistra. (Sospettiamo che in questo giudizio c'entri, in qualche misura, l'Atlante Politico che abbiamo pubblicato su "la Repubblica" lunedì scorso).

In effetti, tutti sanno che Berlusconi non ha mai bluffato, con i sondaggi. Non li ha mai usati come strumenti di campagna elettorale, come profezie che si autoavverano. In fondo, due anni fa, ha avuto ragione lui. I suoi sondaggi "personali", commissionati a una nota agenzia americana, davano la CdL in parità già a metà febbraio. Quando tutti gli altri, invece, la stimavano in svantaggio di 5-6 punti. Come oggi il PD.

Effettivamente, due mesi dopo, fu sostanziale pareggio. Aveva ragione lui, quindi. Ne siamo davvero certi? Aveva ragione lui? Oppure quel sondaggio "profetizzava" ciò che sarebbe avvenuto due mesi dopo? Anche grazie all'incertezza che avrebbe suscitato, riaprendo una competizione considerata, dagli elettori, già chiusa? Chissà... Certo che, dopo il voto, il Cavaliere continuò a polemizzare duramente con gli alleati. Che non gli avevano creduto e non l'avevano sostenuto. (Magari per scelta consapevole). Aveva rimontato da solo, sostenne. Bastava una settimana di campagna elettorale, qualche trasmissione ancora: avrebbe completato la rimonta e realizzato il sorpasso.

Curiosa recriminazione, visto che i "suoi" sondaggi avevano registrato il pareggio due mesi prima del voto. Evidentemente il suo attivismo feroce nelle ultime settimane di marzo, compresa la grande performance all'assemblea degli industriali di Vicenza, l'ultimo faccia-a-faccia televisivo con Prodi, a pochi giorni dal voto (quando aveva scandito: "E infine toglieremo l'ICI. E forse anche la tassa dei rifiuti"). Non gli avevano fatto recuperare nulla. Ma, perfino, perdere qualcosa. In fondo era sul pari già due mesi prima...

Così, nei giorni scorsi, si è indignato. Perché i "suoi" sondaggi lo danno in vantaggio di dieci punti, non di 6 e mezzo. Il che genera, comunque, qualche dubbio. Visto che sabato scorso, al convegno degli amici di Giovanardi, usciti dall'Udc per confluire del PdL, Berlusconi aveva sostenuto che il vantaggio del PdL era di "12 punti". Due punti persi in due giorni. Il rischio è che, fra un paio di settimane, le stime del Cavaliere decretino il pareggio...

Il problema è che il Cavaliere interpreta sempre in modo creativo i "suoi" sondaggi. Che nel 1994 stimavano FI al 30%. Ottenne il 20%, ma pazienza: vinse egualmente. Nel 1996 assicuravano il successo del Polo delle Libertà. Si affermò l'Ulivo. Ma, sappiamo, a volte sbagliano gli elettori, non i (suoi) sondaggi. Nel 2001, invece, prevedevano il trionfo della CdL sull'Ulivo. Con oltre 10 punti percentuali di vantaggio.

Vinse sul serio. Ma con un punto in più, alla Camera.
Non importa. Perché il "senno di poi", nei sondaggi, non conta. Importa il "senno di prima". Le stime in tempi di campagna elettorale. Perché, effettivamente, entrano in campagna elettorale. Condizionano i sentimenti e gli atteggiamenti. Così oggi il Cavaliere si irrita se i sondaggi lasciano intendere che la partita è ancora aperta. Se fanno dubitare agli elettori che "la festa appena cominciata è già finita". Meglio discutere subito dei ministeri e degli incarichi istituzionali, così non perdiamo tempo... Per cui impone la verità dei "suoi" sondaggi. Contro tutti gli altri. Tutti. Non solo quelli del PD e dei giornali della sinistra. Perché Ipsos attribuisce al PD (e ai suoi alleati) 7 punti in più del PD (e liste collegate). Lo stesso, SWG. Peraltro, il Corriere della Sera aveva proposto, nei giorni scorsi, stime elettorali di Demoskopea che davano ragione al Cavaliere: 9 punti di vantaggio per il PdL. Ma la nuova rilevazione di Demoskopea per Sky Tg 24, di oggi, si allinea a sua volta: 7 punti di distacco.

Infine, vediamo il sondaggio di "fiducia" a cui fa riferimento il Cavaliere. La direttrice di Euromedia Research rivela in esclusiva al quotidiano on-line "Affari Italiani" che il distacco fra i due maggiori competitors è "compreso tra gli 8 e i 10 punti percentuali, in quanto è tra il 44 e il 46% la coalizione che indica Berlusconi premier e tra il 36 e il 38% quella che indica Veltroni" ("Affari Italiani", Martedì 26.02.2008, 14:32). Insomma: fra 10 e "8 punti". A metà: tra i sondaggi del Pd e quelli "personali" - nell'interpretazione "personale" - di Berlusconi.

Il problema è che i sondaggi non pre-vedono: vedono e misurano il presente. O, almeno, ci provano. Chi meglio, chi peggio. Possono servire a rilevare la distribuzione dei consensi in un determinato momento. Indicare quanti e chi sono gli incerti. Cosa pensano, cosa potrebbero decidere in seguito. Ma poi, alla fine, contano le elezioni. E, da qui alle elezioni, contano i comportamenti degli attori politici. La campagna elettorale. I media. Naturalmente, gli attori politici e la campagna elettorale occupano principalmente i media. Inoltre, i sondaggi contribuiscono allo spettacolo della campagna elettorale. Quindi, a definire e a modificare l'opinione pubblica. Per cui, quando sono resi pubblici, diventano - anzi, sono - strumenti di campagna elettorale. Indipendentemente dalla volontà e dalla qualità. Per questo suscitano tanta attenzione e tanta reazione. Rischiano di apparire profezie che si auto-avverano.

Berlusconi lo sa bene. Ne è stato, dal 1994, l'interprete più creativo. I sondaggi come forma di "pre-visione". Un modo per orientare "preventivamente" la "visione" e quindi le scelte degli elettori. Per questo è insofferente verso i dilettanti che pretendono di sfidarlo sullo stesso terreno. Verso gli analisti e gli istituti demoscopici che pensano, poverini, che i sondaggi servano solo a "vedere". No. Servono a "pre-vedere". Per cui vanno contrastati, se offrono "pre-visioni" moleste. Sgradevoli e sgradite. Se insinuano il dubbio che la partita non sia ancora chiusa. Se mobilitano gli elettori delusi e scoraggiati. Incerti se votare. Perché, al contrario di due anni fa, sono perlopiù di centrosinistra. Ma lo irritano, soprattutto, se ipotizzano che l'UdC (e la Rosa Bianca) non siano ancora scomparsi. Che abbiano ancora uno spazio elettorale. Anche il 6-7% - stimato dai sondaggi di sinistra e dai complici - è troppo. Perché si tratta di voti sottratti al PdL. L'unico bacino da cui il PdL possa ancora attingere. (A destra è rimasto poco). I suoi sondaggi non lo pre-vedono. In altri termini: alle elezioni "dovrà" ridursi a metà. E Casini sparire del tutto. Per cui, chi oggi vede e pre-vede diversamente: o è in malafede o è un comunista. Pardon: un "casinista".

TAROCCHI

Non riesco a liberarmi dalla condizione di cartomante elettorale. I candidati vorrebbero SEMPRE e prioritariamente delle previsioni (e questo spiega la dipendenza dai sondaggi). Io, ahimè, offro solo e rigorosamente organizzazione dopo aver elaborato con il candidato stesso una strategia decente. Che male di testa!

CAOS CALMO

Ho visto un film assolutamente idiota.

CANDIDANDO


Agguati, tradimenti, pugnalate alle spalle, promesse mancate, accordi sottobanco. Et voilà gli ingredienti della cosiddetta fase pre-elettorale che si sostanzia nella selezione dei candidati e che consente finalmente di capire in maniera inoppugnabile chi sono i reali king makers. Attenzione quindi: dall’analisi dei nomi dei candidati e dei loro sponsor emerge chi effettivamente detiene il potere perché, l’ho detto e ripetuto, in Italia quello della politica si manifesta proprio in questi giorni e in questo frangente.

Candidare una persona alla carica di sindaco o di presidente di Provincia o di Regione o alla Camera o al Senato è infatti l’intervento cardine che svela il decisore e il suo ruolo nella politica che, si sa, è fondamentalmente locale.

Gli incarichi di coordinamento (comunale, provinciale e regionale) in questa fase esprimono tutta la loro inconsistenza sopraffatti come sono da quanti – tramando e brigando – sono in grado di dare il via libera alle candidature più significative.

Mentre il leader nazionale solitamente si limita a riempire le caselle più sensibili per la sua sopravvivenza, alla ciurmaglia che governa il territorio ci pensano i luogotenenti locali che, per loro natura, operano prevalentemente nell’ombra e riferiscono via sms ai palazzi romani.

Quello della politica è un lavoro interinale che richiede intermediazioni di qualità sapendo che è più importante candidare che vincere.

Chi candida (il candidatore?) ha già vinto.

martedì 26 febbraio 2008

RETORICAZIONE

Finding Political Strength in the Power of Words
Oratory Has Helped Drive Obama's Career -- and Critics' Questions

The 2008 presidential campaign has witnessed the rise of a whole arsenal of new political weapons, including Internet fundraising and sophisticated microtargeting of voters. For Sen. Barack Obama, however, the most powerful weapon has been one of the oldest.

Not since the days of the whistle-stop tour and the radio addresses that Franklin D. Roosevelt used to hone his message while governor of New York has a presidential candidate been propelled so much by the force of words, according to historians and experts on rhetoric.

Obama's emergence as the front-runner in the race for the Democratic nomination has become nearly as much a story of his speeches as of the candidate himself. He arrived on the national scene with his address to the 2004 Democratic National Convention, his campaign's key turning points have nearly all involved speeches, and his supporters are eager for his election-night remarks nearly as much as for the vote totals.

But his success as a speaker has also invited a new line of attack by his opponents.

Sen. Hillary Rodham Clinton (N.Y.), fighting to keep her candidacy alive, has sought to cast Obama (Ill.) as a kind of glib salesman, framing the choice before voters as "talk versus action." Sen. John McCain (Ariz.), the likely Republican nominee, has picked up the attack, vowing to keep Americans from being "deceived by an eloquent but empty call for change."

Obama gave his rivals an opening to question his speechmaking recently when he borrowed a riff about the power of words that was used two years ago by Massachusetts Gov. Deval L. Patrick (D), a friend and informal adviser. But the episode also illustrated a basic fact about Obama's ever-evolving stump speech: It is replete with outside influences, from the Rev. Martin Luther King Jr. ("the fierce urgency of now") to Edith Childs, the councilwoman in Greenwood County, S.C., who inspired the "fired up, ready to go" chant that Obama used for months to end the speech.

To his critics, these influences are proof that Obama's rhetoric is less original and inspired than his supporters believe. "If your candidacy is going to be about words, then they should be your own words," Clinton said in Thursday's debate in Texas. ". . . Lifting whole passages from someone else's speeches is not change you can believe in, it's change you can Xerox."

To his admirers, this magpie-like tendency to pluck lines and ideas from here and there and meld them into a coherent whole is inherent to good speechwriting and part of what makes Obama effective on the stump. It has allowed him to adapt quickly to rivals' attacks, which he often absorbs into his remarks, parroting them and turning them to his advantage.

It has also allowed him to keep his speeches fresh, a challenge in a campaign in which he has given two or three a day, on average, in addition to a dozen or so major televised addresses along the way. And by continually tweaking his pitch with new material, he gives the impression that he is thinking things through in front of his audiences, instead of reciting a rote speech.

"He seems very deliberative," said Martin Medhurst, a professor of rhetoric at Baylor University. "He seems like he's actually thinking about what he is saying rather than just reading from a script."

The basic structure of Obama's speech has remained more or less the same: a statement of why he is running now, an account of the movement the campaign is building, a subtle argument for why voters should not "settle" for Clinton, a list of the things he would do as president "if you are ready for change," and finally an invocation, and rejection, of the arguments against his candidacy.

Along with swapping in and out new riffs for each section, Obama has learned how to adapt the speech in tone and in some of its details for each audience. This was most conspicuous in South Carolina, where he engaged in a running repartee with his mostly black audiences and sprinkled his words with local vernacular.

"It comes from his sense of an audience," said Gerald Shuster, an expert in political communication at the University of Pittsburgh. "He's doing a lot of impromptu when he gets to the stage; he looks out over the audience and has the ability to adjust it."

The clearest comparison, the experts say, is to John F. Kennedy, who like Obama was able to mix high seriousness and humor. The shared cadences with Kennedy are not entirely a surprise -- Obama's young speechwriters are steeped in the addresses of Kennedy and his brother Robert, and the campaign has been getting informal advice from Kennedy speechwriter Ted Sorensen.

But not even Kennedy was perceived as relying on his speaking skills as much as Obama is. "The main difference was that the 1960 campaign was much more substantive than the current campaign," Medhurst said. "There was no criticism of his eloquence or speaking ability," he said of Kennedy.

If Obama has not fallen into a rut as a speaker, it may be partly because he has only recently started performing at the level he is now. Though his oratory has invited comparisons to Kennedy and King (comparisons that make his critics scoff), he was not raised in a deep oral tradition as those men were -- King in his father's Atlanta church and Kennedy among Irish American pols and raconteurs and elite prep schools that stressed rhetoric.

In Obama's telling, he did not recognize the power of public speaking until he participated in an anti-apartheid rally in college and discovered that he had captured the demonstrators when he took the microphone. "The crowd was quiet now, watching me," he wrote in his 1995 memoir "Dreams From My Father." "Somebody started to clap. 'Go on with it, Barack,' somebody else shouted. 'Tell it like it is.' Then the others started in, clapping, cheering, and I knew that I had them, that the connection had been made."

As a community organizer in Chicago after college, Obama learned to make an activist pitch before small groups, but he often stepped back to let local residents who had joined the cause take the lead in speaking at events. At Harvard Law School, classmates recall being struck by Obama's deftness as a speaker in the classroom and in small discussions at the Law Review.

"There was a perception that this is a very gifted individual who has a way with words and an interest and ability in communication," said classmate Bradford Berenson, a Washington lawyer and former associate counsel in the Bush administration. But "these rhetorical and oratorical gifts have clearly developed and reached their full flower in the course of his adult political career."

That growth took a while. In the Illinois Senate, few recalled much memorable rhetoric from Obama, maybe because there was so little opportunity for it. "When you're speaking about a bill that increases the penalty for the possession of cannabis, how much can you address posterity in a speech like that?" said state Sen. Steven Rauschenberger, a Republican who served with Obama.

Obama's first real chance to address matters of higher import came in 2002, when he spoke at a rally against invading Iraq. Marilyn Katz, a longtime Chicago public relations consultant who helped organize the event, recalls it as a kind of coming-out for Obama as a public speaker.

"People who'd never heard of him said, 'Who is this guy?' " Katz said.

State Sen. Denny Jacobs, who served with Obama, said Obama may have learned some lessons from his unsuccessful 2000 bid for the congressional seat of Rep. Bobby L. Rush, a former Black Panther leader. Friends and advisers told Obama that he had failed to connect with many voters because his rhetoric was too wonkish and Ivy League for their tastes. "He talked above people," Jacobs said.

Running for the U.S. Senate four years later, Jacobs said, Obama adopted the main elements of the uplifting, unifying rhetoric he uses today, which Jacobs said offered much broader appeal. Instead of, say, dwelling on the details of welfare or health-care policy, he tied them to themes of "hope and change and the future," he said.

Obama views the 2004 race as the real training ground for his political speaking and says his earlier preparation came from his part-time law lecturing in Chicago as much as from his legislating.

"My general attitude is practice, practice, practice," he said in an interview with David Mendell, who wrote a new biography of Obama. In the 2004 race, "I was just getting more experienced and seeing what is working and what isn't, when I am going too long and when it is going flat. Besides campaigning, I have always said that one of the best places for me to learn public speaking was actually teaching -- standing in a room full of 30 or 40 kids and keeping them engaged, interested and challenged."

He added that David Axelrod, chief strategist in his Senate race as well as in the current campaign, "was always very helpful in identifying what worked and what didn't in my speeches."

The 2004 race also featured the debut of the "Yes, we can" slogan, which Obama used this year after his defeat in the New Hampshire primary, to great effect. As it happens, he resisted the C¿sar Ch¿vez-inspired line when Axelrod first suggested it in 2004, finding it too simplistic, Mendell said.

Obama's keynote address at the 2004 Democratic National Convention in Boston marked his arrival as a speaking sensation. But it exhibited only one side of him as a rhetorical performer: reading a scripted speech off a teleprompter. Obama has relied on the device for most of his major election-night speeches, something politicians rarely do, and for the major thematic speeches he gives on the trail every week or so. According to the campaign, these scripts tend to be a group effort, involving the candidate's 26-year-old speechwriter, Jon Favreau, and other staff members.

But the vast majority of Obama's talking in the campaign has come in the form of the 45-minute stump speech that he has delivered, without notes, several times a day for nearly a year. In states where he has had more time to campaign, a substantial minority of residents turning out to vote have, in all likelihood, heard this speech -- more than 37,000 came to see him speak during his four days in Wisconsin, and 646,000 voted for him in the primary there.

The stump speech is far more freewheeling than his scripted addresses, mixing the colloquial and the lofty and dotted with laugh lines that Obama often chuckles at himself, enjoying his role. Contrary to Obama's reputation as a fiery orator who traffics mainly in abstractions, much of the speech is delivered in a conversational tone, and it includes a long middle section of policy prescriptions. But what audience members tend to remember are the handful of crescendos that punctuate it, which deliver all the more punch for how slowly he builds them.

"He uses highs and lows. He has a wide range of pitch and uses it effectively," said Ruth Sherman, a Connecticut communications consultant. "He knows where to pause and stop and let his audience enjoy him, and he knows how to ride the crest of the wave and allow the momentum to evolve."

While his speeches include more policy gristle than Obama gets credit for, critics note that those ideas amount to a fairly conventional left-leaning platform and are not as novel as the package they are wrapped in.

"People are commenting increasingly on the disjunction between the elevated and exceptionally fine rhetoric and the rather pedestrian policy proposals that form the Obama platform," said Berenson, the Harvard classmate and former Bush counsel.

In a recent column in the Wall Street Journal, Peggy Noonan, who wrote speeches for presidents Ronald Reagan and George H.W. Bush, argued that Obama's addresses were not that eloquent, that some passages read quite trite on the page and lacked evidence of deep thought behind them. What made the speeches effective, she wrote, was that they were inextricably linked to the figure speaking them and to his inspiring life story.

Those who admire Obama's stump skills dismiss the charge by Clinton and McCain that he has been overly reliant on his speaking ability to win votes, arguing that politics is all about verbal persuasion. "The only way he can convince people that he can become president is his rhetoric," said the University of Pittsburgh's Shuster. "What other opportunity does he have?"

But some wonder: How can Obama keep meeting the rhetorical expectations he has set for himself, all the way through the summer and fall -- and possibly beyond?

"It's a terrible burden," said Baylor's Medhurst. ". . . Can that eloquence be maintained? No, it can't -- it's impossible."

lunedì 25 febbraio 2008

For Italians too

For Political Candidates, Saying Can Become Believing

By Shankar Vedantam
Monday, February 25, 2008

John McCain once called televangelists Pat Robertson and Jerry Falwell "agents of intolerance," but now the Republican senator from Arizona is currying favor with social conservatives. Sen. Hillary Rodham Clinton (D-N.Y.) now opposes the Iraq war, although she used to support it. Sen. Barack Obama (D-Ill.) once wanted presidential campaigns to be publicly financed but has come to have second thoughts, perhaps driven by the success of his own fundraising.

Such political two-stepping by these presidential candidates may surprise no one, but new psychological research reveals that voters may have less reason to question the sincerity of candidates' newly minted positions than was previously believed.

That is because, imperceptibly and often without their own awareness, politicians can come to believe what they tell voters, even if they start out being insincere.

The finding stems from a larger lesson that psychologists have observed. When a speaker talks to an audience, everyone understands she is trying to shape the audience's views. What is less known, but equally true, is that the audience shapes the speaker's views, too.

Columbia University social psychologist E. Tory Higgins found through experiments that when people are given a set of facts about an issue and asked to communicate them to an audience, they are more likely to deliver messages that match the audience's preexisting beliefs on that particular issue. Volunteers randomly assigned to speak to different audiences gravitate toward messages least likely to contradict and offend their listeners.

If you are talking to a die-hard Obama fan, in other words, you are more likely to mention things about Obama's debate with Clinton last week that paint the candidate in a positive light. If you are talking to a die-hard Clinton fan, on the other hand, you are more likely to mention Obama's shortcomings in the debate.

When Higgins debriefed his volunteers, he found their memories of the original facts were strongly influenced by what they had told their listeners. What surprised the psychologist is that over time, this "saying is believing" effect grew stronger -- meaning that more and more of the volunteers' recollections of the facts were accounted for by what they had said. Higgins concluded that as much as half of what people eventually come to remember about the original facts is based on the views they express to charm listeners.

"With politicians, that is one of the first things that struck me," Higgins said. "My God, politicians, of all people, do this all the time -- even more than the rest of us!"

In a new study published in the Journal of Experimental Psychology, Higgins and social psychologist Gerald Echterhoff at the University of Bielefeld in Germany showed that the "saying is believing" phenomenon is modulated by the strength of the relationship between speaker and audience.

When a speaker is trying very hard to build a powerful emotional connection with his listeners, he is much more likely to be influenced by this effect. All people's perceptions of reality are partially molded by their social interactions, Echterhoff said, but the effect appears to be especially strong when speaker and audience inhabit a shared reality -- when they share an intense bond with each other.

In a series of experiments, Echterhoff, Higgins and others showed that when people modulate their comments deliberately and with a clear ulterior motive, they are less likely to be influenced by "saying is believing," compared with when a speaker tries to make an emotional connection with the audience.

The research offers a window into the worlds of gifted communicators such as former presidents Ronald Reagan and Bill Clinton, politicians who could make every person in a crowded auditorium feel as though she were having an intimate conversation with just him. Both Reagan and Clinton came to be accused not just of fooling their audiences, but of regularly fooling themselves.

Higgins said that a candidate such as former Arkansas governor Mike Huckabee, a Republican social conservative who is mostly talking to social conservative voters, is more likely to be susceptible to the effect, because Huckabee is in powerful sync with his audience. On the other hand, Republican front-runner McCain is trying to speak to many conservative constituencies at once and is therefore less likely to connect intensely with any group.

On the Democratic side, Higgins added, the attributes that make Obama a compelling "movement" leader also make him more susceptible to "audience tuning" -- the phrase the researchers use to describe how the arrow of influence between speaker and audience can fly in both directions.

"Hillary is trying to have an audience see her as someone who can solve problems and knows how to take care of these problems," Higgins said. "Whereas Obama wants to connect one-on-one as a relationship -- as if we were friends. It is powerful when he does that, but he could be more open to the 'saying is believing' effect."

mercoledì 20 febbraio 2008

LISTE VUOTE

A meno di venti giorni dal deposito delle candidature, le persone che sanno VERAMENTE che il loro nome sarà inserito in una lista elettorale sono un'esiguità.
In mezzo a tante novità politiche è rassicurante constatare che ci sono dei rituali immutati nel tempo.

Slip-Slop

Il mio adorato amico Michael, anima vagante tra NY e LA, irlandese di origine e americano ma così americano che di più non si può, quando, una decina d'anni fa, gli dissi che sarebbe stato importante che si candidasse una donna alle presidenziali mi rispose esattamente così: "E' più facile che entri un negro alla Casa Bianca piuttosto che una donna" ("It's easier than entering a negro at the White House that a woman "). Recentemente mi ha detto che è più probabile che diventi presidente un bianco piuttosto che un nero.

martedì 19 febbraio 2008

VUOTI ELETTORALI


Questa volta la grancassa elettorale della sinistra è partita nei tempi giusti. Preoccupa (poco e non me) l'incertezza che ancora anima il centrodestra. Dov'è la nave azzurra? Dove sono i kit dei candidati? Il fatto è che sul cosiddetto territorio (brrrrrrr....) non c'è verso di capire che cosa stia succedendo da quelle parti. E non mi riferisco alle mie zone che sono a est del nordest, ma a tutta Italia: candidati certi, certissimi, non ce ne sono nè per il parlamento nè, soprattutto, per le amministrazioni locali. Insomma, è tutto un tiramolla e uno che pensava di candidarsi da una parte finisce dall'altra e viceversa. Spuntano come funghi new entries (il nuovo che avanza) dalle alpi alle piramidi. La società civile, così adorata da Dabliuvì, mette sulla piazza volti nuovi per la politica ma noti alle televisioni, ai salotti, agli amici, agli amici degli amici, ai cineforum, alla cultura che comunque adora Tarit, al minimal, agli anni Sessanta. Il milieu di Silvio/Gianfranco da quelle parti extrapolitiche non riesce a produrre un granchè mentre pare che ci sia un certo apprezzamento per i colleghi di lungo e lunghissimo corso. Donne? Mah! Latitano un po' da tutte le parti. Eppoi c'è una domanda che mi assilla. Perchè un politico attempato (older than fifty and over seventy years) può troneggiare dignitosamente nelle varie liste elettorali mentre una donna della stessa età viene subito bollata come "vecchia" e quindi non spendibile?
Orribile giornata questa se la inizio ponendomi domande così poco intelligenti. Oddio, come mi sento noiosa! Senza idee, opaca, direi quasi attempata.

lunedì 18 febbraio 2008

COSI' E'. COMUNQUE VI PAIA.

Niente programmi

di Giuseppe De Rita

C'è un pericolo grave nell'attuale dibattito politico: che resti di moda la redazione di «documenti programmatici», visti da un lato come strumenti per dare identità a chi intende «correre da solo»; e dall'altro come contenitori per raccogliere più frazionate convergenze. Così tutti aspettano di vedere, giudicare, condividere, contrattare e magari sottoscrivere un programma. E qualcuno ha già cominciato anche a scriverne.

Esercizio prevedibilmente inutile, perché rischia di sfociare in un lungo elenco di cose da fare che non potrebbe mai entrare nella testa della gente; tanto più che tutti sappiamo che «non si vota per adesione programmatica ». Ma esercizio anche molto pericoloso, perché le elaborazioni programmatiche finiscono per mettere insieme cose sapute e risapute, cui è difficile far appassionare il cittadino medio italiano, stremato da decenni di mirabolanti annunci e intenzioni di aperture al mercato, di liberalizzazioni a vari livelli, di investimenti in educazione e ricerca, di nuova regolazione del lavoro, di monitoraggio dei conti pubblici, di rilancio del Mezzogiorno e altro ancora. Intenzioni consumate da anni di chiacchiere inconcludenti, e in più «figlie» di tempi e di processi socioeconomici ormai non più propulsivi.

Sbaglierebbe in altre parole chi volesse governare il futuro proponendo scelte calibrate sui tre grandi processi del passato. Anzitutto la crescita dell'individualismo, con conseguenti scelte di promozione e sostegno dell'imprenditorialità diffusa, del capitalismo personale, della mobilità del lavoro, della stessa relativistica libertà comportamentale; in secondo luogo la crescita dell'arcipelago periferico, con conseguenti scelte di localismo, sviluppo distrettuale, decentramento istituzionale, federalismo, eccetera; e in terzo luogo il frastagliarsi esausto dello scontro di classe, con conseguenti rifugi nella drammatizzazione dei problemi salariali, nella difesa del lavoro dipendente, nella battaglia sull'identità operaia, nello stesso più limitato impegno sulla sicurezza del lavoro.

Meglio sarebbe sforzarsi di capire quali processi di lungo periodo siano oggi in corso ed esercitare all'interno di essi specifiche scelte programmatiche. Io ne vedo due, entrambi figli della collettiva volontà, ancorché sommersa, di dare maturità di sistema alla vitalità disordinata degli ultimi decenni: sia attraverso una moderna piattaforma logistica nazionale; sia attraverso una regolazione comunitaria della vita collettiva. Una nazione ad alta internazionalizzazione come l'Italia ha bisogno di avere una ricca piattaforma logistica, materiale o immateriale: abbiamo bisogno di un sistema articolato di scali aeroportuali, porti, interporti, assi di comunicazione, centri finanziari, infrastrutture di rete lunga, che siano al servizio delle imprese, della finanza, del turismo italiani. E le scelte relative vanno fatte a ragion veduta, in coerenza con la nostra posizione sul mercato mondiale (scegliendo cioè fra una piattaforma orientata verso l'Europa continentale o quella sudorientale, verso il Mediterraneo o verso l'Estremo Oriente o altro ancora), visto che non possiamo gingillarci ancora fra Ponte di Messina e pavimentazioni comunali.

E accanto a ciò dobbiamo sostenere un secondo processo di sviluppo sistemico del Paese, cioè la regolazione comunitaria della vita collettiva, attivando più nette responsabilità nel governare i rifiuti, il territorio e le sue risorse, l'integrazione sociale degli stranieri, la qualità della vita vissuta insieme, la razionalizzazione dei poteri e delle rappresentanze locali. Piattaforma logistica per competere nel mondo e governo comunitario per vivere bene nelle realtà locali sono le vere sfide del futuro e solo su di esse si può pensare a comprensibili programmi e impegni politici, che non siano elenchi più o meno griffati ma di gramo destino.

18 febbraio 2008

venerdì 15 febbraio 2008

Bè! Beeeeeeeeeeeeeeeeeee


Like ants, humans (voters) are easily led /By Roger Highfield


When it comes to being misled, humans are no more sophisticated than ants or fish.

Implications for evacuations and how to guide people safely in an emergency will arise from the discovery that most of us are happy to play follow-my-leader, even if we are trailing after someone who does not know where they are going and taking the most meandering route.

Even more striking, even when we are shown a faster route, we prefer to stick with the old one and tell others to take the long road too, a finding that could have lethal implications when it comes to evacuating a building or ship in an emergency.

"These results parallel similar findings in ants and fish, and show that very simple processes can underlie human behaviour" commented Dr Simon Reader of Utrecht University, who reports the findings today in the journal Biology Letters.

In the experiments, 72 people - 40 women and 32 men - were asked to complete questionnaires in one room, then taken to another room where they were to complete an experiment.

"We led them one of two routes into the room (while talking about other things), and, later, asked them to return to the starting room," said Dr Reader.

"All but one person took the route they had been led. What we were surprised by was how strong this effect was, even when the alternative route was much shorter," he said.

They preferred the long route even when the experimenter had drawn attention to the alternative route, or when the experimenter took the long route solely to pick up a fallen poster, eliminating the possibility that participants thought the experimenter had a good, but unknown, reason to take the long route.

By asking participants to collect the next guinea pig in the experiment, the scientists observed that each person in the chain copied the route of the participant before them: a simple tradition that meant the alternative route was never discovered.

In a fire or emergency, then, people would likely stick to the familiar evacuation route, even if it was much slower than an alternative.

mercoledì 13 febbraio 2008

Non cuivis homini contingit adire Corinthum


L'articolo qui sotto spiega esattamente come funziona il meccanismo di nomina dei delegati alle presidenziali americane e di come questo si differenzi tra democratici e repubblicani. Nel 1988, di questi tempi, sgambettavo anch'io da uno Stato all'altro inseguendo i rally di Dukakis e Jackson e del vice presidente Bush senior...

The Democrats' Undemocratic System

By Ruth Marcus Wednesday, February 13, 2008; A19

The wonder, really, is that the nomination train wreck confronting the Democratic Party didn't happen years earlier.
The stage was set for the current stalemate over five marathon days of negotiations in June 1988. In the fifth-floor conference room of a Washington law firm, representatives of Michael Dukakis, the party's nominee, and Jesse Jackson, his unsuccessful challenger, hashed out a new set of delegate selection rules.
Jackson felt aggrieved that he had not amassed as many delegates as his popular vote total would have suggested. In the 1984 primary campaign, for instance, Jackson won 19 percent of the popular vote but received just 10 percent of the delegates. So Jackson's rules guru, Harold M. Ickes, insisted on adopting proportional representation rules that would award insurgent candidates a bigger share of delegates in future contests.

Twenty years later, the rules Ickes advocated seem to be working against his current candidate, Hillary Clinton, reducing the impact of her wins in delegate-rich states such as California, New York and New Jersey. But Clinton could be saved by an unintended consequence of the move to proportional representation: Because the system tends to produce a stalemate between two strong candidates, it ends up supersizing the role of party pooh-bahs known as superdelegates.
All this was predicted long ago by Tad Devine, the Democratic Party operative who represented Dukakis in the rules negotiations. In a prescient 1991 article, Devine and Anthony Corrado explained the paradox:
"The move to strict proportional representation, which was adopted to ensure that delegate outcomes would better reflect the will of the electorate," they wrote, may instead "have produced a system in which party leaders and elected officials will hold the balance of power in determining the outcome of nomination contests."

In short, the Democratic Party has come up with a characteristically muddled method of choosing presidential nominees, with rules that are simultaneously overly and inadequately democratic.
The overly democratic part involves ultimately giving too much weight to the losing candidate's vote. Under the rules, three-fourths of the pledged delegates are allocated by congressional district, the remaining one-quarter according to the vote statewide.
This leads to bizarre "everybody wins" results in the many congressional districts that have an even number of delegates. As a result, campaigns devote inordinate resources to districts that happen to have an odd number of delegates.

Consider a four-delegate district. For a candidate in a two-person contest to get three of the four, he would have to win a daunting 62.5 percent of the vote. The more likely outcome is that the winner and loser get two delegates each.
To obtain more than a one-delegate edge in a five-delegate district, the winning candidate would have to take 70 percent of the vote. The upshot: In a close race, it's extraordinarily difficult for one candidate to get very far ahead of the other.
The impact of this was clear in California, the biggest delegate prize. Clinton won43 of the state's 53 congressional districts, and 52 percent of the popular vote to Obama's 42 percent. But under the proportional representation rules, and with 32 of the districts offering an even number of delegates, she received 207 delegates to Obama's 163. Had Democrats used the Republicans' formula in California -- with delegates awarded on a winner-takes-all basis by congressional district and statewide -- Clinton would have received 316 delegates, Obama just 54.

It's not that one system is demonstrably right and the other obviously wrong. The preponderant Republican method arguably gives too much of an advantage to the dominant candidate, the Democratic approach too little.

But the inherent flaws in the Democrats' system are exacerbated by the inadequately democratic institution of superdelegates, the elected officials, members of the Democratic National Committee and other party luminaries who can choose according to their own preference.
It's not unreasonable to carve out a special role for party leaders. The idea of superdelegates, introduced in 1982, was to invest elected officials in the eventual nominee and prevent the party from veering too far off course in its selection (see: George McGovern in 1972).

But the number of superdelegates -- 796, or 19 percent of all delegates -- combined with proportional representation creates a potentially toxic interaction.

As Devine and Corrado explained in 1991, "the primary consequences of the move to proportional representation is that the superdelegates now stand as the only bloc of delegates in which it may be possible to build an extraordinary delegate margin."
As intended, superdelegates gave a boost to Walter Mondale over Gary Hart in 1984; they helped cement Dukakis's lead in 1988. But there is a difference between bringing closure and determining outcomes. Once the nominee is selected, whenever that may be, the party needs to reassess rules that are shaping up to be bad for both Democrats and democracy.

marcusr@washpost.com

POTOMAC E DINTORNI


Immagino l'ira di Hillary affondata nel Potomac: liti strepitose con i collaboratori, spin doctor, campaign manager, media assistant e chi più ne ha più ne metta. La sconfitta non è nel suo Dna e la colpa è necessariamente degli altri. Per conferma leggere la sua autobiografia "Living History".

La marcia trionfante di Obama non può non gasare DabliuVì il cui rimpianto è di non essere abbastanza nero da rappresentare una minoranza che rivendica i suoi diritti. Vedremo.

Certamente la nostra esterofilia condizionerà l'avanzata del Pd. Non c'è dubbio che c'è chi pensa che il voto al Pd equivalga a un voto a Barack.
Ritorno alla mia vecchia idea di far votare tutto il mondo per i candidati americani. E non se ne parli più.

Sarkò, al fianco del quale la Brunì resterà sino alla morte (lo farei anch'io) dovrebbe calare un asso che ne faccia un antagonista europeo dell'avanzata (mediatica) americana. A quel punto Berlusconi potrebbe utilizzarlo per la sua campagna elettorale compensando così il delirio italiano filousademocratico.

Consiglio ai candidati

Il punto di blu dell'abito - perfetto -, indossato da Berlusconi per partecipare a Porta a Porta è esattamente quello giusto da utilizzare davanti alle telecamere. Prendere nota, please.

MALA TEMPORA

La dichiarazione a Porta a Porta di Silvio Berlusconi di voler rinnovare il partito attraverso un massiccio inserimento di forze giovani sta mandando in subbuglio quanti da 14 anni stazionano alla Camera e al Senato e nelle diverse amministrazioni locali nella certezza che quello sia il mestiere che intendono svolgere sino allo sfinimento.

Analoga la situazione nel Pd dove in molti temono che la smania di DabliuVì di attingere alle celebrities elimini delle posizioni preziose costruite in anni di distribuzione gratuita domenicale dell'Unità.

Nelle regioni, come la mia, dove si voterà contemporaneamente per Camera, Senato, Regione, Provincia e Comune, i candidati stanno spuntando come funghi e sparendo come fantasmi.
I cecchini sono appostati. Solita eterna storia.

lunedì 11 febbraio 2008

ELECTION DAY?


In Italia è in atto uno scontro tra furbizie politiche. Molto noioso.

HILLARY&THE FASHION


Sono assolutamente d’accordo con Anna Wintour – l’americana direttrice di Vogue che con un colpo di frangetta potrebbe stecchire anche il fantasma di mlle G. Bonheur Chanel, sceso in terra a controllare l’umore del suo teutonico successore -, quando dice che la Clinton farebbe bene ad abbandonare i suoi tailleur pantalone e sposare una sana femminilità. Questa cosa la Wintour l’ha scritta in un articoletto vedo non ti vedo che arriva dritto dritto ai cosiddetti non comuni mortali. E siccome io mi occupo di comunicazione politica e l’abito in un politico è un elemento vitale della sua comunicazione… politica, ça va sans dire, ho molto apprezzato che l’insigne maestra abbia messo il becco sul guardaroba di Hillary che forse, dimissionata la sua campaign manager, ben farebbe ad assumere un assistant fashion. La potenziale presidente ha esordito alle primarie dello Iowa (do you remember my trip?) con un tailleur pantalone azzurro esagerato da mettere in crisi anche i più vetusti chroma key televisivi. La editor in chief, che poco più di un anno fa l’aveva piazzata davanti all’obiettivo della Leibovitz per poi omaggiarla con una strepitosa copertina, deve essersi sentita proprio beffata se ha dovuto usare il suo magazine per richiamare all’ordine la candidata che pare aver dimenticato l’esistenza, tanto per citare qualcuno che amo, di un Oscar de la Renta e via via di tutti quegli stilisti americani che qualche carta per competere con quelli italiani e francesi pur ce l’hanno.

Ora, capisco che la signora Hillary è una democratica e che i democratici non devono tirarsela troppo, ma, data l’occasione piuttosto rara di avere una donna sotto i riflettori del mondo, forse quella donna non farebbe male a fare l’ambasciatrice di quel che nel settore del fashion produce il suo paese.

Altrimenti l’immagine che arriva alle signore dell’Egitto o della Norvegia o della Lestonia e di tutti i paesi del globo, è che tutte le americane sono davvero delle grezzone e con un fondoschiena oversize.

Personalmente ritengo che una candidata elegante, libera dall’assillo di sembrare un uomo per guadagnarsi il consenso politico, possa fornire un ottimo esempio di come la politica sia un termine di genere femminile. E lady Hillary ben farebbe, comunque e ovunque vada, a offrire un modello di femminilità coniugata alla competenza, alla tenacia e a tutte quelle virtù più o meno indispensabili per far seriamente politica.

Qualcuno può sostenere forse che un cappello di Vera Wang toglie invece di aggiungere voti? E che un golfino di Marc Jacobs indispettisce la popolazione del Nevada?

Temo proprio che le donne siano, in fondo in fondo, delle conservatrici. Ahimè.

venerdì 8 febbraio 2008

MY JOB

E’ stata recentemente resa pubblica l’ultima ricerca dell’European Communication Monitor, una commissione promossa dall’Università di Lipsia con la collaborazione di studiosi provenienti da oltre trenta nazioni. L’obiettivo della ricerca consisteva nell’individuare le tendenze europee in materia di comunicazione e pubbliche relazioni nel periodo 2007/2010. Per fare ciò è stato condotto un sondaggio su oltre mille professionisti delle pubbliche relazioni, dislocati in ventidue paesi.

Trend 2007-2010 Sfide 2007-2010

La ricerca prevede sensibili cambiamenti nelle tendenze 2007-1010:
- crescita della comunicazione istituzionale ed un calo della comunicazione di prodotto/al consumatore
- calo di quasi il 30% delle relazioni con i media sulla stampa, a fronte di una crescita della comunicazione online (+16%) e delle relazioni con i media online (+24,6)
- la comunicazione online supererà la comunicazione sulla carta stampata
- le agenzie di comunicazione sottostimano il contatto diretto e la comunicazione non verbale, che avrà un’importanza sempre maggiore

I fattori più rilevanti nella futura gestione delle strategie comunicative saranno, in ordine di importanza:
- tenere il passo con l’evoluzione digitale ed il web sociale
- collegare la strategia industriale e la comunicazione
- costruire e mantenere la fiducia attraverso comunicazioni veritiere
- confrontarsi con la richiesta di maggiore trasparenza e una platea attiva
- stabilire nuove metodologie per valutare e dimostrare il valore della comunicazione
- confrontarsi con le tematiche ambientali
- supportare cambiamenti organizzativi
- stimolare e promuovere innovazioni
- sviluppare gli affari pubblici e la comunicazione politica
- integrare le relazioni con gli investitori e le relazioni pubbliche

La crescente importanza delle politiche Europee negli stati nazionali porterà specifiche esigenze comunicative:
- strategie di comunicazione specifiche per una platea frammentata saranno essenziali
- i canali online transnazionali e transculturali accresceranno la propria importanza
- i destinatari saranno sempre più attivi ed esigeranno forme di comunicazione dirette
- i consigli personali e il passaparola contribuiranno sempre più ad orientare le scelte
- una strategia di comunicazione integrata e unificata sarà essenziale
- la sfera pubblica Europea svilupperà un nuovo punto d’incontro per discutere questioni transnazionali
- vi sarà uno spostamento di interessi e comunicazione politica dalle capitali nazionali verso Bruxelles

La ricerca è disponibile nella sua versione completa sul sito www.communicationmonitor.eu

mercoledì 6 febbraio 2008

NOT TONIGTH, JOSEPHINE!


Avendo attribuito la frase "Nessuno è perfetto" al film Gli uomini preferiscono le bionde (evidente lapsus freudiano. Ho confuso un mio desiderio con la realtà) cerco di rifarmi raccontando qualcosa di A qualcuno piace caldo che si conclude proprio con questa citazione.
Innanzi tutto il film è un remake di una commedia tedesca (Fanfaren der Liebe) del 1951 diretta da Kurt Hoffmann.
A qualcuno piace caldo (il titolo di lavorazione, ispirato al presunto rifiuto da parte di Napoleone di fare sesso con l'Imperatrice, era Not tonight, Josephine!), ricevette sei nominations all'Oscar per il Miglior Attore (Jack Lemmon), Miglior Regista, Miglior Sceneggiatura Non Originale, Miglior Film in Bianco e Nero, Migliore Scenografia e Direzione Artistica in Bianco e Nero, aggiudicandosi solo l'Oscar per i Migliori Costumi.
La valanga di gags e di situazioni equivoche alla base di A qualcuno piace caldo, corrisponde perfettamente ai continui fraintendimenti che hanno accompagnato la realizzazione del film sin dalla scelta degli attori. Per i ruoli di Joe/Josephine e di Jerry/Daphne la scelta non fu semplice. Danny Kaye e Bob Hope erano i candidati principali, ma anche Frank Sinatra e Anthony Perkins (anche se il suo suo provino non convinse Billy Wilder) e Jerry Lewis erano da considerarsi come possibili papabili. E proprio a Jerry Lewis è legato un aneddoto assolutamente in tono con il carattere del film: l'attore rifiutò il ruolo perché non intendeva recitare vestito da donna e Jack Lemmon, che invece l'accettò, da quel momento in poi gli mandò ogni anno una scatola di cioccolatini per ringraziarlo della rinuncia. Anche per il ruolo di Sugar Kane (Zucchero Candito) la prima scelta non era Marilyn Monroe, bensì Mitzi Gaynor. "Ho discusso di questo con il mio dottore e con il mio psichiatra e mi hanno detto che sono troppo vecchio e troppo ricco per lavorarci nuovamente insieme" dirà Wilder di Marilyn (che già aveva lavorato con lui per quel film che donerà al cinema, con quella gonna maliziosamente svolazzante, un'icona indimenticabile: Quando la moglie è in vacanza). Marilyn (sulla cui fine non si è fatta ancora del tutto luce e JFK ne era dentro sino al collo) diede al regista del filo da torcere sin dall'inizio. La Monroe, infatti, per una clausola inserita nel contratto, pretendeva che il film fosse girato a colori. Fu dura per Wilder convincerla del contrario, se non altro perché il trucco di Jack Lemmon e Tony Curtis rendeva i loro volti verdastri. Alla fine Marilyn accettò il bianco e nero ma, essendo incinta durante le riprese, rese difficile la successiva promozione del film essendo visibilmente ingrassata. Furono così scattate delle foto a Sandra Warner (che nel film compare tra le ragazze della band) e, con un fotomontaggio, le si applicò il volto di Marilyn. Nel corso delle riprese la star causò ulteriori difficoltà a Wilder. Ad esempio, la scena in cui doveva semplicemente pronunciare una frase di tre parole ("It's me, Sugar") richiese ben 47 ciak (al trentesimo fallimento Wilder, disperato, scrisse la frase su una lavagnetta da esibire fuori campo). Occorsero, invece, "soltanto" 59 ciak per la scena in cui Zucchero chiede "Where's the bourbon?", dopo che Marilyn sbagliò più volte la domanda ("Where's the whiskey?", "Where's the bottle?" e "Where's the bonbon?" sono i suoi personalissimi "adattamenti"). Wilder, incredulo, scrisse la battuta esatta esponendola all'attrice, il che confuse ancor di più le idee a Marilyn. Così il regista scrisse la frase su tutto ciò che trovò sul set! Dopo il cinquantanovesimo Ciak, l'attrice riuscì nell'impresa ma lontana dalla macchina da presa (!) costringendo Wilder a doppiarla. La vendetta del regista, in ogni caso, non si fece attendere: Wilder costrinse la Monroe a camminare da un lato all'altro del set con la scusa di dover rigirare alcune scene non venute bene. Secondo il biografo di Marilyn, Norman Mailer, questo brutale trattamento fu uno dei motivi che causarono l'aborto all'attrice. Anche la coppia Lemmon-Curtis dovette affrontare non pochi problemi legati essenzialmente legati al loro travestimento. Un cabarettista drag queen che era solito esibirsi vestito da donna, cercò di insegnare ai due il giusto atteggiamento da assumere indossando abiti femminili. Jack Lemmon, dopo qualche tentativo, s'innervosì e decise di rinunciare all'aiuto dell'artista dicendo che voleva soltanto imparare a camminare come un uomo vestito da donna e non a camminare come una vera donna! Ancor prima di iniziare le riprese, la "strana" coppia fece una prova generale passeggiando nei pressi degli Studios indossando abiti femminili per misurare l'effetto complessivo, inclusa una sosta estemporanea per ritoccare il trucco in una delle toilette femminili: nessuna delle presenti si accorse del travestimento e l'esperimento riuscì pienamente (questo episodio sarà richiamato in una scena del film, quando i due si truccano nel bagno del treno con Zucchero che compare all'improvviso). Per la voce in falsetto, l'unico ad incontrare qualche difficoltà fu Tony Curtis che fu doppiato in alcune parti da Paul Frees (Curtis si giustificò dicendo che non era in grado di mantenere a lungo lo stesso tono acuto di voce).

COSE DI QUESTO MONDO

Uno degli aspetti più intriganti del rimescolamento politico in corso sta nel fatto che (osp! l'avevo già detto!) i parlamentari uscenti saranno anche quelli entranti (salvo quale raro abbandono per sfinimento).
La novità sarà nella prossima composizione del governo nel quale, chiunque vinca, entreranno componenti (controllabili, si badi bene, MOLTO controllabili) della parte opposta. Libertè, fraternitè, egalitè.....

Sono certa che DabliuVì vorrebbe che il Piddì recuperasse i fasti del vecchio piccì: ricordo l'anno del sorpasso, il segretario stecchito a Padova, il successo delle urne, le automobili nelle città con le bandiere rosse al vento e i clacson festosi. Difficile, molto difficile.

La sinistra antagonista sa bene che andare alle urne in ordine sparso significherebbe ottenere risultati piuttosto risibili. Potrebbe anche, con un colpo d'ali, confluire nel Piddì: invertendo i fattori il prodotto non cambia.

Attenzione. Un eccesso di centralismo potrebbe radicalizzare le sinistre estreme e, voilà, non solo farebbero perdere al Piddì ma potrebbero anche ottenere un buon risultato elettorale. Duri e puri.

Considerata la stagione, ritengo che andare al mare il giorno delle elezioni politiche potrebbe non essere una cattiva idea. E' improbabile però che qualcuno la lanci. Potrebbe essere l'insetto nazionale che è finito, udite udite, sulla copertina del New Yorker? Dicasi New Yorker, magazine della Condè Nast, parente di quell'edizione americana di Vogue alla quale nessuna donna di buon senso dovrebbe rinunciare. Il New Yorker di cui, davanti ai miei occhi, campeggia una delle più celebri copertine di Steinberg. Il New Yorker che ospita ancora le novelle più deliziose e le vignette più spiritose del globo. Bè, nessuno è perfetto (dal film: Gli uominipreferiscono le bionde).

Sto leggendo Ragione e Sentimento di Jane Austen. Si sappia che ogni mia valutazione di me stessa e del resto mondo può essere compromessa dall' attuale stretta frequentazione con le sorelle Dashwood....




martedì 5 febbraio 2008

CANDIDATI

Sta per avere inizio (è già iniziato) il periodo più noioso della politica italiana. Ieri sera a Porta a Porta c'erano le seconde file dei partiti che discettavano su tutto. Ottima occasione per capire ciò che le prime file amplificheranno da questo momento in poi. Per me, ma solo per me che sono notoriamente perversa (S/ nel caso in cui non fosse chiaro ai miei fans), la fase più eccitate è quella della selezione dei candidati. Nell'opinione pubblica questo momento viene vissuto come pura confusione. In realtà si tratta di pura politica e, in quanto tale, ne vado ghiotta. E' adesso che si capisce esattamente chi sono i king makers, dove si trovano le stanze del potere (detenuto, mi pare chiaro, da chi decide le candidature) e chi è una scartina. Che brividi!!!!
Invito gli osservatori (io scruto, che è altra cosa. Sono fornita, tanto per capirci, di una lente d'ingrandimento magica e di un cannocchiale da opera - nonchè operetta - tempestato di brillanti) allo spettacolo avvincente degli autocandidati e alle operazioni di impallinamento messe in atto dagli apparati (molto, molto più ristretti di un tempo ma pur sempre apparati con tutte le liturgie connesse).
Avevo già scritto che è in questo momento che dovrebbero essere utilizzati i consulenti? Avevo già precisato in un altro post che la personalizzazione della politica impone scelte oculate e ragionate dei candidati perchè è da queste che dipende la vittoria o la sconfitta di un partito o di una coalizione?
Ci scommetto che queste osservazioni vengono considerate chiacchiericcio rispetto all'esigenza primaria di piazzare nelle caselle giuste gli uomini/donne giusti per rispettare i cosiddetti equilibri (dei partiti, del territorio, delle minoranze e chi più ne ha più ne metta).
Così succede che molti di questi candidati giusti lo siano solamente per i decisori e non per gli elettori. Che spettacolo!