Niente programmi
di Giuseppe De Rita
C'è un pericolo grave nell'attuale dibattito politico: che resti di moda la redazione di «documenti programmatici», visti da un lato come strumenti per dare identità a chi intende «correre da solo»; e dall'altro come contenitori per raccogliere più frazionate convergenze. Così tutti aspettano di vedere, giudicare, condividere, contrattare e magari sottoscrivere un programma. E qualcuno ha già cominciato anche a scriverne.
Esercizio prevedibilmente inutile, perché rischia di sfociare in un lungo elenco di cose da fare che non potrebbe mai entrare nella testa della gente; tanto più che tutti sappiamo che «non si vota per adesione programmatica ». Ma esercizio anche molto pericoloso, perché le elaborazioni programmatiche finiscono per mettere insieme cose sapute e risapute, cui è difficile far appassionare il cittadino medio italiano, stremato da decenni di mirabolanti annunci e intenzioni di aperture al mercato, di liberalizzazioni a vari livelli, di investimenti in educazione e ricerca, di nuova regolazione del lavoro, di monitoraggio dei conti pubblici, di rilancio del Mezzogiorno e altro ancora. Intenzioni consumate da anni di chiacchiere inconcludenti, e in più «figlie» di tempi e di processi socioeconomici ormai non più propulsivi.
Sbaglierebbe in altre parole chi volesse governare il futuro proponendo scelte calibrate sui tre grandi processi del passato. Anzitutto la crescita dell'individualismo, con conseguenti scelte di promozione e sostegno dell'imprenditorialità diffusa, del capitalismo personale, della mobilità del lavoro, della stessa relativistica libertà comportamentale; in secondo luogo la crescita dell'arcipelago periferico, con conseguenti scelte di localismo, sviluppo distrettuale, decentramento istituzionale, federalismo, eccetera; e in terzo luogo il frastagliarsi esausto dello scontro di classe, con conseguenti rifugi nella drammatizzazione dei problemi salariali, nella difesa del lavoro dipendente, nella battaglia sull'identità operaia, nello stesso più limitato impegno sulla sicurezza del lavoro.
Meglio sarebbe sforzarsi di capire quali processi di lungo periodo siano oggi in corso ed esercitare all'interno di essi specifiche scelte programmatiche. Io ne vedo due, entrambi figli della collettiva volontà, ancorché sommersa, di dare maturità di sistema alla vitalità disordinata degli ultimi decenni: sia attraverso una moderna piattaforma logistica nazionale; sia attraverso una regolazione comunitaria della vita collettiva. Una nazione ad alta internazionalizzazione come l'Italia ha bisogno di avere una ricca piattaforma logistica, materiale o immateriale: abbiamo bisogno di un sistema articolato di scali aeroportuali, porti, interporti, assi di comunicazione, centri finanziari, infrastrutture di rete lunga, che siano al servizio delle imprese, della finanza, del turismo italiani. E le scelte relative vanno fatte a ragion veduta, in coerenza con la nostra posizione sul mercato mondiale (scegliendo cioè fra una piattaforma orientata verso l'Europa continentale o quella sudorientale, verso il Mediterraneo o verso l'Estremo Oriente o altro ancora), visto che non possiamo gingillarci ancora fra Ponte di Messina e pavimentazioni comunali.
E accanto a ciò dobbiamo sostenere un secondo processo di sviluppo sistemico del Paese, cioè la regolazione comunitaria della vita collettiva, attivando più nette responsabilità nel governare i rifiuti, il territorio e le sue risorse, l'integrazione sociale degli stranieri, la qualità della vita vissuta insieme, la razionalizzazione dei poteri e delle rappresentanze locali. Piattaforma logistica per competere nel mondo e governo comunitario per vivere bene nelle realtà locali sono le vere sfide del futuro e solo su di esse si può pensare a comprensibili programmi e impegni politici, che non siano elenchi più o meno griffati ma di gramo destino.
18 febbraio 2008