giovedì 1 aprile 2010

Ciao ciao Pd? Rondolino sa quel che dice


http://www.thefrontpage.it/2010/04/01/il-pd-rischia-di-dissolversi-se-non-diventa-il-pd/
Azzardo una tesi: il Pd rischia di implodere. Non lasciamoci fuorviare dall’apparente bonaccia. Lì preparano l’ennesima resa dei conti. E’ vero: ci apettano tre anni senza fibrillazioni elettorali. Per un partito ambizioso e unito questa sarebbe la condizione ideale per investire sul futuro e per costruire un progetto e una classe dirigente per l’alternativa. Per un partito disunito e in cui covano rancori interni e ambizioni mediocri è vero il contrario: tre anni senza elezioni sono un’occasione ghiotta per immaginare scenari di ogni tipo per regolare conti o sognare rivincite personali.

Propendo per una previsione catastrofica: si divideranno e si aggroviglieranno. Ponendo le premesse per una sconfitta epocale del centrosinistra. Il segretario del Pd sta sbagliando l’approccio. Non ha alcun interesse a cacciare i problemi sotto il tappeto. Bersani farebbe meglio a dire: è vero, abbiamo perso. E a fare il seguente ragionamento: le elezioni, così ravvicinate al cambiamento di leadership del Pd, confermano le ragioni della svolta del congresso e ci impongono di accelerare e realizzare un cambiamento di profilo, di programmi e di alleanze.

Al leader attuale spetta il compito di proporre un indirizzo chiaro e coraggioso. E di richiedere che ad esso si accompagni un corollario conseguente: un patto politico interno perché, se intorno a tale indirizzo si raccoglie una maggioranza, il gruppo dirigente abbia tre anni di stabilità per realizzare il progetto politico indicato. Naturalmente il succo del discorso dovrebbe stare nei contenuti. Spettasse a noi, riformisti incorreggibili, conseguenti e orfani di una classe dirigente e di un partito da ambizioni nazionali, ce lo figureremmo organizzato intorno a pochi e chiari punti. Tali, però, da rappresentare un indubbio cambiamento di profilo politico.

Primo: uscire da questa ridicola diatriba tra “vocazione maggioritaria” e/o “politica delle alleanze”. Il primo compito di un partito è mostrare una percepibile e visibile identità. E l’identità di un partito è fatta degli obiettivi, delle riforme e della visione che offre del futuro del Paese. E’ questo il punto chiave. Le alleanze o, al contrario, la decisione di andare da soli, vengono dopo e sono solo conseguenti e strumentali allo scopo di raccogliere una maggioranza sul progetto che si indica per il governo del paese. Che senso ha dividersi oggi su Vendola e, peggio ancora, su Di Pietro (e magari Grillo) o Casini? Nessuno. Un partito serio e ambizioso rimanda queste discussioni all’imminenza del voto. Il tema di oggi è l’identità del Pd, non con chi decide di accompagnarsi.

Secondo: dichiarare finita, archiviata e gettata alle anticaglie la concezione di una lotta politica ridotta alla farsa della “guerra civile” permanente e dell’esasperazione ossessiva e demonizzante del berlusconismo. Sono 15 anni e più che la sinistra si lascia impantanare, sistematicamente, in questa autentica palude da cui esce sempre e irrimediabilmente perdente. E’ ora che cambi l’agenda. E che cambi la lettura che l’opposizione fa dell’Italia di oggi.

L’ansia e l’ossessione del berlusconismo portano a disegnare un paese irreale e, dunque, un’agenda politica dell’opposizione incomprensibile al paese reale. E fondata su due premesse entrambe non percepite dagli elettori concreti e in carne ed ossa: che in Italia esista un regime illiberale da cui liberarsi con gli strumenti prepolitici della via giudiziaria e della protesta viola; che in Italia siamo nel pieno di una crisi economica catastrofica e dagli esiti pauperizzanti e socialmente devastanti.

Uno guarda alla Grecia, confronta i propri dati macroeconomici con quelli della…Germania o della Francia (peggio dei nostri), ascolta in tv i giudizi insospettabili dei dirigenti del Fondo Monetario sulla situazione economica dell’Italia e tira le conseguenze. Nessuna sinistra ha mai prosperato o tratto profitto dal catastrofismo economico. Al contrario: le grandi fortune del riformismo europeo nascono dalla capacità della sinistra di imporre un’agenda per lo sviluppo e la crescita. E, oggi, anche per cambiare la politica fiscale e per modernizzare lo stato sociale. La sinistra si è illusa sugli esiti della crisi economica. E’ ora che riapra gli occhi. E torni a parlare un linguaggio non inutilmente catastrofico e che lasci intravedere, nelle sue proposte, miglioramenti positivi e progressivi nella condizione sociale ed economica della maggioranza dei cittadini.

Terzo: sfidare il governo a fare sul serio le riforme politiche. E fare dei passi evidenti perché risulti la disponibilità chiara e incontestabile dell’opposizione al confronto per le riforme. Tre anni sono un tempo sufficiente per realizzare un pacchetto condiviso di innovazioni sul federalismo, sulla giustizia, sul completamento di un moderno assetto bipolare del sistema politico. Di esse ha bisogno il Paese, è ovvio. Ma di esse ha bisogno l’opposizione se vuole scommettere su una ripresa politica e di consensi nella sfida del 2013. E Bersani dovrebbe dire la verità ai suoi (infidi) alleati: per il Pd questa è una priorità assoluta. Non subìta o percepita con imbarazzo. E’ una priorità che non si concilia con la pretesa di tenere sotto lo scacco della soluzione giudiziaria la guida del governo. Che porta solo all’immobilismo e all’esasperazione inconcludente della lotta politica.

Infine. Fossimo in Bersani dichiareremmo conclusa la lunga fase della alimentazione parassitaria, con i voti del Pd, delle avventure politiche più diverse a sinistra del Pd. Mi spiego. In tutti questi anni l’insediamento elettorale del Pd è stato sottoposto al continuo risucchio di un’idrovora insaziabile: prima l’estrema sinistra e poi il giustizialismo di Di Pietro. Martellando l’elettorato del Pd con un continuo ed esasperato rilancio massimalista, essi hanno costruito la propria fortuna politica sulla scommessa di una ininterrotta redistribuzione dei consensi nella sinistra: dal Pd verso le componenti radicali e massimaliste prima, e verso l’Idv poi.

Questo flusso, continuo e debilitante, ha indotto nei comportamenti politici dei dirigenti del Pd una sorta di strabismo: più il Pd perdeva verso la sponda massimalista e giustizialista, e più si inchiodava in una rincorsa al recupero inglobando valori, atteggiamenti e parole d’ordine del variegato arcobaleno massimalista e giustizialista. E più si impegnava in questa rincorsa, più perdeva voti verso questo mondo. E più si impantanava in questa assurda e testarda rincorsa a sinistra, più si appannava il profilo riformista e si allargava il varco verso l’elettorato moderato.

Questa politica sciagurata ha contraddistinto tutti i gruppi dirigenti del Pds/Ds prima e del Pd poi, senza eccezione alcuna. Il corpaccione elettorale della sinistra di governo, ereditato da una storia secolare, è diventato, in questi 20 anni, una sorta di serbatoio a disposizione delle avventure elettorali e professionali più variegate, ma con un unico e ricorrente segno distintivo: incalzare da sinistra il Pd; attaccare da quel lato del campo perché lì esso mostrava il punto debole e vacillante.

Inseguendo l’agenda massimalista e riconoscendone le ragioni, il Pd ha aperto il varco al maneggio del suo serbatoio elettorale. Che è diventato un invitante banchetto per radical chic, guitti, questurini, giacobini, magistrati democratici tentati dalla politica, comunisti in permanente rifondazione, improbabili anchormen mediterannei che hanno prosperato sulla rendita offerta loro dal sacrificale autodafè della sinistra di governo. E’ così che dopo vent’anni, nessuno lo dice, la sinistra di governo si ritrova inchiodata alle percentuali elettorali più basse della sua storia. Fossimo in Bersani dichiareremmo finita la festa. E smontato il banchetto. Ma lo farà?