lunedì 20 aprile 2009
Ho visto guerre, attentati, terremoti...di Toni Capuozzo
...asciano le stesse macerie
Il letto, il cassettone, i comodini, l’immagine sacra alla parete, le foto di famiglia e il disordine del crollo, della polvere. Nelle case sventrate ogni dettaglio di vita privata diventa pubblico
Il primo nato in una tendopoli – tendopoli Paganica 3 – si chiama Maichol, scritto così, e per me, che non sono snob, questo dice tutto. Dice di una distanza di quel mondo dal mondo perdutamente innamorato di se stesso – e che dunque anche odia se stesso – che è l’informazione, la politica, la cultura che finge di essere alta. Prendiamo il caso Santoro. So che è denaro pubblico, ma non amo la censura. Non ho visto la puntata di “Annozero”. Ma da quel che so, la critica mia è molto più pesante di quella dei politici: è un giornalismo che è convinto di nutrirsi di passione civile, e qualche volta persino crede di essere l’unica opposizione. E invece è un giornalismo pigro, che ha sempre gli stessi moduli e la stessa formula, crisi dopo crisi, emergenza dopo emergenza, ha i suoi avversari, patrocina le sue vittime, svolge le sue requisitorie, concede uno spazio tollerante alla difesa, ma è imperturbabile a ogni novità, non si fa mai turbare, né sconvolgere da alcunché, è senza curiosità, senza dubbi, non si immerge mai nella realtà per uscirne un po’ diverso: invecchia su se stesso (e con lui invecchiano i suoi censori). Invece bisogna scavare, come fanno i volontari, con più modesti e inutili taccuini, penne biro, macchine fotografiche e telecamere, in punta di piedi, se si vuole provare a capire qualcosa.
Per me, il terremoto d’Abruzzo sta lavorando su vecchie cicatrici. Sul terremoto ho scritto un libretto, dopo il 6 maggio del 1976, in Friuli. Non era un libro autobiografico. Piuttosto, già dal titolo – “Vivere con il terremoto” – esprimeva la quieta, manualistica convinzione che la conoscenza di un fenomeno tutto sommato naturale potesse aiutare a governarlo, o almeno a governarne la paura. Aveva una copertina serena, a colori, e voleva ispirare, con la conoscenza, una fiducia non rassegnata. Il mio lavoro, in quel libro, consistette nell’interrogare i geologi e gli ingegneri, e tradurre il loro linguaggio in forma piana e comprensibile a tutti. Spiegava a tutti quei friulani raccolti nelle tendopoli che il terremoto no, non era un orco che si agitava nelle viscere della terra come una maledizione, e che cos’è la tettonica a zolle, e che cosa la deriva dei continenti. Raccontava che i terremoti ci sono sempre stati e sempre ci saranno, e che l’edilizia antisismica poteva quasi sempre contenerne i danni, e lo spiegava con esempi semplici: se uno ti spinge e tu stai rigido, a piedi uniti, cadi. Se assecondi la spinta, se la bilanci con gambe larghe e corpo elastico, ritorni al punto di partenza come un Ercolino sempre in piedi. Non era autobiografico, non raccontava quel che avevo visto in quella notte del 6 maggio 1976, e non aveva sentore di una preveggenza personale: eppure adesso posso dire che ho vissuto davvero con i terremoti, come se il manuale fosse stato, a mia insaputa, una profezia.
Non sapevo che il mio primo assignement, il mio primo incarico da giornalista sarebbe stato, tre o quattro anni dopo, un servizio dal terremoto del Montenegro. In realtà non me lo chiesero per meriti giornalistici: semplicemente ero uno che abitava non lontano dalla frontiera con quella che era allora la Jugoslavia, e soprattutto ero uno che viveva in una terra terremotata. Me lo chiesero come un caporedattore chiederebbe un servizio sulla sanità a un malato in corsia: una voce dall’interno. E scesi in Montenegro, per andare a dormire nella hall di un albergo sulla costa di Bar, sui divani da cui sentivamo le chiavi tintinnare dietro il banco del portiere, nessuno era salito in stanza, tutti a un passo dalla via di fuga, anche se sul manuale avevo spiegato che bisogna, prima, individuare le travi portanti, e gli angoli sicuri e non fuggire alla cieca. Si discute sulla previsione dei terremoti, ma la previsione delle fratture sociali è ancora più difficile: salimmo in paesi dimenticati accompagnati dalla Zivilne Zastite, la Protezione civile, e sembrava uno stato perfetto e solidale, non sapevo che dopo una dozzina d’anni sarei tornato a raccontarne la dissoluzione, e le divise che i volontari del soccorso avevano impolverato in quei giorni di tremori, le avrebbero rispolverate l’uno contro l’altro. Così, non mi rendevo conto che il terremoto del Friuli, mi aveva e mi avrebbe cambiato la vita, che quel mese passato in tenda, in un’aiuola spartitraffico del tempo in cui le rotonde erano una cosa rara, sarebbe stato l’apprendistato per andare a vivere per conto mio. E non sapevo che quella prima scossa alle nove della sera, in quella sala in cui tenevamo una delle solite verbose e interminabili riunioni politiche, sarebbe stato per me e per altri la fine della politica. Pensai ad un attentato. C’era stato un rumore cupo, sordo, la vetrata aveva tremato a lungo, come se non finisse mai. Erano le nove di sera, una calda sera di maggio di trent’anni fa e noi, in quello stanzone dove stavamo per tenere una delle nostre solite, interminabili riunioni di rivoluzionari di provincia, non potevamo sapere che in quel momento stava cambiando la nostra vita, e molte altre venivano cancellate, e ad esplodere non era un ordigno, ma il tempo, come se le lancette dell’orologio, che rimarranno ferme per mesi, sui campanili, a quelle ore nove della sera, non riuscissero più a tener dietro a un gorgo di luce e di buio, come se, per riportare le cose e i giorni, le ore e i minuti al loro posto, ci fosse bisogno che la polvere si depositasse, che il chiarore illuminasse un mondo completamente diverso, e che il nuovo mondo tornasse piano a farsi abitudine, e che tornassimo a misurare il tempo come gente normale: i capodanni, i compleanni, gli anniversari del tempo tornato a essere calmo e regolare, rotondo e liscio, come in questo momento, giusto trent’anni dopo.
Eravamo gente di provincia, e giovani combattuti tra noia ed eccitazione, e fummo quasi delusi che non fosse un attentato contro la nostra sede. Sì, erano successe cose da prima pagina, anche da noi, che a ricordarle adesso sembrano invenzioni da romanzo russo: i palestinesi avevano fatto esplodere depositi di carburante a Trieste, i fascisti avevano messo bombe sulle rotaie di una ferrovia, quando era stata annunciata una visita di Tito in Italia, un ragazzo si era fatto uccidere per dirottare un aereo a Ronchi dei Legionari, e una pattuglia di carabinieri era stata massacrata da un’autobomba – ma allora non le chiamavano così – a Peteano. Ma noi le leggevamo sui giornali, e non ne sapevamo niente, e passavamo il tempo a parlare, ad attaccare manifesti e distribuire volantini, sognando la Fiat e le università occupate e i braccianti del meridione, e invece stavamo in un angolo d’Italia senza operai, con tanti soldati che guardavano al confine dell’occidente e riempivano sale cinematografiche fumose, e contadini che ci guardavano sospettosi. Parlavamo di colonia, di minoranze linguistiche oppresse. Guardavamo ai politici locali come alla lunga mano di un potere lontano ed estraneo, leggevamo il giornale locale – quei giornali unici della provincia nella quale non sei morto se non appare l’annuncio nella pagina dei morti – come fosse una menzogna quotidiana. Avevamo ragione in una sola cosa: eravamo un posto quieto e distante, ai margini dell’Italia. Ed avevamo ragione a esserne stanchi, se ogni volta che facevamo una piccola manifestazione e qualche ragazzino più insofferente degli altri si calava il passamontagna sul volto il poliziotto bonario lo chiamava per nome, ridendo, e gli diceva dai tiralo su: ci si conosceva tutti, per nome o soprannome. Ma non sapevamo cosa altro fare.
Quella sera del sei maggio di trent’anni fa la ricordo come un film nitido, in bianco e nero. Fu quel rumore lungo a cambiare tutto, anche se faticammo ad accorgercene, e mentre stavamo sul marciapiede all’angolo della strada, in mezzo alla gente uscita in strada, nella sera tiepida, con gli occhi smarriti che guardavano le case, il cielo, la terra, gli occhi degli altri, in attesa di riprendere la riunione e la nostra vita, sentimmo le bottiglie dietro il bancone urtare le une sulle altre, e cadere, e la luce mancare, e l’asfalto sussultare: era davvero un terremoto, era, e non lo sapevamo, il terremoto del 6 maggio, il terremoto del Friuli, e in quel momento succedeva quello che imparai a vedere nei giorni successivi, e poi in tanti posti del mondo, a ogni guerra, a ogni sussulto impazzito del tempo e degli orologi. L’osteria lì accanto si era affollata, all’improvviso. Ordinammo da bere, e le bottiglie presero a sbattere l’una contro l’altra. Uscii in strada e mi gettai sotto una macchina parcheggiata, a cercare un riparo, perché piovevano calcinacci. L’asfalto sobbalzava. Era il terremoto, ma ancora non sapevamo che terremoto. La riunione venne rinviata e io e un amico ci decidemmo ad accompagnare un terzo amico, in auto, al suo paese, Gemona. Quella sera andai incontro al destino, per caso. Ci ho pensato tante volte, ogni volta che dovevo decidere se andare da una parte o da un’altra, e dopo, la sera, cercando di mettere insieme i resti di una giornata andata a pezzi: cos’è che ti porta, per caso, in piazza Alimonda, a Genova, o nella piazza del mercato a Sarajevo, perché qualcosa ti spinge da una parte, invece che dall’altra?
Quella sera decidemmo di rinunciare alla riunione, e in tre salimmo su una delle poche automobili che avevamo, e per questo era sempre carica di manifesti e sporca di colla, e accompagnammo un quarto amico – allora ci chiamavamo compagni – che stava a Gemona. Fu dopo qualche chilometro che incominciammo a capire, quando sulla destra della statale apparve il profilo accovacciato di quello che era stato un ristorante, e il tetto poggiava quasi sull’asfalto e da una fessura spuntavano le luci di posizione ancora accese di un’automobile. Il ragazzo che stavamo accompagnando ci mise fretta, non c’erano telefoni e telefonini, e casa sua, anche casa sua poteva essersi accovacciata. Faticammo a trovare la via per Gemona, perché le macerie ingombravano una strada, perché il passaggio a livello era bloccato, perché sulle strade si aggiravano come fantasmi persone che si sostenevano l’una all’altra, o vagavano come se non cercassero più niente. Ci fermammo alle prime case, e il nostro amico continuò a piedi. Era una casa popolare, quella dove cominciammo a mettere le mani nel calcestruzzo e nei mattoni, attorno alla gamba di un uomo che sporgeva come da una sabbia mobile. Non so perché scegliemmo lui, o perché lui scelse noi, urlando. C’erano gruppi di persone che correvano di qua e di là, e non sapevi dove andare.
E ci volevano molte persone per scavare a mani nude, perché non c’era altro, e le nostre mani da volantini e da libri avevano un solo vantaggio, a compensare i polpastrelli lacerati: erano venute da fuori, da una vetrina che tremava e nient’altro, e non sapevi il nome di quello imprigionato, eri un volontario, per caso e per fortuna. Lo tirammo fuori, e una volta, mesi dopo, lo riconobbi sotto un tendone di Gemona, ma non ebbi il coraggio di ricordargli quella sera, la sera in cui le macerie seppellirono e restituirono migliaia di persone, e raccontarono una Pompei moderna, un’Odissea del caso: quello che venne salvato dalla porta che gli fece scudo, quello che tornò dentro a salvare qualcuno e non fu salvato, quelli che vennero salvati a giorni di distanza dai cani svizzeri, e quelli che uscirono alla luce con i capelli bianchi per sempre. Per notti intere i racconti, davanti alle tende, scivolavano piano sulla morte improvvisa, e sulla morte lenta di chi rimase prigioniero di una bolla d’aria, come sepolti vivi per sbaglio, con la vita che diventa un’eco di richiami, disperati o minacciosi come una ruspa che non sa di te e ti seppellirà per sempre.
Ci perdemmo, quella notte, e io conservo due soli ricordi, il primo è una fotografia, l’altro è un film. Il primo è un’alba livida, nella quale non cantano neppure gli uccelli che cantano a maggio – avessimo dato ascolto ai cani, ci si sarebbe salvati, la sera prima – e sulla piazza, lontano dalle case, ci sono gruppi muti di donne vestite di nero, come già a lutto, attorno a fuochi che mandano un fumo lento e una luce incerta, e sembra la fotografia di scena della “Grande Guerra”, il mattino dopo, ma senza rumori, senza suoni, senza pianti, tutto è fermo. Il film è quello nel vecchio ospedale davanti al Duomo spaccato. I medici, le infermiere, i malati stesi a terra. Mancano due donne anziane, sono rimaste lassopra. Siamo andati a prenderle io e un altro che veniva da fuori, ma prima i medici ci hanno dato una sorsata di alcol forte, perché le scale tremano ancora, o forse sono solo le nostre gambe nel silenzio dell’edificio vuoto. Le due donne sono stese nei letti, trattenute da tubicini che non sappiamo togliere, se non maldestri. Non pesano nulla, scendiamo quelle scale con la paura di morire con in braccio una nonna ossuta e lieve che non è la tua, speriamo che le sue preghiere funzionino per entrambi, e funzionano. Funzionano fino a quando torno a casa, in città, e chiudo la porta e piango, perché non avevo mai visto tanti morti, e portare in salvo una vecchia non ti assolve dall’aver visto morti bambini.
Non sapevamo che quella sera non solo erano morti in tanti, ma era finito un mondo. Ci mettemmo a fare i volontari, e addio ai volantini alle fabbriche. Imparammo ad ascoltare, piuttosto che a parlare. La Politica finì, per me, molto prima che la mia organizzazione di rivoluzionari si desse un singolare addio. Quando l’organizzazione di cui facevo parte – Lotta continua – si convocò per l’ultima volta a Rimini, per sciogliersi definitivamente, non andammo neppure a quel singolare e definitivo congresso, ci eravamo già sciolti per conto nostro, nelle tendopoli. Anche se restammo sorpresi quando ci dissero che era stata sciolta con uno slogan – che era il modo allora, di esprimere sentimenti e direttive, che ci suonava familiare: “Vivere con il terremoto”. Intendevano dire, nel linguaggio astruso e simbolico della politica, che bisogna abituarsi a vivere sballottati tra il femminismo e il terrorismo, privi della mano paterna sicura di un ennesimo, piccolo partito. Ma noi pensavamo già ad altro, a distribuire i quotidiani, i fornelli a gas da campeggio, gli stivali di gomma nelle tendopoli ogni mattino, a batterci perché tutto tornasse come prima, perché si ricostruisse il Friuli com’era e dov’era, perché si spiegasse alla gente, nelle tendopoli, quel che già si sapeva, senza linguaggi astrusi e simbolici: non sapevo, allora, che avrei fatto uno dei primi miei servizi, in Italia, in giorni in cui neppure la redazione esteri di un piccolo quotidiano poteva dimenticarsi dell’Italia, quando l’Irpinia tremò, e rividi, con altri accenti, le stesse scene, ascoltai le stesse urla, gli stessi lamenti, le stesse imprecazioni. Non sapevo che avrei visto, per la prima volta, il paese di una nonna che non avevo mai conosciuto, Pescopagano. E non sapevo che poi avrei sentito la terra tremare – e prima di altri, perché l’esperienza ti rende più sensibile, più attento a quel rumore sordo che cresce all’improvviso, come un’onda anomala – tante volte, diventando un reporter di guerra nell’America centrale delle guerriglie e dei vulcani e dei colpi di stato.
Una notte, a Città del Guatemala, dimenticai di aver lavorato a un manuale quieto e istruttivo, e mi domandai se il terremoto non fosse per me una persecutoria nuvola alla Fantozzi, che mi stanava dappertutto, come uno stato d’animo, altro che fenomeno naturale (in Abruzzo è successo davvero, a Lucia Petri, friulana di nascita ed abruzzese d’adozione. A sette anni, a Forgaria, restò per sei ore sotto le macerie della sua casa. Adulta, e sposata, venne a vivere nel capoluogo abruzzese, in una casa sotto la cui architrave si sono rifugiati lei, il marito, e i due figli, quarant’anni dopo). In questo, il terremoto è come la guerra: non è che conoscerla ti protegge, o ti consente l’aria di uno che ha visto tutto: ti fa male ogni volta, peggio che la prima volta. Con il tempo ho imparato che il terremoto ha molto altro in comune con la guerra, o forse è viceversa. Le macerie del cemento armato e le macerie delle anime, il crollo di un mondo, e l’affastellarsi in un caos di tanti destini personali.
Un terremoto, come una guerra, mette a nudo le cose e le anime. A raccontare un attentato, o un bombardamento, hai lo stesso sguardo di chi si ferma davanti a una casa che abbia perso una facciata, e gli occhi si posano su un’intimità violata, su una camera da letto che pare quei giochi da bambini: il letto, il cassettone, i comodini, l’immagine sacra alla parete, le foto di famiglia, e il disordine del crollo, della polvere, e prima ancora della fuga precipitosa da vite e sonni che erano privati e sono improvvisamente, e tragicamente, diventati pubblici. Guardi una casa sventrata, una parete crollata, e la stanza che è stata la stanza degli sposi, o la stanza dei nonni, e adesso è aperta come una stanza da teatro: l’armadio, il letto, i comodini, il cassettone. Vedi l’immagine sacra sopra il letto, e i ritratti o le fotografie appese alle pareti, e ti accorgi di scrutare l’intimità di una vita, come se il crollo avesse spogliato e portato alla luce, ricoperte di polvere, le esistenze di tutti, come se fosse stata un’invasione brutale dell’ordine esistente delle cose, come se tutto fosse in piazza, e come se il frullatore del tempo avesse deciso un giro di giostra folle e casuale, al termine del quale nessuno sarà più lo stesso, nessuno tornerà a dormire nel letto che ha dato forma ai nostri corpi, alle generazioni morte e nate in quei letti: finito, si ricomincia daccapo, a credere che il destino siamo noi, di nuovo in pace con le nostre vite. E invece è come in guerra. Se racconti di uno che era uscito a fare la spesa, o a comprare il pane, e sono rimasti per sempre nella scena devastata di un attentato, non racconti quasi la stessa cosa? E non succede, in guerra come nei terremoti, che gli uomini diano contemporaneamente il meglio e il peggio di sé, in una gara di sciacalli e di eroi silenziosi?
Così, con il tempo, ho raccontato come se fossero terremoti i viaggi all’inferno di Sarajevo, di Mogadiscio, di Baghdad e di Kabul. E ho maturato un paio di riluttanze: non uso mai come una metafora il termine “terremoto”, non parlo mai di terremoto politico, o di terremoto ai vertici di una compagnia, come per un timoroso rispetto della parola, per conservarle un senso, e per mantenere una distanza. E non vado a raccontare i terremoti, se posso evitarlo. Non sono andato in Umbria, e mi sono limitato a conservarne, come una foto ingiallita, un’immagine da telespettatore che assiste in diretta al crollo del soffitto della chiesa. Non lo faccio perché ho maturato una resistenza personale all’inevitabile retorica che segue i terremoti, gli appelli ai soccorsi, gli sforzi della ripresa e della ricostruzione, i tagli dei nastri e gli anniversari, che pure sono le forme accettabili in cui la vita, e lo spettacolo che la circonda, vanno avanti. Non lo faccio perché mi sembra di rivivere quello che per me personalmente, e per le terre in cui sono cresciuto, fu un parto doloroso, una nascita in cui muore la madre, e il bimbo cresce orfano.
Non sapevamo che sarebbe venuta l’estate calda e clamorosamente bella delle tende, né l’autunno della seconda scossa, e la tristezza dell’esodo. Non sapevamo che quella gente avrebbe compiuto un miracolo senza precedenti, e senza seguito: ricostruire i paesi dov’erano e com’erano. Non sapevamo che dalla minaccia di un ground zero sarebbe emerso il sogno di un’identità, davanti agli altari all’aperto e alle messe in friulano, e nelle assemblee e nei volantini in friulano. Non sapevamo che quegli amministratori e quei politici da Prima repubblica avrebbero scritto una delle pagine migliori della Repubblica tutta. Non sapevamo che la tragedia avrebbe generato un miracolo economico, e portato il benessere. Non sapevamo che, dopo, nulla sarebbe stato più come prima, che le glorie e le miserie di quel mondo contadino erano finite per sempre, sotto le macerie, nel momento stesso in cui venivano cantate, e scoperte come uno di quei sopravvissuti dopo tanti giorni, i capelli bianchi di polvere e di paura. Il Friuli non sarebbe stato mai più lo stesso, come se una guerra pur vinta togliesse per sempre il sapore alla pace successiva. Questo è diverso che in guerra: che la guerra, quella la attribuisci agli uomini, non è ineluttabile. Ma il terremoto è una guerra senza nemici, o con i nemici peggiori: la natura matrigna, la terra che ti tradisce, e i nemici che ti porti dentro. Ricordo ancora la scossa che mi fece più paura, e mi colse all’aperto, mentre passeggiavo nei campi con un prete, e non avevamo nulla da temere, neanche un albero che ci potesse cascare addosso. Ma sentimmo sotto i piedi, rattrappiti in mezzo al campo, il terremoto arrivare come quei giochi infantili che non si fanno più, quella corda che agiti a un capo e l’onda arriva fino all’altro capo. Solo che noi due avevamo i piedi sulla corda, e il mondo che tremava era il nostro, e il rumore sordo era una specie di tradimento, di fine di ogni certezza, più simili a vecchi insicuri sul gradino che a bambini al primo passo. Eppure ho sentito parlare di quei giorni con nostalgia, senza che si usasse quella parola. Erano giorni tremendi, e ognuno doveva dare il meglio di sé. Ho pianto, in quel primo mattino, e poi basta. Perché ancora adesso, quando nelle sere di Sarajevo qualcuno mi confessa di avere quasi nostalgia di quegli anni di guerra, vergognandosene, lo capisco, e temo solo di offendere il dolore altrui dicendo che ho nostalgia di quell’estate nelle tende. Stavo in una tendina canadese con la mia ragazza di allora, finito di baciarsi in automobile, era come un annuncio della vita adulta.
Ma non puoi vivere di coraggio e paura, di generosità e vita in comune. Arriva il momento che devi solo campare, mangiare normalità e oblio, e chiuderti alle spalle le porte di una casa ricostruita, e antisismica. E di un passato che, scostate le macerie e lasciati i morti ai monumenti e ai ricordi privati, mi appare, trentatré anni dopo, come un miracolo povero di bellezza dimenticata. Cambiò tutto: i soldati che scavavano tra le macerie, i politici locali e quelli nazionali – ricordo Aldo Moro, in visita – che, a ricordarli adesso, scuoti la testa quando senti liquidare la Prima repubblica, i sindaci che sembrano sindaci di liberi comuni, e una chiesa fatta di preti contadini che celebrava le messe all’aperto, in friulano. In un certo senso scoprivo un mondo nuovo, nel momento in cui quel mondo stava per scomparire. Scompariva un modo di semplice e rude povertà, di muri a secco, di paesi come presepi, il mondo di padre Turoldo e di Pier Paolo Pasolini, un mondo di pianure sassose e di colline racchiuso dalla cinta delle montagne e solcato da fiumi azzurri, povero, sdrucito e felice. Come succede al mondo contadino imitato negli agriturismi, con il basto dei buoi o i rastrelli appesi alla parete, la riscoperta, la celebrazione, segnalano che quel mondo è finito, che la sua bellezza e la sua dignità vengono citate come si ricordano i meriti in vita davanti al feretro di uno scomparso. Perché quel modello di ricostruzione che la classe politica ha dimenticato come lezione fu anche un vertiginoso salto in avanti, fu, come dicono gli economisti, un volano: trascinò dietro a sé tutta l’economia, non si limitò a ricostruire come in un puzzle i paesi dov’erano e com’erano prima, non si fermò a numerare una per una tutte le pietre del Duomo di Venzone e a ricomporle come un Lego, con pazienza da certosini, o caparbia alpina. Finiva per sempre un mondo povero ed emarginato. Lo stato, che avevamo visto come un colonizzatore, un padre padrone lontano, fu madre, e madre generosa di soldi. Li spesero bene, i friulani, rimboccandosi le maniche, ricostruirono i loro paesi come avevano costruito la Transiberiana e le ville di Buenos Aires, o i quartieri di Toronto. A ritornarci adesso, adesso che su quelle vie troppo pulite, quelle case troppo nitide, quelle chiese troppo accuratamente ricomposte si è posata di nuovo la patina del tempo, adesso che i bambini morti allora avrebbero l’età di mezzo, e i poveri vecchi sepolti sotto le macerie sarebbero stati solo un annuncio sul giornale locale, morti in modo qualunque, mi accorgo che era un sogno credere che tutto sarebbe ritornato a essere come prima. Era una sfida testarda a non perdere anche l’anima, anche le radici, ed era inevitabile che aiutasse le braccia e le teste, i portafogli e le leggi, ma era una sfida destinata a essere persa: cambiava tutto, e spesso in meglio, ma cambiava. Per tutti, e per ciascuno.
Per questo sono stato spesso zitto, o di poche parole, in Abruzzo. Perché volevo capire, e avevo paura di rivivere. Non ho mai abbandonato quelle immagini della notte del sei maggio, come fossero un rosario personale, una processione solitaria nel passato. Mi ritornano in mente a ogni nuvola di polvere, che sbuffi dalle Torri gemelle o da un incrocio di Baghdad, o girando attorno ad Onna. Mi sono accorto, come a un esame trentennale, di quanto siamo cambiati. Ci sono stranieri immigrati, tra i morti. Da noi, gli unici stranieri erano i canadesi e gli svizzeri, con i loro cani da macerie, e gli americani e gli altri ad aiutarci. C’è una forte Protezione civile, e i soccorsi non tardano. C’è un esercito che ha esperienza di catastrofi. Da noi morirono ventinove alpini, nel crollo di una caserma che era stata inaugurata appena otto anni prima. Gli alpini scavarono se stessi e scavarono in tutta Gemona. C’era l’esercito di leva: ricordo la storia di un gemello che tenne in vita l’altro soffiandogli aria con un tubo di gomma, e veniva da chiedersi come mai due gemelli tutti e due di leva, eravamo refrattari all’eroismo, anche se i militari di leva in licenza ritornarono spontaneamente, a dare una mano. Tra quelli che morirono in caserma ci fu il geniere Livio Sciulli, un abruzzese emigrato con la famiglia in Canada, e tornato solo per restare italiano. Leggo su Internet blogger che denunciano: migliaia di morti in Abruzzo, sono clandestini sepolti nelle cantine. Sono più impermeabili di Santoro ai drammi, hanno sempre una dietrologia da maneggiare, torri gemelle o L’Aquila non importa, e diffidano persino dei cani da macerie, annusano la controinformazione ma non conoscono l’odore della morte, per loro fortuna.
C’è più solitudine, oggi, anche in provincia. L’ho capito vedendo su molte bare il fiore pietosamente deposto da mani ufficiali – il minimo sindacale di pietà per qualche anziano solo, e da pensione minima – e piccoli cortei funebri con cortei di ragazzini che non conoscevano il morto, in un gesto bello, che ricompensa di tanta anonimità in vita.
C’è molto di più e molto di meno: è bello, per me, vedere un premier che ci mette la faccia, e promette (fossi l’opposizione, invece di sospettare del suo attivismo, sarei un suo promemoria implacabile), è meno bello vedere un Pontefice che celebra il Venerdì santo a Roma, invece di venire a lavare i piedi di un prete di campagna terremotato. E’ bello vedere tanta solidarietà, e tanto volontariato, e poca militanza. E’ piccola cosa vedere la politica misurarsi sul “caso Santoro”. Bisogna pensare positivo, avere il senso delle sfide, pensare in grande e ascoltare la gente qualunque, quella che chiama i figli Maichol, non i conduttori di talk show e i grandi architetti. A questi ultimi bisogna guardare con la simpatia distante che ispirano le coazioni a ripetere, quel continuismo che è anche un modo per sopravvivere, per continuare a essere. E’ meglio invece guardare alla forza sobria, al dolore pudico degli abruzzesi, alla loro voglia di rifare. Capisci che non è gente che si illude. Dovranno costruire i prefabbricati prima dell’inverno, e dovrebbero muoversi già adesso. E decidere come ricostruire, e dove, in una sfida molto più affascinante dei conti che la giustizia deve pur fare del passato.
Che Dio risparmi all’Abruzzo una replica, e lo lasci subito pensare al suo futuro. Ma a noi toccò, la replica di settembre, e fece giustizia di ogni illusione. Avevamo detto: dalle tende alle case, per paura che i prefabbricati restassero per sempre. Fu un colpo duro, con le tendopoli svuotate, e i prefabbricati come una resa alla realtà, non si poteva più andare dalle tende alle case. La gente sfollò in riva a un mare d’inverno, e avevano i volti di tanti esodi che ho visto poi. Esodo: non fu l’unica parola biblica pronunciata in quei giorni, i giorni in cui il Dio venne pregato e bestemmiato, ed entrambe le cose con quella fede semplice e forte come le mani di questa gente che non ama tenderle a chiedere, che sa solo farle lavorare o stringerle in un pugno quasi nascosto, in un silenzio pudico che deve nascondere il pianto. Quando le giungevano l’una all’altra, nelle chiese sopravvissute o davanti agli altari all’aperto, quelle mani giunte in un gesto quasi infantile, da dottrina del mese di maggio, davano da sole l’idea di una fede semplice e forte, spoglia come una chiesetta di campagna. Ma quel settembre, anche la fede fu messa a dura prova. Era finita un’estate di caldo ed emozioni, di rabbia e di speranza, di incubi e sogni. Erano accorsi volontari da tutta l’Italia, e nelle tendopoli era stata scoperta una specie di democrazia diretta, e il taramot, come lo chiamava la gente in quella lingua che sarebbe diventata una specie di tetto per gente senza tetto, un’affabulazione cruda e dolce per raccontarsi le tragedie e le speranze, un linguaggio da banda di ragazzi che non vuole crescere e vuole riconoscersi ed essere riconosciuta per la propria identità, quel taramot era stato una tragedia corale, e sopravvivere era stata una promessa e una scommessa.
E adesso, alla seconda scossa, restava appiccicata, come una pioggia autunnale precoce e insistente, una sola certezza, segnata di paura: niente e nessuno sarebbero stati quelli di prima, nessuno è più lo stesso, in Friuli e in tutto il resto del tuo mondo, anche oltre le pianure di sassi, i fiumi azzurri e il cerchio rassicurante delle montagne. I muri sarebbero tornati a levarsi lungo gli stessi perimetri, ma avrebbero avuto per sempre il sapore delle fotografie di tutti quelli che non videro l’alba del sette di maggio, fotografie su centinaia e centinaia e centinaia di lapidi che recano tutte la stessa data, e potrebbero recare la stessa ora. Fotografie sbiadite, che hanno l’innocenza di chi non conosce il futuro. Così i paesi, i muri, le case, che hanno l’innocenza di chi non conosce il passato. Fu una tragedia, e la ricostruzione una grande prova civile: il commissario straordinario ebbe poteri da dittatore, e i comitati delle tendopoli furono dei soviet senza ideologia, e il governatore d’Abruzzo non farebbe male a farsi raccontare un po’ di cose da gente come Biasutti o Zamberletti. Furono salvati prima i posti di lavoro, perché nessuno andasse via. Poi le case, infine le chiese. Sarà una prova dura anche per l’Abruzzo. Credo ce la faranno, terranno duro anche nell’estate dell’Italia in vacanza, e sopravviveranno a noi giornalisti con i servizi del Natale in baracca, e al primo, al secondo, e forse anche al terzo anniversario. Ma bisognerà aspettare cento anni, il tempo che non ci sia più nessun sopravvissuto, perché le cicatrici che accarezzano gli anniversari, i discorsi ufficiali, e i terremoti degli altri, cessino di far male, e il mondo sia quello di sempre. Intanto, viviamo con il terremoto, delle nostre case, e delle nostre vite.
di Toni Capuozzo
Il letto, il cassettone, i comodini, l’immagine sacra alla parete, le foto di famiglia e il disordine del crollo, della polvere. Nelle case sventrate ogni dettaglio di vita privata diventa pubblico
Il primo nato in una tendopoli – tendopoli Paganica 3 – si chiama Maichol, scritto così, e per me, che non sono snob, questo dice tutto. Dice di una distanza di quel mondo dal mondo perdutamente innamorato di se stesso – e che dunque anche odia se stesso – che è l’informazione, la politica, la cultura che finge di essere alta. Prendiamo il caso Santoro. So che è denaro pubblico, ma non amo la censura. Non ho visto la puntata di “Annozero”. Ma da quel che so, la critica mia è molto più pesante di quella dei politici: è un giornalismo che è convinto di nutrirsi di passione civile, e qualche volta persino crede di essere l’unica opposizione. E invece è un giornalismo pigro, che ha sempre gli stessi moduli e la stessa formula, crisi dopo crisi, emergenza dopo emergenza, ha i suoi avversari, patrocina le sue vittime, svolge le sue requisitorie, concede uno spazio tollerante alla difesa, ma è imperturbabile a ogni novità, non si fa mai turbare, né sconvolgere da alcunché, è senza curiosità, senza dubbi, non si immerge mai nella realtà per uscirne un po’ diverso: invecchia su se stesso (e con lui invecchiano i suoi censori). Invece bisogna scavare, come fanno i volontari, con più modesti e inutili taccuini, penne biro, macchine fotografiche e telecamere, in punta di piedi, se si vuole provare a capire qualcosa.
Per me, il terremoto d’Abruzzo sta lavorando su vecchie cicatrici. Sul terremoto ho scritto un libretto, dopo il 6 maggio del 1976, in Friuli. Non era un libro autobiografico. Piuttosto, già dal titolo – “Vivere con il terremoto” – esprimeva la quieta, manualistica convinzione che la conoscenza di un fenomeno tutto sommato naturale potesse aiutare a governarlo, o almeno a governarne la paura. Aveva una copertina serena, a colori, e voleva ispirare, con la conoscenza, una fiducia non rassegnata. Il mio lavoro, in quel libro, consistette nell’interrogare i geologi e gli ingegneri, e tradurre il loro linguaggio in forma piana e comprensibile a tutti. Spiegava a tutti quei friulani raccolti nelle tendopoli che il terremoto no, non era un orco che si agitava nelle viscere della terra come una maledizione, e che cos’è la tettonica a zolle, e che cosa la deriva dei continenti. Raccontava che i terremoti ci sono sempre stati e sempre ci saranno, e che l’edilizia antisismica poteva quasi sempre contenerne i danni, e lo spiegava con esempi semplici: se uno ti spinge e tu stai rigido, a piedi uniti, cadi. Se assecondi la spinta, se la bilanci con gambe larghe e corpo elastico, ritorni al punto di partenza come un Ercolino sempre in piedi. Non era autobiografico, non raccontava quel che avevo visto in quella notte del 6 maggio 1976, e non aveva sentore di una preveggenza personale: eppure adesso posso dire che ho vissuto davvero con i terremoti, come se il manuale fosse stato, a mia insaputa, una profezia.
Non sapevo che il mio primo assignement, il mio primo incarico da giornalista sarebbe stato, tre o quattro anni dopo, un servizio dal terremoto del Montenegro. In realtà non me lo chiesero per meriti giornalistici: semplicemente ero uno che abitava non lontano dalla frontiera con quella che era allora la Jugoslavia, e soprattutto ero uno che viveva in una terra terremotata. Me lo chiesero come un caporedattore chiederebbe un servizio sulla sanità a un malato in corsia: una voce dall’interno. E scesi in Montenegro, per andare a dormire nella hall di un albergo sulla costa di Bar, sui divani da cui sentivamo le chiavi tintinnare dietro il banco del portiere, nessuno era salito in stanza, tutti a un passo dalla via di fuga, anche se sul manuale avevo spiegato che bisogna, prima, individuare le travi portanti, e gli angoli sicuri e non fuggire alla cieca. Si discute sulla previsione dei terremoti, ma la previsione delle fratture sociali è ancora più difficile: salimmo in paesi dimenticati accompagnati dalla Zivilne Zastite, la Protezione civile, e sembrava uno stato perfetto e solidale, non sapevo che dopo una dozzina d’anni sarei tornato a raccontarne la dissoluzione, e le divise che i volontari del soccorso avevano impolverato in quei giorni di tremori, le avrebbero rispolverate l’uno contro l’altro. Così, non mi rendevo conto che il terremoto del Friuli, mi aveva e mi avrebbe cambiato la vita, che quel mese passato in tenda, in un’aiuola spartitraffico del tempo in cui le rotonde erano una cosa rara, sarebbe stato l’apprendistato per andare a vivere per conto mio. E non sapevo che quella prima scossa alle nove della sera, in quella sala in cui tenevamo una delle solite verbose e interminabili riunioni politiche, sarebbe stato per me e per altri la fine della politica. Pensai ad un attentato. C’era stato un rumore cupo, sordo, la vetrata aveva tremato a lungo, come se non finisse mai. Erano le nove di sera, una calda sera di maggio di trent’anni fa e noi, in quello stanzone dove stavamo per tenere una delle nostre solite, interminabili riunioni di rivoluzionari di provincia, non potevamo sapere che in quel momento stava cambiando la nostra vita, e molte altre venivano cancellate, e ad esplodere non era un ordigno, ma il tempo, come se le lancette dell’orologio, che rimarranno ferme per mesi, sui campanili, a quelle ore nove della sera, non riuscissero più a tener dietro a un gorgo di luce e di buio, come se, per riportare le cose e i giorni, le ore e i minuti al loro posto, ci fosse bisogno che la polvere si depositasse, che il chiarore illuminasse un mondo completamente diverso, e che il nuovo mondo tornasse piano a farsi abitudine, e che tornassimo a misurare il tempo come gente normale: i capodanni, i compleanni, gli anniversari del tempo tornato a essere calmo e regolare, rotondo e liscio, come in questo momento, giusto trent’anni dopo.
Eravamo gente di provincia, e giovani combattuti tra noia ed eccitazione, e fummo quasi delusi che non fosse un attentato contro la nostra sede. Sì, erano successe cose da prima pagina, anche da noi, che a ricordarle adesso sembrano invenzioni da romanzo russo: i palestinesi avevano fatto esplodere depositi di carburante a Trieste, i fascisti avevano messo bombe sulle rotaie di una ferrovia, quando era stata annunciata una visita di Tito in Italia, un ragazzo si era fatto uccidere per dirottare un aereo a Ronchi dei Legionari, e una pattuglia di carabinieri era stata massacrata da un’autobomba – ma allora non le chiamavano così – a Peteano. Ma noi le leggevamo sui giornali, e non ne sapevamo niente, e passavamo il tempo a parlare, ad attaccare manifesti e distribuire volantini, sognando la Fiat e le università occupate e i braccianti del meridione, e invece stavamo in un angolo d’Italia senza operai, con tanti soldati che guardavano al confine dell’occidente e riempivano sale cinematografiche fumose, e contadini che ci guardavano sospettosi. Parlavamo di colonia, di minoranze linguistiche oppresse. Guardavamo ai politici locali come alla lunga mano di un potere lontano ed estraneo, leggevamo il giornale locale – quei giornali unici della provincia nella quale non sei morto se non appare l’annuncio nella pagina dei morti – come fosse una menzogna quotidiana. Avevamo ragione in una sola cosa: eravamo un posto quieto e distante, ai margini dell’Italia. Ed avevamo ragione a esserne stanchi, se ogni volta che facevamo una piccola manifestazione e qualche ragazzino più insofferente degli altri si calava il passamontagna sul volto il poliziotto bonario lo chiamava per nome, ridendo, e gli diceva dai tiralo su: ci si conosceva tutti, per nome o soprannome. Ma non sapevamo cosa altro fare.
Quella sera del sei maggio di trent’anni fa la ricordo come un film nitido, in bianco e nero. Fu quel rumore lungo a cambiare tutto, anche se faticammo ad accorgercene, e mentre stavamo sul marciapiede all’angolo della strada, in mezzo alla gente uscita in strada, nella sera tiepida, con gli occhi smarriti che guardavano le case, il cielo, la terra, gli occhi degli altri, in attesa di riprendere la riunione e la nostra vita, sentimmo le bottiglie dietro il bancone urtare le une sulle altre, e cadere, e la luce mancare, e l’asfalto sussultare: era davvero un terremoto, era, e non lo sapevamo, il terremoto del 6 maggio, il terremoto del Friuli, e in quel momento succedeva quello che imparai a vedere nei giorni successivi, e poi in tanti posti del mondo, a ogni guerra, a ogni sussulto impazzito del tempo e degli orologi. L’osteria lì accanto si era affollata, all’improvviso. Ordinammo da bere, e le bottiglie presero a sbattere l’una contro l’altra. Uscii in strada e mi gettai sotto una macchina parcheggiata, a cercare un riparo, perché piovevano calcinacci. L’asfalto sobbalzava. Era il terremoto, ma ancora non sapevamo che terremoto. La riunione venne rinviata e io e un amico ci decidemmo ad accompagnare un terzo amico, in auto, al suo paese, Gemona. Quella sera andai incontro al destino, per caso. Ci ho pensato tante volte, ogni volta che dovevo decidere se andare da una parte o da un’altra, e dopo, la sera, cercando di mettere insieme i resti di una giornata andata a pezzi: cos’è che ti porta, per caso, in piazza Alimonda, a Genova, o nella piazza del mercato a Sarajevo, perché qualcosa ti spinge da una parte, invece che dall’altra?
Quella sera decidemmo di rinunciare alla riunione, e in tre salimmo su una delle poche automobili che avevamo, e per questo era sempre carica di manifesti e sporca di colla, e accompagnammo un quarto amico – allora ci chiamavamo compagni – che stava a Gemona. Fu dopo qualche chilometro che incominciammo a capire, quando sulla destra della statale apparve il profilo accovacciato di quello che era stato un ristorante, e il tetto poggiava quasi sull’asfalto e da una fessura spuntavano le luci di posizione ancora accese di un’automobile. Il ragazzo che stavamo accompagnando ci mise fretta, non c’erano telefoni e telefonini, e casa sua, anche casa sua poteva essersi accovacciata. Faticammo a trovare la via per Gemona, perché le macerie ingombravano una strada, perché il passaggio a livello era bloccato, perché sulle strade si aggiravano come fantasmi persone che si sostenevano l’una all’altra, o vagavano come se non cercassero più niente. Ci fermammo alle prime case, e il nostro amico continuò a piedi. Era una casa popolare, quella dove cominciammo a mettere le mani nel calcestruzzo e nei mattoni, attorno alla gamba di un uomo che sporgeva come da una sabbia mobile. Non so perché scegliemmo lui, o perché lui scelse noi, urlando. C’erano gruppi di persone che correvano di qua e di là, e non sapevi dove andare.
E ci volevano molte persone per scavare a mani nude, perché non c’era altro, e le nostre mani da volantini e da libri avevano un solo vantaggio, a compensare i polpastrelli lacerati: erano venute da fuori, da una vetrina che tremava e nient’altro, e non sapevi il nome di quello imprigionato, eri un volontario, per caso e per fortuna. Lo tirammo fuori, e una volta, mesi dopo, lo riconobbi sotto un tendone di Gemona, ma non ebbi il coraggio di ricordargli quella sera, la sera in cui le macerie seppellirono e restituirono migliaia di persone, e raccontarono una Pompei moderna, un’Odissea del caso: quello che venne salvato dalla porta che gli fece scudo, quello che tornò dentro a salvare qualcuno e non fu salvato, quelli che vennero salvati a giorni di distanza dai cani svizzeri, e quelli che uscirono alla luce con i capelli bianchi per sempre. Per notti intere i racconti, davanti alle tende, scivolavano piano sulla morte improvvisa, e sulla morte lenta di chi rimase prigioniero di una bolla d’aria, come sepolti vivi per sbaglio, con la vita che diventa un’eco di richiami, disperati o minacciosi come una ruspa che non sa di te e ti seppellirà per sempre.
Ci perdemmo, quella notte, e io conservo due soli ricordi, il primo è una fotografia, l’altro è un film. Il primo è un’alba livida, nella quale non cantano neppure gli uccelli che cantano a maggio – avessimo dato ascolto ai cani, ci si sarebbe salvati, la sera prima – e sulla piazza, lontano dalle case, ci sono gruppi muti di donne vestite di nero, come già a lutto, attorno a fuochi che mandano un fumo lento e una luce incerta, e sembra la fotografia di scena della “Grande Guerra”, il mattino dopo, ma senza rumori, senza suoni, senza pianti, tutto è fermo. Il film è quello nel vecchio ospedale davanti al Duomo spaccato. I medici, le infermiere, i malati stesi a terra. Mancano due donne anziane, sono rimaste lassopra. Siamo andati a prenderle io e un altro che veniva da fuori, ma prima i medici ci hanno dato una sorsata di alcol forte, perché le scale tremano ancora, o forse sono solo le nostre gambe nel silenzio dell’edificio vuoto. Le due donne sono stese nei letti, trattenute da tubicini che non sappiamo togliere, se non maldestri. Non pesano nulla, scendiamo quelle scale con la paura di morire con in braccio una nonna ossuta e lieve che non è la tua, speriamo che le sue preghiere funzionino per entrambi, e funzionano. Funzionano fino a quando torno a casa, in città, e chiudo la porta e piango, perché non avevo mai visto tanti morti, e portare in salvo una vecchia non ti assolve dall’aver visto morti bambini.
Non sapevamo che quella sera non solo erano morti in tanti, ma era finito un mondo. Ci mettemmo a fare i volontari, e addio ai volantini alle fabbriche. Imparammo ad ascoltare, piuttosto che a parlare. La Politica finì, per me, molto prima che la mia organizzazione di rivoluzionari si desse un singolare addio. Quando l’organizzazione di cui facevo parte – Lotta continua – si convocò per l’ultima volta a Rimini, per sciogliersi definitivamente, non andammo neppure a quel singolare e definitivo congresso, ci eravamo già sciolti per conto nostro, nelle tendopoli. Anche se restammo sorpresi quando ci dissero che era stata sciolta con uno slogan – che era il modo allora, di esprimere sentimenti e direttive, che ci suonava familiare: “Vivere con il terremoto”. Intendevano dire, nel linguaggio astruso e simbolico della politica, che bisogna abituarsi a vivere sballottati tra il femminismo e il terrorismo, privi della mano paterna sicura di un ennesimo, piccolo partito. Ma noi pensavamo già ad altro, a distribuire i quotidiani, i fornelli a gas da campeggio, gli stivali di gomma nelle tendopoli ogni mattino, a batterci perché tutto tornasse come prima, perché si ricostruisse il Friuli com’era e dov’era, perché si spiegasse alla gente, nelle tendopoli, quel che già si sapeva, senza linguaggi astrusi e simbolici: non sapevo, allora, che avrei fatto uno dei primi miei servizi, in Italia, in giorni in cui neppure la redazione esteri di un piccolo quotidiano poteva dimenticarsi dell’Italia, quando l’Irpinia tremò, e rividi, con altri accenti, le stesse scene, ascoltai le stesse urla, gli stessi lamenti, le stesse imprecazioni. Non sapevo che avrei visto, per la prima volta, il paese di una nonna che non avevo mai conosciuto, Pescopagano. E non sapevo che poi avrei sentito la terra tremare – e prima di altri, perché l’esperienza ti rende più sensibile, più attento a quel rumore sordo che cresce all’improvviso, come un’onda anomala – tante volte, diventando un reporter di guerra nell’America centrale delle guerriglie e dei vulcani e dei colpi di stato.
Una notte, a Città del Guatemala, dimenticai di aver lavorato a un manuale quieto e istruttivo, e mi domandai se il terremoto non fosse per me una persecutoria nuvola alla Fantozzi, che mi stanava dappertutto, come uno stato d’animo, altro che fenomeno naturale (in Abruzzo è successo davvero, a Lucia Petri, friulana di nascita ed abruzzese d’adozione. A sette anni, a Forgaria, restò per sei ore sotto le macerie della sua casa. Adulta, e sposata, venne a vivere nel capoluogo abruzzese, in una casa sotto la cui architrave si sono rifugiati lei, il marito, e i due figli, quarant’anni dopo). In questo, il terremoto è come la guerra: non è che conoscerla ti protegge, o ti consente l’aria di uno che ha visto tutto: ti fa male ogni volta, peggio che la prima volta. Con il tempo ho imparato che il terremoto ha molto altro in comune con la guerra, o forse è viceversa. Le macerie del cemento armato e le macerie delle anime, il crollo di un mondo, e l’affastellarsi in un caos di tanti destini personali.
Un terremoto, come una guerra, mette a nudo le cose e le anime. A raccontare un attentato, o un bombardamento, hai lo stesso sguardo di chi si ferma davanti a una casa che abbia perso una facciata, e gli occhi si posano su un’intimità violata, su una camera da letto che pare quei giochi da bambini: il letto, il cassettone, i comodini, l’immagine sacra alla parete, le foto di famiglia, e il disordine del crollo, della polvere, e prima ancora della fuga precipitosa da vite e sonni che erano privati e sono improvvisamente, e tragicamente, diventati pubblici. Guardi una casa sventrata, una parete crollata, e la stanza che è stata la stanza degli sposi, o la stanza dei nonni, e adesso è aperta come una stanza da teatro: l’armadio, il letto, i comodini, il cassettone. Vedi l’immagine sacra sopra il letto, e i ritratti o le fotografie appese alle pareti, e ti accorgi di scrutare l’intimità di una vita, come se il crollo avesse spogliato e portato alla luce, ricoperte di polvere, le esistenze di tutti, come se fosse stata un’invasione brutale dell’ordine esistente delle cose, come se tutto fosse in piazza, e come se il frullatore del tempo avesse deciso un giro di giostra folle e casuale, al termine del quale nessuno sarà più lo stesso, nessuno tornerà a dormire nel letto che ha dato forma ai nostri corpi, alle generazioni morte e nate in quei letti: finito, si ricomincia daccapo, a credere che il destino siamo noi, di nuovo in pace con le nostre vite. E invece è come in guerra. Se racconti di uno che era uscito a fare la spesa, o a comprare il pane, e sono rimasti per sempre nella scena devastata di un attentato, non racconti quasi la stessa cosa? E non succede, in guerra come nei terremoti, che gli uomini diano contemporaneamente il meglio e il peggio di sé, in una gara di sciacalli e di eroi silenziosi?
Così, con il tempo, ho raccontato come se fossero terremoti i viaggi all’inferno di Sarajevo, di Mogadiscio, di Baghdad e di Kabul. E ho maturato un paio di riluttanze: non uso mai come una metafora il termine “terremoto”, non parlo mai di terremoto politico, o di terremoto ai vertici di una compagnia, come per un timoroso rispetto della parola, per conservarle un senso, e per mantenere una distanza. E non vado a raccontare i terremoti, se posso evitarlo. Non sono andato in Umbria, e mi sono limitato a conservarne, come una foto ingiallita, un’immagine da telespettatore che assiste in diretta al crollo del soffitto della chiesa. Non lo faccio perché ho maturato una resistenza personale all’inevitabile retorica che segue i terremoti, gli appelli ai soccorsi, gli sforzi della ripresa e della ricostruzione, i tagli dei nastri e gli anniversari, che pure sono le forme accettabili in cui la vita, e lo spettacolo che la circonda, vanno avanti. Non lo faccio perché mi sembra di rivivere quello che per me personalmente, e per le terre in cui sono cresciuto, fu un parto doloroso, una nascita in cui muore la madre, e il bimbo cresce orfano.
Non sapevamo che sarebbe venuta l’estate calda e clamorosamente bella delle tende, né l’autunno della seconda scossa, e la tristezza dell’esodo. Non sapevamo che quella gente avrebbe compiuto un miracolo senza precedenti, e senza seguito: ricostruire i paesi dov’erano e com’erano. Non sapevamo che dalla minaccia di un ground zero sarebbe emerso il sogno di un’identità, davanti agli altari all’aperto e alle messe in friulano, e nelle assemblee e nei volantini in friulano. Non sapevamo che quegli amministratori e quei politici da Prima repubblica avrebbero scritto una delle pagine migliori della Repubblica tutta. Non sapevamo che la tragedia avrebbe generato un miracolo economico, e portato il benessere. Non sapevamo che, dopo, nulla sarebbe stato più come prima, che le glorie e le miserie di quel mondo contadino erano finite per sempre, sotto le macerie, nel momento stesso in cui venivano cantate, e scoperte come uno di quei sopravvissuti dopo tanti giorni, i capelli bianchi di polvere e di paura. Il Friuli non sarebbe stato mai più lo stesso, come se una guerra pur vinta togliesse per sempre il sapore alla pace successiva. Questo è diverso che in guerra: che la guerra, quella la attribuisci agli uomini, non è ineluttabile. Ma il terremoto è una guerra senza nemici, o con i nemici peggiori: la natura matrigna, la terra che ti tradisce, e i nemici che ti porti dentro. Ricordo ancora la scossa che mi fece più paura, e mi colse all’aperto, mentre passeggiavo nei campi con un prete, e non avevamo nulla da temere, neanche un albero che ci potesse cascare addosso. Ma sentimmo sotto i piedi, rattrappiti in mezzo al campo, il terremoto arrivare come quei giochi infantili che non si fanno più, quella corda che agiti a un capo e l’onda arriva fino all’altro capo. Solo che noi due avevamo i piedi sulla corda, e il mondo che tremava era il nostro, e il rumore sordo era una specie di tradimento, di fine di ogni certezza, più simili a vecchi insicuri sul gradino che a bambini al primo passo. Eppure ho sentito parlare di quei giorni con nostalgia, senza che si usasse quella parola. Erano giorni tremendi, e ognuno doveva dare il meglio di sé. Ho pianto, in quel primo mattino, e poi basta. Perché ancora adesso, quando nelle sere di Sarajevo qualcuno mi confessa di avere quasi nostalgia di quegli anni di guerra, vergognandosene, lo capisco, e temo solo di offendere il dolore altrui dicendo che ho nostalgia di quell’estate nelle tende. Stavo in una tendina canadese con la mia ragazza di allora, finito di baciarsi in automobile, era come un annuncio della vita adulta.
Ma non puoi vivere di coraggio e paura, di generosità e vita in comune. Arriva il momento che devi solo campare, mangiare normalità e oblio, e chiuderti alle spalle le porte di una casa ricostruita, e antisismica. E di un passato che, scostate le macerie e lasciati i morti ai monumenti e ai ricordi privati, mi appare, trentatré anni dopo, come un miracolo povero di bellezza dimenticata. Cambiò tutto: i soldati che scavavano tra le macerie, i politici locali e quelli nazionali – ricordo Aldo Moro, in visita – che, a ricordarli adesso, scuoti la testa quando senti liquidare la Prima repubblica, i sindaci che sembrano sindaci di liberi comuni, e una chiesa fatta di preti contadini che celebrava le messe all’aperto, in friulano. In un certo senso scoprivo un mondo nuovo, nel momento in cui quel mondo stava per scomparire. Scompariva un modo di semplice e rude povertà, di muri a secco, di paesi come presepi, il mondo di padre Turoldo e di Pier Paolo Pasolini, un mondo di pianure sassose e di colline racchiuso dalla cinta delle montagne e solcato da fiumi azzurri, povero, sdrucito e felice. Come succede al mondo contadino imitato negli agriturismi, con il basto dei buoi o i rastrelli appesi alla parete, la riscoperta, la celebrazione, segnalano che quel mondo è finito, che la sua bellezza e la sua dignità vengono citate come si ricordano i meriti in vita davanti al feretro di uno scomparso. Perché quel modello di ricostruzione che la classe politica ha dimenticato come lezione fu anche un vertiginoso salto in avanti, fu, come dicono gli economisti, un volano: trascinò dietro a sé tutta l’economia, non si limitò a ricostruire come in un puzzle i paesi dov’erano e com’erano prima, non si fermò a numerare una per una tutte le pietre del Duomo di Venzone e a ricomporle come un Lego, con pazienza da certosini, o caparbia alpina. Finiva per sempre un mondo povero ed emarginato. Lo stato, che avevamo visto come un colonizzatore, un padre padrone lontano, fu madre, e madre generosa di soldi. Li spesero bene, i friulani, rimboccandosi le maniche, ricostruirono i loro paesi come avevano costruito la Transiberiana e le ville di Buenos Aires, o i quartieri di Toronto. A ritornarci adesso, adesso che su quelle vie troppo pulite, quelle case troppo nitide, quelle chiese troppo accuratamente ricomposte si è posata di nuovo la patina del tempo, adesso che i bambini morti allora avrebbero l’età di mezzo, e i poveri vecchi sepolti sotto le macerie sarebbero stati solo un annuncio sul giornale locale, morti in modo qualunque, mi accorgo che era un sogno credere che tutto sarebbe ritornato a essere come prima. Era una sfida testarda a non perdere anche l’anima, anche le radici, ed era inevitabile che aiutasse le braccia e le teste, i portafogli e le leggi, ma era una sfida destinata a essere persa: cambiava tutto, e spesso in meglio, ma cambiava. Per tutti, e per ciascuno.
Per questo sono stato spesso zitto, o di poche parole, in Abruzzo. Perché volevo capire, e avevo paura di rivivere. Non ho mai abbandonato quelle immagini della notte del sei maggio, come fossero un rosario personale, una processione solitaria nel passato. Mi ritornano in mente a ogni nuvola di polvere, che sbuffi dalle Torri gemelle o da un incrocio di Baghdad, o girando attorno ad Onna. Mi sono accorto, come a un esame trentennale, di quanto siamo cambiati. Ci sono stranieri immigrati, tra i morti. Da noi, gli unici stranieri erano i canadesi e gli svizzeri, con i loro cani da macerie, e gli americani e gli altri ad aiutarci. C’è una forte Protezione civile, e i soccorsi non tardano. C’è un esercito che ha esperienza di catastrofi. Da noi morirono ventinove alpini, nel crollo di una caserma che era stata inaugurata appena otto anni prima. Gli alpini scavarono se stessi e scavarono in tutta Gemona. C’era l’esercito di leva: ricordo la storia di un gemello che tenne in vita l’altro soffiandogli aria con un tubo di gomma, e veniva da chiedersi come mai due gemelli tutti e due di leva, eravamo refrattari all’eroismo, anche se i militari di leva in licenza ritornarono spontaneamente, a dare una mano. Tra quelli che morirono in caserma ci fu il geniere Livio Sciulli, un abruzzese emigrato con la famiglia in Canada, e tornato solo per restare italiano. Leggo su Internet blogger che denunciano: migliaia di morti in Abruzzo, sono clandestini sepolti nelle cantine. Sono più impermeabili di Santoro ai drammi, hanno sempre una dietrologia da maneggiare, torri gemelle o L’Aquila non importa, e diffidano persino dei cani da macerie, annusano la controinformazione ma non conoscono l’odore della morte, per loro fortuna.
C’è più solitudine, oggi, anche in provincia. L’ho capito vedendo su molte bare il fiore pietosamente deposto da mani ufficiali – il minimo sindacale di pietà per qualche anziano solo, e da pensione minima – e piccoli cortei funebri con cortei di ragazzini che non conoscevano il morto, in un gesto bello, che ricompensa di tanta anonimità in vita.
C’è molto di più e molto di meno: è bello, per me, vedere un premier che ci mette la faccia, e promette (fossi l’opposizione, invece di sospettare del suo attivismo, sarei un suo promemoria implacabile), è meno bello vedere un Pontefice che celebra il Venerdì santo a Roma, invece di venire a lavare i piedi di un prete di campagna terremotato. E’ bello vedere tanta solidarietà, e tanto volontariato, e poca militanza. E’ piccola cosa vedere la politica misurarsi sul “caso Santoro”. Bisogna pensare positivo, avere il senso delle sfide, pensare in grande e ascoltare la gente qualunque, quella che chiama i figli Maichol, non i conduttori di talk show e i grandi architetti. A questi ultimi bisogna guardare con la simpatia distante che ispirano le coazioni a ripetere, quel continuismo che è anche un modo per sopravvivere, per continuare a essere. E’ meglio invece guardare alla forza sobria, al dolore pudico degli abruzzesi, alla loro voglia di rifare. Capisci che non è gente che si illude. Dovranno costruire i prefabbricati prima dell’inverno, e dovrebbero muoversi già adesso. E decidere come ricostruire, e dove, in una sfida molto più affascinante dei conti che la giustizia deve pur fare del passato.
Che Dio risparmi all’Abruzzo una replica, e lo lasci subito pensare al suo futuro. Ma a noi toccò, la replica di settembre, e fece giustizia di ogni illusione. Avevamo detto: dalle tende alle case, per paura che i prefabbricati restassero per sempre. Fu un colpo duro, con le tendopoli svuotate, e i prefabbricati come una resa alla realtà, non si poteva più andare dalle tende alle case. La gente sfollò in riva a un mare d’inverno, e avevano i volti di tanti esodi che ho visto poi. Esodo: non fu l’unica parola biblica pronunciata in quei giorni, i giorni in cui il Dio venne pregato e bestemmiato, ed entrambe le cose con quella fede semplice e forte come le mani di questa gente che non ama tenderle a chiedere, che sa solo farle lavorare o stringerle in un pugno quasi nascosto, in un silenzio pudico che deve nascondere il pianto. Quando le giungevano l’una all’altra, nelle chiese sopravvissute o davanti agli altari all’aperto, quelle mani giunte in un gesto quasi infantile, da dottrina del mese di maggio, davano da sole l’idea di una fede semplice e forte, spoglia come una chiesetta di campagna. Ma quel settembre, anche la fede fu messa a dura prova. Era finita un’estate di caldo ed emozioni, di rabbia e di speranza, di incubi e sogni. Erano accorsi volontari da tutta l’Italia, e nelle tendopoli era stata scoperta una specie di democrazia diretta, e il taramot, come lo chiamava la gente in quella lingua che sarebbe diventata una specie di tetto per gente senza tetto, un’affabulazione cruda e dolce per raccontarsi le tragedie e le speranze, un linguaggio da banda di ragazzi che non vuole crescere e vuole riconoscersi ed essere riconosciuta per la propria identità, quel taramot era stato una tragedia corale, e sopravvivere era stata una promessa e una scommessa.
E adesso, alla seconda scossa, restava appiccicata, come una pioggia autunnale precoce e insistente, una sola certezza, segnata di paura: niente e nessuno sarebbero stati quelli di prima, nessuno è più lo stesso, in Friuli e in tutto il resto del tuo mondo, anche oltre le pianure di sassi, i fiumi azzurri e il cerchio rassicurante delle montagne. I muri sarebbero tornati a levarsi lungo gli stessi perimetri, ma avrebbero avuto per sempre il sapore delle fotografie di tutti quelli che non videro l’alba del sette di maggio, fotografie su centinaia e centinaia e centinaia di lapidi che recano tutte la stessa data, e potrebbero recare la stessa ora. Fotografie sbiadite, che hanno l’innocenza di chi non conosce il futuro. Così i paesi, i muri, le case, che hanno l’innocenza di chi non conosce il passato. Fu una tragedia, e la ricostruzione una grande prova civile: il commissario straordinario ebbe poteri da dittatore, e i comitati delle tendopoli furono dei soviet senza ideologia, e il governatore d’Abruzzo non farebbe male a farsi raccontare un po’ di cose da gente come Biasutti o Zamberletti. Furono salvati prima i posti di lavoro, perché nessuno andasse via. Poi le case, infine le chiese. Sarà una prova dura anche per l’Abruzzo. Credo ce la faranno, terranno duro anche nell’estate dell’Italia in vacanza, e sopravviveranno a noi giornalisti con i servizi del Natale in baracca, e al primo, al secondo, e forse anche al terzo anniversario. Ma bisognerà aspettare cento anni, il tempo che non ci sia più nessun sopravvissuto, perché le cicatrici che accarezzano gli anniversari, i discorsi ufficiali, e i terremoti degli altri, cessino di far male, e il mondo sia quello di sempre. Intanto, viviamo con il terremoto, delle nostre case, e delle nostre vite.
di Toni Capuozzo