Ottomila euro lordi al mese per quindici mensilità. È la pensione spettante a quel commesso del Senato che giusto una decina di giorni fa ha deciso di lasciare il lavoro. All’età di 52 anni. Il più recente protagonista di un inarrestabile e costosissimo esodo. Leggendo il bilancio di previsione 2009 approvato il 21 aprile dal consiglio di presidenza di palazzo Madama si scopre che negli ultimi due anni i costi per pagare le pensioni sono letteralmente esplosi.
Fra il 2007 e il 2009 sono passati da 77,8 a quasi 90 milioni, con un aumento del 14,3%. Ma se si escludono le pensioni di reversibilità, quelle cioè pagate ai superstiti, la progressione è stata ancora più violenta: +15,6%. Dieci milioni e 800 mila euro in più. Quest’anno, sempre se le previsioni saranno rispettate (ma di solito le stime sono in difetto) la spesa per le sole pensioni «dirette» sfiorerà 80 milioni. Esattamente 79 milioni e 950 mila euro. Cifra che divisa per 598 dipendenti pensionati fa, tenetevi forte, 133.695 euro ciascuno. Vale a dire, quindici volte e mezzo l’importo di una pensione media dell’Inps. Inoltre, dettaglio non trascurabile, le pensioni del Senato seguono la dinamica degli stipendi di palazzo Madama. È stata la crescita abnorme di questa voce che ha impedito al Senato di rinunciare, come invece hanno fatto Camera e Quirinale, all’adeguamento all’inflazione programmata per il prossimo triennio? Chissà. Certamente è vero che l’aumento della spesa per le pensioni dei dipendenti si è mangiato quasi tutte le sforbiciatine fatte al bilancio di palazzo Madama.
Tanto per fare un esempio, la maggiore spesa previdenziale equivale a più del doppio del risparmio sui contributi ai gruppi parlamentari dovuto alla riduzione del numero dei partiti presenti in Senato. Ma non è che a Montecitorio la pressione di chi vuole andare in pensione sia meno forte. Fra il 2007 e il 2009 l’aumento della spesa della Camera per questo capitolo è stato infatti del 14,2%. Quest’anno le pensioni dirette e di reversibilità graveranno sul bilancio di Montecitorio per 191 milioni, circa 24 milioni in più rispetto al 2007. Quale può essere la molla che ha fatto scattare questa fuga ormai evidente? Forse il timore di un nuovo giro di vite particolarmente doloroso, che metterebbe in crisi i privilegi sopravvissuti a tutti i tentativi di riforma? Non è affatto da escludere.
Al Senato, per esempio, chi è stato assunto prima del 1998 può ancora oggi, nel 2009, andare in pensione a 50 anni di età, sia pure con una penalizzazione del 4,5%, a condizione che abbia raggiunto quota 109: la somma dell’età anagrafica, degli anni di contributi e dell’anzianità di servizio al Senato. Con 53 anni di età e la stessa quota 109 la pensione (80% dell’ultimo stipendio) è assicurata senza alcuna penalizzazione. Da tenere presente che i dipendenti entrati in Senato prima del 1998 sono la maggioranza, 609 su 1.004. E che la loro pensione si calcola con il vantaggiosissimo sistema retributivo puro, cioè in percentuale dello stipendio, anziché con il sistema contributivo (in rapporto ai contributi effettivamente versati) stabilito dalla riforma Dini del 1995 per tutti i lavoratori comuni mortali. Con lo stesso sistema retributivo sarà calcolata anche la pensione degli assunti a palazzo Madama dopo il 1998, in tutto 395. Per loro tuttavia il consiglio di presidenza ha deciso lo scorso agosto che scatta il limite minimo d’età di 57 anni. Aspetteranno un po’ di più per avere una pensione da leccarsi i baffi come già hanno avuto i loro colleghi più fortunati. Ma il famigerato sistema contributivo prima o poi arriverà anche in Senato. Sarà applicato a tutti gli assunti dal 2007. Quanti sono? Per ora, zero.
Sergio Rizzo sul Corriere della Sera 6 maggio 2009