mercoledì 6 maggio 2009

8 mila euro al mese ai commessi del Senato


Ottomila euro lordi al mese per quindici mensilità. È la pensione spet­tante a quel commesso del Se­nato che giusto una decina di giorni fa ha deciso di lasciare il lavoro. All’età di 52 anni. Il più recente protagonista di un inarrestabile e costosissi­mo esodo. Leggendo il bilancio di pre­visione 2009 approvato il 21 aprile dal consiglio di presi­denza di palazzo Madama si scopre che negli ultimi due anni i costi per pagare le pen­sioni sono letteralmente esplosi.

Fra il 2007 e il 2009 sono passati da 77,8 a quasi 90 milioni, con un aumento del 14,3%. Ma se si escludono le pensioni di reversibilità, quelle cioè pagate ai supersti­ti, la progressione è stata an­cora più violenta: +15,6%. Die­ci milioni e 800 mila euro in più. Quest’anno, sempre se le previsioni saranno rispettate (ma di solito le stime sono in difetto) la spesa per le sole pensioni «dirette» sfiorerà 80 milioni. Esattamente 79 mi­lioni e 950 mila euro. Cifra che divisa per 598 dipendenti pensionati fa, tenetevi forte, 133.695 euro ciascuno. Vale a dire, quindici volte e mezzo l’importo di una pensione me­dia dell’Inps. Inoltre, detta­glio non trascurabile, le pen­sioni del Senato seguono la dinamica degli stipendi di pa­lazzo Madama. È stata la crescita abnorme di questa voce che ha impedi­to al Senato di rinunciare, co­me invece hanno fatto Came­ra e Quirinale, all’adeguamen­to all’inflazione programma­ta per il prossimo triennio? Chissà. Certamente è vero che l’aumento della spesa per le pensioni dei dipendenti si è mangiato quasi tutte le sfor­biciatine fatte al bilancio di palazzo Madama.

Tanto per fare un esempio, la maggiore spesa previdenziale equivale a più del doppio del rispar­mio sui contributi ai gruppi parlamentari dovuto alla ridu­zione del numero dei partiti presenti in Senato. Ma non è che a Montecito­rio la pressione di chi vuole andare in pensione sia meno forte. Fra il 2007 e il 2009 l’au­mento della spesa della Came­ra per questo capitolo è stato infatti del 14,2%. Quest’anno le pensioni dirette e di rever­sibilità graveranno sul bilan­cio di Montecitorio per 191 milioni, circa 24 milioni in più rispetto al 2007. Quale può essere la molla che ha fatto scattare questa fuga ormai evidente? Forse il timore di un nuovo giro di vi­te particolarmente doloroso, che metterebbe in crisi i privi­legi sopravvissuti a tutti i ten­tativi di riforma? Non è affat­to da escludere.

Al Senato, per esempio, chi è stato as­sunto prima del 1998 può an­cora oggi, nel 2009, andare in pensione a 50 anni di età, sia pure con una penalizzazione del 4,5%, a condizione che ab­bia raggiunto quota 109: la somma dell’età anagrafica, degli anni di contributi e del­l’anzianità di servizio al Sena­to. Con 53 anni di età e la stes­sa quota 109 la pensione (80% dell’ultimo stipendio) è assicurata senza alcuna pena­lizzazione. Da tenere presen­te che i dipendenti entrati in Senato prima del 1998 sono la maggioranza, 609 su 1.004. E che la loro pensione si calco­la con il vantaggiosissimo si­stema retributivo puro, cioè in percentuale dello stipen­dio, anziché con il sistema contributivo (in rapporto ai contributi effettivamente ver­sati) stabilito dalla riforma Di­ni del 1995 per tutti i lavorato­ri comuni mortali. Con lo stesso sistema retri­butivo sarà calcolata anche la pensione degli assunti a pa­lazzo Madama dopo il 1998, in tutto 395. Per loro tuttavia il consiglio di presidenza ha deciso lo scorso agosto che scatta il limite minimo d’età di 57 anni. Aspetteranno un po’ di più per avere una pen­sione da leccarsi i baffi come già hanno avuto i loro colle­ghi più fortunati. Ma il fami­gerato sistema contributivo prima o poi arriverà anche in Senato. Sarà applicato a tutti gli assunti dal 2007. Quanti sono? Per ora, zero.

Sergio Rizzo sul Corriere della Sera 6 maggio 2009