venerdì 22 maggio 2009

CHE COS'E' IL VOTO


Il termine deriva dal latino votum inteso come attività pubblica svolta per intercedere a favore di una causa o di una persona. Nel XV° secolo il vocabolo ha iniziato ad essere collegato alla nozione di deliberazione utilizzata per designare l’espressione di un punto di vista rispetto a un tema oggetto di dibattito. E’ verso la fine del ‘600 che il termine voto viene collegato al concetto di elezione intesa come una scelta fatta a favore di una cosa o di una persona, optando per l’una rispetto a un'altra. Nel IXX° secolo il voto inizia ad avere una connotazione materiale e ad essere inteso come suffragio. Il più delle volte per votare si intende la consegna di una scheda, da parte di un elettore, nelle mani di un presidente di seggio come accade in Francia, in Germania e in Spagna, sia il suo deposito direttamente in un’urna come avviene in Inghilterra, in Italia e nel Lussemburgo. Ma ci sono anche altre modalità di voto. In Grecia, per esempio, l’urna di ogni candidato è divisa in due parti: una nera per il no e una bianca per il nelle quali gli elettori inseriscono l’avambraccio per depositare una sfera di piombo. In Danimarca per l’elezione della Camera dei Deputati si vota scrivendo il nome del candidato su un registro controllato da un pubblico ufficiale. In Portogallo le operazioni di voto si svolgono nelle chiese e gli elettori inseriscono le schede nell’urna dopo essersi inginocchiati e aver detto una preghiera. Il denominatore comune di tutte le elezioni di massa, ovunque essere si svolgano, è la volontà di razionalizzazione le modalità di designazione degli eletti e che sono comprese sotto la definizione di sistemi elettorali.

La possibilità di votare, e quindi di partecipare direttamente a un processo politico, ha trasformato i cittadini in soggetti attivi, protagonisti di una vera e propria liturgia politica che, se l’osserviamo da un punto di vista strettamente materiale, è composta, praticamente ovunque, da un’urna, una scheda e una cabina. Eppure qualcosa sta cambiando. Lo dimostra, ad esempio, l’elezione di due senatori dell’Oregon, negli Stati Uniti, che, nel 1996 per la prima volta si è svolta completamente per corrispondenza e più recentemente via internet. Gli elettori hanno così scelto i loro rappresentanti federali in pratica senza spostarsi. Questa nuova modalità di voto ha comportato un aumento nel numero dei votanti di oltre 20 punti percentuali rispetto alle analoghe elezioni di due anni prima.

L’adozione della scheda elettorale risale alla seconda metà del 19° secolo ed è stata accompagnata dalla scelta di una location che si ritrova praticamente ovunque: tavoli sistemati a ferro di cavallo, in un angolo una tenda o una cabina, un’urna sorvegliata dai cosiddetti scrutinatori.

La scheda elettorale, così come oggi la conosciamo, deriva dall’ Australian Ballot, la scheda adottata per garantire la segretezza del voto nel 1857 nel Sud dell’Australia e ripresa poi in tutto il mondo: nel 1872 in Gran Bretagna, nel 1877 in Belgio, nel 1884 in Norvegia, nel 1890 negli Stati Uniti, nel 1903 in Germania e nel 1913 in Francia.

Se guardiamo al funzionamento delle assemblee comunali e degli ordini religiosi del passato scopriamo almeno tre modalità diverse per esprimere il proprio voto: 1. il voto unanime che si ha per acclamazione nei comuni dei paesi mediterranei (con la tradizionale formula fiat o placet pronunciata a gran voce nelle piazze) o per una specie di ispirazione (spiriti sancti) nelle abbazie e nei monasteri così come si può dedurre da un atto promulgato nel 1059 dal Papa Nicola II che imponeva che le elezioni avvenissero all’unanimità (concordi electione) in modo che l’eletto non fosse considerato solamente un apostolico ma un vero e proprio apostolo. In questo caso le elezioni erano comparabili a una vera e propria consacrazione che obbligava le minoranze a non intervenire a rischio dell’esilio. Una modalità meno brutale era quella del voto raggiunto attraverso un compromesso. Qui gli elettori potevano eventualmente rinunciare al loro diritto di voto che veniva trasferito a un “compromissore” incaricato di individuare e trattare un punto d’accordo. 2. L’approvazione con giudizi contrastanti. Quando non si riusciva a raggiungere l’unanimità si ricorreva a molte tecniche per solennizzare l’accordo raggiunto. E’ il caso dei comuni in cui si stabilivano delle maggioranze relative ad esempio dei 2/3 oppure di 4/5 o di 11/16 e via dicendo. Allo stesso modo si praticava la regola del sanor pars in base alla quale i voti avevano maggior peso in base ai meriti degli elettori consentendo all’ autorità di trionfare sempre sulla maggioranza (major pars). Se questo metodo può essere discutibile lo stesso vale per le modalità di voto all’interno del Senato romano dove vigeva il cosiddetto voto per discessionem che non prevedeva né il voto nominale e né il computo dei voti. Si esprimeva infatti attraverso un gesto che, negli ordini religiosi consisteva nell’abbassare il cappuccio dell’abito talare e, nei comuni, nell’alzarsi o nel sedersi. 3. Il consenso con riconoscimento del disaccordo. Qui ci sono due elementi che si incrociano: la regola maggioritaria (l’antica pluralità dei voti) e il voto segreto. Nella storia della chiesa è con il Concilio di Trento che questi due elementi vengono uniti imponendo agli elettori di firmare le loro schede adducendo il motivo che era necessario controllare che questi non votassero per se stessi, pratica questa vietata dal diritto canonico. Prima di allora il voto avveniva non attraverso una scheda ma attraverso la scelta di un segno, delle palline, delle monete, delle medaglie. Una forma ulteriore di voto era quello orale: un religioso raccoglieva le intenzioni di ognuno attraverso un discreto mormorio che passava dalle bocche alle orecchie (da qui il modo di dire avere voce in capitolo).