giovedì 7 maggio 2009

Il cinema come propaganda. Il caso di Jackie Kennedy.


Durante la Guerra Fredda gli Stati Uniti ricorsero ampiamente al cinema come strumento di propaganda dei loro valori e della loro politica soprattutto per contrastare il comunismo. La struttura del governo americano incaricata di svolgere questa azione nei confronti dei diversi paesi del mondo era l’United States Information Agency (USIA) conosciuta nei paesi in cui operava come l’United States Information Service (USIS) che, sin dalla sua fondazione, nel 1953, fece un ampio uso del cinema, e più recentemente della televisione, per divulgare oltreoceano l’immagine dell’America e le sue priorità politiche. Dopo aver prodotto per un luogo periodo filmati in forma di documentari, alcuni dei quali ebbero un discreto successo, l’Usia approdò al cinema vero e proprio ingaggiando un vero e proprio staff cinematografico. L’occasione fu fornita da un viaggio che nel 1961 Jacqueline Kennedy fece in Europa e che fu riportato dalla stampa internazionale come un evento memorabile reso tale dal glamour dell’inedita viaggiatrice. Alla fine dello stesso anno la First Lady accolse l’invito a visitare l’India e il Pakistan nella primavera successiva e l’Usia si attrezzò subito per utilizzare l’evento come un mezzo per propagandare la grandezza e l’amicizia dell’America con tutti i paesi del mondo. Direttore dell’agenzia era allora l’ex giornalista della rete televisiva CBS Ed Murrow che si recò immediatamente ad Hollywood dove, a suo parere, si producevano film mistificatori nei quali l’America veniva rappresentata come un paese di milionari e di truffatori. Murrow aveva ben chiara la necessità di migliorare la qualità dei film prodotti dalla sua agenzia e soprattutto di rafforzare i legami con il mondo del cinema. Per realizzare il film che aveva in mente sul viaggio di Jaqueline Kennedy ingaggiò come produttore George Stevens Jr, figlio del leggendario regista, tra l’altro, di Il Cavaliere della Valle Solitaria del 1953 (Shane) il Gigante con James Dean del 1956, Il diario di Anna Frank del 1954 e La più Grande storia mai raccontata del 1965. Il giovane Stevens conquistò letteralmente Murrow nel momento in cui si propose chiedendo che cosa avrebbe potuto fare per il suo Paese e dimostrando così di essere un perfetto rappresentante dello spirito della New Frontier. Suggerì poi di alzare drasticamente la qualità dei film dell’Usia utilizzando particolari pellicole a colori, ricorrendo a voci narranti di persone celebri e istituendo una commissione incaricata di vagliare musiche originali indiane e pakistane. L’Usia di routine produceva dei filmati, di circa 10 minuti, in occasione di tutti i viaggi all’estero del presidente e del suo vice così come dei capi di stato esteri in visita negli Stati Uniti ma, in questo caso, la protagonista era una persona davvero speciale con particolari e innate doti recitative. L’obiettivo di Stevens era quello di focalizzare l’attenzione sulla condizione della donna in Pakistan dal punto di vista di una giovane donna americana che si recava in un paese amico per studiarne la cultura. La condizione che pose l’Usia fu quella di girare due film distinti, uno dedicato alla visita in Pakistan e uno a quella in India per non urtare le suscettibilità di due paesi storicamente nemici. Stevens, che ormai viveva stabilmente a Washington e che non poteva quindi recarsi materialmente in Oriente, dovette selezionare un regista. Fra coloro che si presentarono c’era anche Leo Seltzer vincitore di un premio Oscar come regista di documentari e noto per la sua particolare sensibilità nei confronti dei problemi del terzo mondo. Seltzer fu scelto come regista e sceneggiatore dei due film che avrebbero avuto come protagonista la giovane First Lady e su questa scelta incise certamente il fatto che si definiva un attivista sociale che utilizzava il cinema per trasmettere il suo messaggio. Nato in Canada, Seltzer si era trasferito molto giovane a New York dove lavorò da subito nel settore del cinema e della fotografia. Per il Federal Art Project realizzò documentari sui temi più diversi e, dopo la Seconda guerra mondiale, fu anche il vice del regista John Huston nel filmato sui disordini mentali dei veterani Let There Be Light. La sua attenzione nei confronti dei settori più deboli della società lo rese facile bersaglio del maccartismo che credette di vedere, nelle immagini che girava, degli ammiccamenti subliminali verso il comunismo.

Seltzer e il suo staff giunsero in India quattro settimane prima di Jackie Kennedy e percorsero quello che sarebbe stato il suo itinerario soggiornando persino nei suoi stessi alberghi. Il regista fece innumerevoli riprese nelle condizioni di luce ottimali cercando di vedere attraverso gli occhi di quella che sarebbe stata la protagonista del suo film e soprattutto con l’obiettivo di trasferire, attraverso le immagini, l’amicizia e la comprensione fra due paesi. Non fu facile lavorare facendo i conti con la strettissima sorveglianza alla quale era sottoposta la First Lady che dovette ritardare il suo arrivo in Sud asia a causa di problemi di salute che la costrinsero anche a cambiare, in parte, il suo itinerario. Dal 13 al 20 marzo la signora Kennedy e sua sorella Lee Radziwill visitarono l’India e dal 21 al 26 il Pakistan. Il viaggio fu un vero e proprio trionfo e l’allora ambasciatore americano a Nuova Delhi John Kenneth Galbraith segnalò l’ossessionante interesse con il quale i giornalisti al seguito annotavano i cambi d’abito delle due sorelle. L’Usia, che monitorava l’indice di gradimento del viaggio, verificò che l’interesse della stampa internazionale nei confronti della First Lady era tale da superare persino quello registrato in occasione della visita, non molto tempo prima, della Regina d’Inghilterra e il Los Angeles Times scrisse che si trattava di “una fantastica propaganda a costi minimi”. A questo punto compito dell’Usia era quello di riprodurre questo trionfo su celluloide. Ed è proprio a questo punto che cominciò a girare la voce che i due filmati sarebbero costati all’Usia complessivamente 73 mila dollari. Una cifra ritenuta astronomica che produsse anche delle interrogazioni al Senato da parte dei rappresentanti repubblicani e che la stampa americana liquidò come un effetto della megalomania dell’ex star televisiva, Ed Murrow, approdato a capo dell’Usia. Il capo ufficio stampa della Casa Bianca Pierre Salinger dimostrò comunque che il viaggio delle due affascinanti sorelle non era costato più di quello che aveva fatto pochi anni prima, negli stessi territori, il presidente Eisenhower. Che i due film si sarebbero rivelati due straordinari strumenti di promozione della potenza americana e della sua disponibilità ad essere amica dei due paesi del sud asia, fu chiaro da subito. Il regista Stevens strutturò i due film in modo da enfatizzare l’ospitalità dei paesi piuttosto che la visitatrice. Nel film dedicato all’India (Invitation to India) questa veniva descritta come “un paese antico e contemporaneamente moderno”, “un modello complesso di civilizzazione e di bellezza”, “la più grande democrazia del mondo”. Quello che invece aveva per protagonista il Pakistan iniziava con il suono dell’invito a pregare mentre il testo diceva come “gli antichi oggetti della fede del popolo dell’Islam hanno iniziato oggi ad acquisire nuovi significati nella vita della giovane nazione del Pakistan”. Jacqueline Kennedy in entrambi i film, così come aveva stabilito il regista, risultava molto più interessata ai paesi che la ospitavano e alle rispettive culture piuttosto che al viaggio in sé. In entrambi si incontra con degli artisti dimostrando uno “speciale interesse nell’arte e nei costumi antichi e moderni” e visita degli ospedali infantili dichiarando che “come madre di due bambini” capisce “il valore di un sorriso, il tocco di luce che emana un bambino malato”. Il finale del film dedicato all’India è riservato alla visita alla tomba di Mahatma Gandhi mentre il commento lascia intendere uno stretto legame e una condivisione di valori fra Jackie, e per estensione fra l’amministrazione di John Kennedy, e la vita e l’opera dello stesso Ghandi. Invitation to Pakistan si conclude invece con Jakie che si intrattiene con delle persone del luogo affascinata dalla loro “proverbiale ospitalità” e con le quali si augura di poter tornare al più presto con suo marito. Tutto il lavoro di montaggio dei due film viene fatto a Washington con la supervisione degli esperti dell’Usia che chiedono di togliere dal film, per non rischiare di offendere gli spettatori indiani, una scena in cui appare un incantatore di serpenti così come di eliminare dalla colonna sonora un brano di canti popolari che Seltzer aveva registrato in presa diretta ma nel quale gli attentissimi responsabili dell’Usia avevano individuato dei termini dal significato osceno. I due film furono distribuiti in 78 paesi e in 29 lingue diverse. Nella sola Beirut nell’arco di una settimana il film fu visto da 20 mila spettatori in due sale cinematografiche. A Ceylon l’Usia verificò che la gran parte degli spettatori ritornava più volte a vedere il film. I commenti della stampa di tutto il mondo furono entusiastici anche se ben pochi si sottrassero dall’osservare che era evidente lo scopo propagandistico dei film di cui fu infine realizzata, per il pubblico americano, un’unica versione di trenta minuti dal titolo “Jacqueline Kennedy’Asian Journey”. La First Lady lavorando in equipe con l’Usia e Seltzer imparò perfettamente come sfruttare la propria immagine a favore del modello americano proposto al mondo da suo marito ai cui funerali, venti mesi dopo, molti sostennero che mise in pratica proprio quanto imparato durante la lavorazione del film: il suo voler camminare a fianco della bara, lo sguardo fiero mentre il suo bambino fa il saluto militare, la sua insistenza nel volere un picchetto d’onore multirazziale per enfatizzare la dichiarazione sui diritti civili fatta da suo marito sono scene puntualmente catturate dalle telecamere dall’Usia ancora una volta per utilizzarle a scopo propagandistico.