«Una cosa del genere non si riesce a ricordarla: una forza politica di una nazione che lavora per impedire che un connazionale di un altro partito possa ricoprire un’alta carica istituzionale europea. Pensare che in Polonia sia la destra dei fratelli Kaczynski che i socialisti appoggiano la candidatura di centrodestra di Jerzy Buzek alla presidenza del Parlamento europeo». Più che abbattuto Mario Mauro pare addolorato per l’ultima trovata di Dario Franceschini e soci: andare a Bruxelles a chiedere ai leader dei gruppi di sinistra europei di opporsi alla sua eventuale nomina a presidente dell’Europarlamento. Una politica da antitaliani.
L’accordo pre-elettorale fra popolari e socialisti europei, infatti, sembra tenere: anche in questa legislatura, come già nella precedente, i due gruppi politici principali paiono intenzionati a cogestire la presidenza del Parlamento, due anni e mezzo gli uni e due anni e mezzo gli altri. Al mitico Martin Schulz (quello del battibecco con Silvio Berlusconi) toccherebbero gli ultimi trenta mesi della legislatura, in cambio i socialisti voterebbero il nome che i popolari proporranno per i primi trenta. In corsa per la candidatura popolare sono, da mesi, il polacco Buzek e l’italiano Mauro. L’uomo di Varsavia parte in pole position, grazie al sostegno dei popolari tedeschi che restano la prima delegazione nazionale all’interno del Ppe, non essendo riuscita l’operazione sorpasso da parte italiana (tra Pdl e Udc il nostro paese porta in dote al gruppo 34 eurodeputati, ma resta dietro alla Germania, che potrà vantare i 42 eletti della Cdu-Csu), ma le chances del candidato italiano sono ancora notevoli in quanto gli eletti di Berlusconi dispongono ora della massa critica sufficiente a condizionare l’esito di tutte le altre nomine in sede europarlamentare, e non solo lì.
Sta di fatto che il Pd italiano ha deciso di rovinare il gioco di mezza Europa pur di proseguire la sua guerriglia contro il Cavaliere, e non solo per quello. A Franceschini non basta aver ottenuto la trasformazione dello storico gruppo socialista al Parlamento europeo in “Alleanza dei socialisti e democratici”, condizione da lui posta per far confluire nei socialisti europei la sua pattuglia di europarlamentari: preso da un soprassalto di ambizioni da eurostratega, il successore di Walter Veltroni vorrebbe dettare la linea a tutta la sinistra continentale, inducendola ad opporsi unitariamente alla riconferma di José Manuel Durão Barroso alla testa della Commissione europea. Passando sopra al fatto che, oltre a tutti i governi di centrodestra (usciti vincitori dalle elezioni del 7 giugno), sono favorevoli al Barroso bis pure i quattro esecutivi di centrosinistra più importanti: Regno Unito, Spagna, Portogallo e Bulgaria. Ma quelli del Pd non sono uomini che si spaventano per così poco. Sotto quella tunica da vestali dell’intangibilità della Costituzione del ’48 e dell’unità nazionale batte un cuore imbevuto dello spirito di fazione dei signori rinascimentali italiani, che consegnavano il Belpaese alle potenze straniere pur di mettere sotto il signorotto italiano che dava loro fastidio, e che credevano di poter condizionare i grandi giochi politici europei, loro che facevano fatica a controllare i propri modesti territori.
A Mario Mauro, comunque, converrà convocare una conferenza stampa per comunicare la sua improvvisa conversione all’islam (nella versione predicata al Cairo da Barack Obama, naturalmente) o, in subordine, cominciare a presentarsi in tv come i radicali, con una stella gialla appuntata sulla giacca. Perché? Per capirlo basta leggere cosa scrive Europa, quotidiano del Partito democratico, con la scusa di voler citare la stampa polacca: «Buzek non dispiace affatto a qualche esponente socialista, che ne apprezza i risultati ottenuti da primo ministro e l’indole laica. La sua fede luterana scongiura la possibilità che possa subire le influenze della potente curia polacca. La militanza in Comunione e Liberazione di Mauro, invece, fa apparire “troppo pio” il candidato italiano, scrive Gazeta Wyborcza». Scherzi (ma non troppo) a parte, Mauro ha ancora frecce al suo arco, soprattutto perché difficilmente Berlusconi accetterà di restare a bocca asciutta dopo avere fatto tanto per il successo dei popolari europei (è grazie a lui che gli eurodeputati di Alleanza nazionale sono andati a ingrossare le fila del Ppe). Il presidente del Consiglio italiano ha già fatto capire che in ogni caso rivendica una posizione apicale per la componente italiana nei nuovi organigrammi. E i giochi sono aperti, anche perché, se com’è pronosticabile in novembre il Trattato di Lisbona entrerà in vigore, altre caselle dovranno essere occupate, e questo allarga il campo delle trattative. Gli accordi ufficiosi fra socialisti e popolari prima delle elezioni ammiccano a una spartizione che vedrebbe Barroso alla presidenza della Commissione, Tony Blair nella nuova carica di presidente del Consiglio europeo e lo svedese (conservatore) Carl Bildt suo vice e alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune. Se a Berlusconi verrà detto “no” per Mario Mauro alla presidenza dell’Europarlamento, inevitabilmente il fondatore del Pdl rivendicherà per l’Italia una delle nuove cariche, oppure il posto di capogruppo dei popolari. Questo attualmente è ricoperto dal francese Joseph Daul, eletto a fatica all’inizio del 2007. Non sarebbe campata per aria l’idea di stringere un accordo con i francesi: il posto di capogruppo dei popolari in cambio dell’appoggio italiano a una carica apicale per Nicolas Sarkozy o un suo uomo/donna di fiducia. Il presidente francese è il leader nazionale uscito meglio dalle elezioni, e non si vede perché il centrodestra europeo, vincitore della tornata elettorale, dovrebbe accontentarsi di nominare alle cariche più importanti uomini provenienti da paesi di seconda fila come Portogallo, Polonia o Svezia. È vero che i francesi hanno già il presidente della Banca centrale europea, quel Jean-Claude Trichet classificato come il quinto uomo più potente del mondo da Newsweek. Ma il suo mandato scadrà fra due anni e mezzo e non è più rinnovabile. Invece la carica di presidente del Consiglio europeo, se rinnovata, permette di durare cinque anni. Se i democratici italiani riusciranno a spostare i socialisti e le altre sinistre su posizioni anti-Barroso, tutti i preaccordi saranno rimessi in discussione, e il nostro scenario di entente italo-francese diventerebbe realistico. E così ancora una volta la sinistra italiana, accecata dall’odio per Berlusconi, finirebbe per giovare alla sua causa.
Il Trattato che cambia le regole
Dunque molto dipende dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che non avverrà prima dello svolgimento del referendum irlandese, previsto per il prossimo ottobre. Nel frattempo saranno già stati nominati i presidenti della Commissione e del Parlamento europeo. Per quest’ultimo la data dell’elezione è fissata al prossimo 14 luglio. Entro l’8 dello stesso mese il Ppe dovrà sciogliere il nodo della sua candidatura. Ovviamente non è solo la spartizione delle poltrone che dipende dal Trattato di Lisbona, versione edulcorata di quella Costituzione europea che francesi e olandesi hanno affondato coi loro referendum. I poteri dell’Europarlamento, che non sono affatto pochi, lieviteranno ancora. S’è detto e ridetto che il 70-80 per cento delle leggi approvate in Italia altro non sono che il recepimento di direttive e regolamenti votati a Bruxelles. Va aggiunto che l’Europarlamento ha ottenuto emendamenti e modifiche al 71 per cento delle normative predisposte dalla Commissione e sottoposte al suo voto (la famosa direttiva Bolkestein sui servizi, per esempio, è stata profondamente modificata dal Parlamento europeo, e quella sul tempo di lavoro è stata affondata). Finora però gli europarlamentari si sono esercitati quasi esclusivamente su materie economiche e commerciali: le altre sono al massimo oggetto di mozioni e risoluzioni tanto roboanti quanto prive di efficacia. Le cose dovrebbero cambiare con la ratifica del Trattato di Lisbona, che definisce come materie di codecisione (cioè da sottoporre al voto dell’Europarlamento) anche le politiche agricole (i sussidi agricoli costituiscono il 40 per cento del bilancio dell’Unione Europea) e quelle migratorie. Se gli irlandesi non voteranno ancora “no”, molte cose in Europa cambieranno. Dal 2014 diventeranno effettive le decisioni “a doppia maggioranza”: non sarà più necessaria l’unanimità di tutti e 27 i paesi dell’Unione, basterà che una proposta sia approvata dal 55 per cento almeno dei paesi (cioè almeno 15) e che questi contino come minimo il 65 per cento degli abitanti della Ue. Alcune materie, però, continueranno a richiedere l’unanimità: esteri, difesa, sicurezza, politiche fiscali. Siamo europei, ma non siamo masochisti.