«Bip, bip, bip». I messaggini in arrivo sul cellulare non danno tregua. «Stasera tutti a casa, zero provocazioni. La polizia potrebbe cancellare le elezioni». «Non fare differenze tra i seggi nelle scuole o nelle moschee, concentrare i voti solo nelle scuole aumenterebbe la possibilità di brogli». «Porta la tua penna, quelle ai seggi hanno l'inchiostro simpatico che scompare dopo un'ora». Tre candidati perfettamente omogenei al sistema di potere della Repubblica Islamica sfidano il monopolio tv del presidente Mahmoud Ahmadinejad con sms e Internet.
Sono 46 milioni gli aventi diritto al voto e almeno 4 le previsioni su chi sarà il prossimo presidente iraniano, una ogni candidato. La campagna elettorale è stata elettrizzante. Ogni notte, da due settimane, le strade di Teheran si sono riempite di auto e cortei. All'inizio la gente si guardava intorno, in attesa di veder spuntare i manganelli. Poi, incredula, ha cominciato a partecipare sempre più numerosa alle scorribande notturne fatte di rime irriverenti (la passione persiana per la poesia è insopprimibile) e ragazze sempre più truccate e meno velate. La polizia non è praticamente mai intervenuta. Un Paese abituato a tacere si è sfogato. Il «sistema» ha lasciato fare e il vincitore delle notti è senza dubbio Mir-Hossein Mousavi, l'ex premier dalla moglie islamico-femminista. Chi c’era all'epoca dello scià ricorda che anche quelle manifestazioni cominciarono così, gradualmente. Gli ayatollah oggi al potere, allora erano in strada o in carcere. E conoscono il meccanismo, ma lo spettro di Tienanmen è sempre in qualche angolo del cervello. I Pasdaran hanno fatto sapere ieri che «qualsiasi tentativo di rivoluzione di velluto sarà stroncato in culla».
Vincere di notte non basta. La tesi con più argomenti razionali vede Ahmadinejad e l'ex premier Mousavi passare al ballottaggio dove Mousavi dovrebbe prevalere. Ma l'Iran ha abituato alle sorprese. Lo stesso Ahmadinejad, quattro anni or sono, non era affatto tra i favoriti. Il presidente cerca la conferma puntando su dipendenti pubblici, paramilitari, nazionalisti, poveri, contadini e (paradossalmente) delusi dall'élite clericale che ha guidato il Paese negli ultimi trent’anni. Sulla carta il 25% dell’elettorato, capace con una bassa affluenza di farlo vincere al primo turno. Contro Ahmadinejad ci sono i pessimi risultati economici e la voglia di libertà emersa nelle notti pre-elettorali.
I suoi tre avversari sono la reazione del vecchio sistema, ma con forti elementi di trasformazione. L’ex premier Mousavi pesca voti tra ricchi, intellettuali, studenti, donne, parte della burocrazia e (in quanto azero) le minoranze etniche. Il clerico Mahdi Karroubi ha presa tra giovani, riformisti e provinciali. Per carattere e storia personale potrebbe reggere meglio il confronto con l’ayatollah Khamenei, il leader ultimo della Repubblica Islamica. L’ex Pasdaran (Guardia della Rivoluzione) Mohsen Rezai piace a militari e burocrati critici di Ahmadinejad, ma con poche simpatie riformiste.
Due forze restano sullo sfondo, ma sono entrambe decisive. Una è il «partito» del boicottaggio personificato dalla Premio Nobel per la pace Shirin Ebadi. L’avvocatessa chiese nel 2005 di disertare le urne per screditare il «sistema » e togliergli credibilità. Questa volta è restata in silenzio davanti alla marea montante dei sostenitori di Mousavi. L’«onda verde», dal colore sorteggiato per lui dal comitato elettorale. Il secondo partito invisibile è quello di Alì Khamenei, la Guida Suprema. Nel 2005 spostò improvvisamente il suo peso per favorire lo sconosciuto Ahmadinejad. E questa volta? Forse si accontenterà di assistere neutrale alla corsa degli unici quattro candidati che ha deciso di ammettere in gara. In fondo Khamenei ha già vinto. Con l’affluenza record che ci si aspetta, potrà dimostrare al mondo che la «democrazia all’iraniana » esiste.
Andrea Nicastro
12 giugno 2009