MICHELE AINIS |
Un fruscio di banconote fa da sottofondo a questa campagna elettorale. Giorni fa Velina rossa, l’agenzia di stampa vicina alla sinistra, ha raccontato quanto costa farsi candidare dal partito democratico: da 50 a 70 mila euro. Il partito, ovviamente, ha smentito. Ma non ha smentito la trattativa a suon di bigliettoni con i radicali, anche perché la Bonino ne aveva già parlato a telecamere sguainate. Loro, gli alfieri del referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti, chiedevano 5 milioni per accodarsi alle liste del Pd; alla fine hanno ottenuto 3 milioni. Sull’altro fronte della barricata, dopo il divorzio fra Casini e Berlusconi il primo ha dettato un epitaffio: «In Italia non tutti sono in vendita». E con quell’epitaffio ha subito incartato Roma di manifesti elettorali. Intanto, sempre a Roma, la procura ha messo sotto inchiesta De Gregorio, per i quattrini che gli avrebbe sborsato Forza Italia in cambio del suo voto nell’aula del Senato. Mentre a Montecitorio pende un dossier sui 5 milioni rivendicati da Occhetto, Chiesa e Veltri a titolo di rimborso elettorale, da sottrarsi al movimento di Di Pietro. E a proposito dei denari scuciti dall’erario ai nostri 32 partiti. Grazie a una leggina approvata all’unisono nel 2006, vengono calcolati sull’arco d’un quinquennio, anche in caso di scioglimento anticipato della legislatura. Significa, per fare un solo esempio, circa 20 milioni nelle casse del Pd. D’altronde alle ultime politiche i partiti si sono divisi una torta da 200 milioni, giacché ogni elettore vale 5 euro, pure se non va a votare. E oltretutto con la raffinata ipocrisia di presentare come rimborso elettorale l’elargizione d’una somma superiore fino a 180 volte rispetto alle spese effettivamente sostenute: è il dono impacchettato dallo Stato per il partito dei pensionati, dopo le europee del 2004. Intendiamoci: la democrazia costa, sarebbe altrettanto ipocrita negarlo. E a sua volta il rapporto fra democrazia e denaro s’intesse fin dagli esordi dell’esperienza democratica. Nella Grecia antica la partecipazione politica veniva retribuita con il triobolo, per stimolare i meno abbienti; ragioni analoghe ispirano il moderno istituto dell’indennità parlamentare, nonché la garanzia di conservare il posto di lavoro alla scadenza del mandato elettivo. Viceversa i regimi oligarchici rendevano gratuita ogni carica pubblica, proprio per selezionare il ceto di governo attraverso il portafoglio. Insomma la retribuzione degli eletti schiude a ciascuno, e non soltanto a chi può vivere di rendita, la porta del Palazzo; mentre il finanziamento pubblico ai partiti offre una chance di vincere la gara anche alle formazioni che non hanno un petroliere sulla tolda di comando. Semmai la questione investe la misura del finanziamento: alle sue dimensioni attuali è un boccone troppo grosso, che a propria volta ingrossa ulteriormente il corpaccione dei partiti, nonché il loro appetito. Un circolo vizioso. Anche perché questi partiti superalimentati dalle finanze pubbliche finiscono poi per allevare una schiera di professionisti del consenso, gente senza mestiere, senz’altra competenza che quella di gonfiare l’urna elettorale. Gente che perciò vive «di» politica, non già «per» la politica, come intuì Max Weber nel lontano 1919. E tuttavia non è solo di questo che si tratta. Se la democrazia non ha orrore del denaro, essa però rifiuta qualsiasi reticenza. La democrazia - s’usa dire - è una casa di vetro. E se dietro il vetro c’è un salvadanaio, i cittadini hanno il diritto di sapere come viene usato. Noi però conosciamo le liste elettorali dei partiti, non la loro lista della spesa. Di più: non conosciamo neanche i nomi dei loro benefattori. Dal 2006 la legge impone di dichiarare i contributi privati solo quando superano 50 mila euro. In Germania e in Gran Bretagna il limite è più basso; in Francia vige una regolamentazione più severa. Da parte sua il governo Prodi ha appena fissato una soglia di 300 euro per i doni ricevuti dai ministri; ma si è ben guardato dal restituire trasparenza al finanziamento dei partiti. Sicché rimane in sospeso la domanda: dopo lo Stato, chi altri paga le vostre campagne elettorali? E perché lo fa? Dovremmo pur saperlo, dal momento che ci chiedete un voto. micheleainis@tin.it La Stampa |