mercoledì 17 febbraio 2010
VERSO LE REGIONALI / Pdl: è invasione del campo Pd
di Andrea Romano / Il Sole 24 Ore
Se il ministro degli Interni Maroni sconfessa le pulsioni emergenziali che sono venute dalla sua stessa parte politica dopo i fatti di via Padova, se il ministro dell'Agricoltura Zaia apre un conflitto con il Consiglio di stato in nome della lotta al mais transgenico, se ben sei tra governatori e candidati governatori del centro-destra si battono "senza se e senza ma" contro il ritorno al nucleare, tutto questo non ha a che fare soltanto con la vigilia delle elezioni regionali. È la destra che veste anche i panni della sinistra, giocando due parti in commedia e riassumendo al proprio interno gran parte della dialettica politica nazionale.
D'altra parte può capitare che un partito o una coalizione siano talmente forti da ospitare dentro i propri confini un ventaglio molto ampio di posizioni politiche, grazie anche alla debolezza degli avversari. È quanto accadeva, tra l'altro, alla Dc nei suoi tempi migliori. Quando tra la destra e la sinistra democristiana correva una distanza risolta solo in parte dal carisma della leadership o dalla negoziazione interna di partite governative. Eppure quello che sta accadendo alla coalizione di governo non sembra avere molto in comune con l'esempio della Dc. Perché sui temi degli Ogm, dell'immigrazione e soprattutto del nucleare - per citare solo tre punti dell'agenda politica - le diverse anime del centro-destra hanno rivelato una divaricazione che si fatica a interpretare come un punto di forza.
È pur vero che la debolezza del Pd ha raggiunto livelli tali da lasciare un vuoto che non può che essere colmato anche per questa via. Risolta con grande fatica e molte cicatrici la vicenda delle candidature regionali, il Pd di Bersani sembra avere smarrito la voce dinanzi ai fatti di questi giorni. Il caso Bertolaso è stato naturalmente accompagnato dalla richiesta di dimissioni del capo della Protezione civile. Gli scontri di via Padova sono stati l'occasione per denunciare il fallimento delle politiche di integrazione dell'amministrazione milanese. Ma la gran parte delle energie propriamente politiche del Pd continua a essere dilapidata in una partita giocata interamente nella propria metà campo. Che è poi la stessa partita che si prolunga da tempo senza alcuna novità e senza più appassionare nessuno tra coloro che per ragioni di militanza o sopravvivenza non siano particolarmente affezionati alle vicende interne di quel partito.
Si prendano ad esempio le ultime dichiarazioni di Walter Veltroni, raccolte sabato scorso nell'intervista ad Aldo Cazzullo del Corriere della Sera. Ancora una volta l'annuncio di non nutrire «alcuna ambizione personale», ancora una volta la rivendicazione di una «atipicità personale» animata da «un rapporto febbrile con la politica ma non di febbre per il potere», ancora una volta «la politica come vocazione e non come mestiere». Eppure questo saggio tardivo di mimetica veltroniana, nel quale sono tornati ad affacciarsi persino Bob Kennedy ed Enrico Berlinguer come se ancora ci trovassimo nei primi anni Novanta, non ha prodotto alcuna reazione di peso. Bersani ha liquidato l'ex segretario come "una risorsa" e per il resto silenzio, da sponde sia amiche che nemiche. Il silenzio che ha accompagnato l'uscita di Paola Binetti e la progressiva diserzione degli esponenti cattolici dal Pd. Lo stesso silenzio con cui la principale forza di opposizione si prepara a ricevere il verdetto del voto regionale con molti timori per la propria tenuta strutturale.
Eppure per il centro-destra non sono tutte belle notizie, perché il mutismo del Pd lascia libero il Pdl di rivelare la fragilità della sua aspirazione a essere un partito autenticamente nazionale. Un partito che sia quindi capace di tenere insieme posizioni anche molto distanti e di riassumere sotto un unico tetto quelle che appaiono come le prime manifestazioni di una possibile frantumazione post-berlusconiana. E al di là dell'assunzione di temi di sinistra nell'armamentario politico di settori del Pdl, l'opposizione dei governatori di centro-destra al ritorno al nucleare è qualcosa di più grave di un'ordinaria manifestazione della celebre sindrome Nimby. C'è anche l'incapacità di quel partito (e di una leadership dall'apparenza tanto carismatica) a far valere il peso di una legittima scelta di politica energetica presso i terminali più forti della rappresentanza popolare, quali sono oggi le presidenze di regione. Perché se per i cittadini di una nazione il cortile di casa è il paese intero, per una forza politica che voglia essere partito nazionale le opzioni strategiche come quelle energetiche sono un campo di prova che non può essere fallito. A meno di non volersi preparare, prima o poi, alla moltiplicazione dei cortili politici come metodo di sopravvivenza di un'intera classe dirigente.
17 febbraio 2010