martedì 9 febbraio 2010

Tajikistan: il Paese dove non c'è campagna elettorale


In Tajikistan, si avvicina la data delle elezioni parlamentari fissate per il 28 febbraio e il clima si sta facendo sempre più acceso con la stampa che sostiene di essere accerchiata nel tentativo di essere messa sotto controllo dal governo.
La struttura della Repubblica asiatica, il cui presidente è Emomali RAHMON e Primo ministro Oqil OQILOV, è di tipo bicamerale con l’Assemblea Nazionale composta da 34 seggi e l’Assemblea dei Rappresentanti da 63 seggi. Il presidente viene eletto direttamente con un mandato di 7 anni e può essere rieletto una sola volta. I 34 membri dell’Assemblea Nazionale sono eletti con voto indiretto per un mandato di 5 anni; 25 di questi vengono scelti dai delegati locali, 8 su designazione del presidente mentre 1 seggio è riservato all’ex presidente. Tutti i membri sono designati dal Presidente o dai suoi rappresentanti. Dell’ Assemblea dei Rappresentanti 41 membri vengono eletti a maggioranza assoluta in collegi uninominali e 22 sono eletti in liste bloccate con rappresentanza proporzionale. I componenti delle due assemblee rimangono in carica 5 anni. Nel collegio uninominale il sistema elettorale è a due turni.
Il Partito Democratico del Popolo del Tajikistan (PDPT) a cui appartiene il Presidente Rahmom, si aspetta un’ampia vittoria nonostante, come ho detto, prevalga il sospetto che sia in atto un giro di vite sulla libertà di stampa. Nel Paese non esistono quotidiani e i settimanali indipendenti rischiano di vedersi tagliare i fondi o di dover pagare i danni così come è accaduto recentemente al settimanale Paykon dopo un servizio sulla corruzione. Altri tre settimanali indipendenti, sempre a seguito di articoli relativi la corruzione pubblica, sono stati condannati a pagare 1.2 milioni di dollari per danni morali e a sospendere le pubblicazioni sino alla data del processo. I partiti d’opposizione sono alla deriva e hanno pochissime possibilità di affrontare seriamente la sfida con il partito al governo (PDPT). Muhiddin Kabir, capo del partito d’opposizione della Rinascita Islamica ha dichiarato che i governo evita di affrontare i più importanti problemi sociali come la corruzione e l’inefficienza delle agenzie governative così come è dimostrato dall’aumento delle cause legali contro i giornali che si occupano di questi temi. Non solo. In Tajikistan per accedere ai documenti ufficiali i giornalisti sono costretti a pagare 10 cents per pagina e su questo argomento è in corso un ampio dibattito tra i rappresentanti della stampa e gli organi governativi che insistono sul fatto che la libertà di stampa non è intaccata.
Il clima elettorale non raggiunge però la popolazione che, nella stragrande maggioranza, si è rassegnata al fatto che niente può cambiare, nemmeno attraverso il voto che per anni è stato gestito con sistema sovietico. Privo di risorse naturali, situato in un angolo remoto dell’Asia Centrale, il Tajikistan è il paese più povero dell’ex Unione Sovietica e non ha nessun ruolo negli affari internazionali. Le elezioni che si sono svolte sino ad oggi non sono mai state definite, dagli organi internazionali di controllo, democratiche. Nonostante ciò l’Occidente guarda con interesse a questo paese che confina in parte con l’Afghanistan e che vorrebbe aprire una nuova rotta per le forze della Nato che combattono i Talebani. I numerosi civili e le truppe straniere uccise nello scorso anno in Afghanistan hanno rinnovato l’interesse verso questo paese che, tra l’altro, compete con le principali vie del traffico della droga tra l’Afghanistan e l’Europa. Gli alleati del presidente Rakhmon sono certi di conquistare il maggior numero dei seggi della Camera bassa. Nel paese non ci sono segni di campagna elettorale e solamente alcuni manifesti sono stati affissi nelle strade principali della capitale Dushanbe, una città dall’architettura sovietica che contrasta con le periferie dove le case sono baracche con i tetti di fango. Il partito d’opposizione Islamic Revival ha solamente due seggi mentre il partito del presidente e quello filocomunista e filogovernativo controlla i restanti. Come durante il regime sovietico la gente è convinta di non poter cambiare nulla e si meraviglia quando legge che, pur non avendo votato e non conoscendo persone che l’hanno fatto, legge sui giornali di un’affluenza alle urne del 90 per cento.
Il Governo ha segnalato, lo scorso anno, il ripetersi di numerosi scontri armati tra le organizzazioni criminali vicino alla frontiera afgana e ammesso che nel sud del paese aumentano le minacce estremistiche e ha condannato le violenze dei talebani. Rakhmon, che ha comandato dal 1992 al 1997, le forze filosovietiche nella devastante guerra civile contro un’alleanza di islamici e liberaldemocratici, è certamente preoccupato. Ha stretto i rapporti con l’Iran, con il quale i Tajiks condividono la lingua persiana, così come con la Cina e la Russia, tradizionale alleato che ospita milioni di lavoratori emigranti provenienti dal Tajik.
Nello scorso mese di Settembre i leaders dell’opposizione hanno tentato un colpo di mano per annullare la “tassa di registrazione” che deve essere pagata da tutti coloro che concorrono a una carica parlamentare. Il contributo è di 1,600 dollari, una cifra esorbitante per un paese dove la retribuzione media mensile è di 60 dollari. Lo scorso Novembre invece il governo ha bloccato un tentativo dell’opposizione di spostare le elezioni ad Aprile. Il Segretario della Commissione elettorale Centrale (CED) Muhibullo Dodojonov ha invitato le organizzazioni internazionali a contribuire a creare un clima sereno in prossimità delle elezioni in un paese con un’economia debole aggravata dalla crisi internazionale dove le elezioni rischiano di essere una riedizione di quelle del passato. Pare che questo appello non sia stato raccolto anche perché, si dice, non avrebbe senso investire risorse in un paese in cui il risultato elettorale è predeterminato. Sempre nell’ambiente diplomatico corre voce che, dato l’aggravarsi la situazione della sicurezza in Afghanistan, è preferibile nell’Asia centrale mantenere lo status quo piuttosto che perseguire la democrazia.

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