venerdì 26 febbraio 2010

La corruzione e i partiti



Il caso del senatore Di Girolamo ma anche quanto documentano tante inchieste della magistratura sulla politica locale chiamano direttamente in causa le modalità di reclutamento della classe politica, al centro e alla periferia (le vicende giudiziarie che coinvolgono, rispettivamente, la Protezione civile ma anche Telecom e Fastweb toccano invece aspetti diversi). Come sempre, quando scoppia una emergenza giudiziaria, e tanto più se ci si trova alla vigilia di qualche importante scadenza elettorale, si invocano e si propongono nuove regole, soprattutto per quanto riguarda la composizione delle liste elettorali. È giusto che i partiti, in questa situazione, si diano delle norme stringenti nella selezione dei candidati. Proporre nuove regole, più o meno moralizzatrici, ha lo scopo di tranquillizzare un’opinione pubblica allarmata e sconcertata. Ma che servano davvero a risolvere, alla radice, il problema della qualità dei reclutamenti dei politici è un altro discorso. Ci sono due aspetti da considerare. Il primo riguarda la natura dei partiti: la loro plasticità e permeabilità. I partiti sono strutture camaleontiche, che si adattano all’ambiente in cui operano, e sono anche, inevitabilmente, condizionati, sia per il reclutamento del personale politico sia per quanto riguarda le influenze che su quel personale sono esercitate dall’esterno, da gruppi, aziende, notabili (ma anche, in certe zone, organizzazioni criminali), che nei diversi territori sono dotati delle maggiori risorse. Ne discende che le battaglie moralizzatrici (anche ammesso, e non concesso, che vengano intraprese con reale convinzione e con reale volontà) tese a bonificare i partiti sono destinate a sicuro fallimento se non si procede prima, o almeno contestualmente, a bonificare l’ambiente.

È inutile, ad esempio, stupirsi delle «infiltrazioni mafiose » nei partiti se parti ampie delle economie dei territori in cui le infiltrazioni avvengono sono in mano alla criminalità. Per bonificare con speranze di successo i partiti bisogna intervenire sull’economia di quei territori. Tramontata l’epoca che alcuni (ma non chi scrive) ritengono gloriosa dei partiti di massa ideologici, i partiti sono ormai quasi esclusivamente comitati elettorali e rimarranno tali. La loro permeabilità all’ambiente resterà, pertanto, elevatissima. E il reclutamento del personale politico continuerà a esserne condizionato. Il secondo aspetto importante riguarda l’opacità delle relazioni fra gruppi di affari e il personale politico. Qui bisogna davvero intendersi. Non si riuscirà mai a dare la trasparenza necessaria alla attività delle lobbies che operano sul piano locale e sul piano nazionale se continueremo a demonizzarle (come la nostra cultura politica ha sempre fatto) anche a prescindere dalla individuazione di specifici e circostanziati reati penali. Le lobbies, in tutte le democrazie, sono una costante. Imporre la trasparenza necessaria per contrastare le attività illecite richiede, come contropartita, la piena accettazione pubblica delle attività lobbistiche. I vescovi hanno levato giustamente la loro voce contro i perversi rapporti fra politica e affari nel Mezzogiorno. Ma è un problema che non si risolve se non ci si fa venire nuove idee su come combattere l’economia parassitaria (l’economia che vive di distribuzione di risorse pubbliche) nel Sud del Paese.

C’è poi il fatto che non bisognerebbe avanzare richieste contraddittorie. È più che lecito, ad esempio, criticare l’attuale legge elettorale perché, fra le altre cose, spezza il rapporto fra l’eletto e il territorio. Ma come si concilia questa critica con la richiesta di usare la ramazza contro i comitati d’affari locali? Se, cambiando legge elettorale, si rinforzano i legami fra eletti e territorio (per esempio, reintroducendo le preferenze) anche i rapporti fra i candidati, gli eletti e gli interessi dei gruppi locali che fanno affari con la politica non possono che rafforzarsi. Chi scrive è sempre stato un fautore del sistema maggioritario con collegi uninominali. Perché mi sembra il sistema elettorale che meglio favorisce la competizione fra opposti schieramenti politici. Ma mentirei se sostenessi che con il collegio uninominale si allenterebbe la dipendenza degli eletti dai gruppi di interesse locali. Probabilmente, quella dipendenza potrebbe solo accrescersi. Il fervore con cui, improvvisamente, si cerca di trovare «nuove regole» è comprensibile. Ma non porterà da nessuna parte senza interventi ben più incisivi e importanti sugli ambienti sociali ed economici in cui i partiti operano. Ad esempio, scordatevi la possibilità di avere nel Sud partiti puliti e lustri se la realtà meridionale, per tante parti, resta quella che è. Anche se una certa, diffusa mentalità legalistico-formalistica porta tanti a non comprenderlo, una nuova «regola», quale che essa sia, per esempio in materia di composizione delle liste, se cade in un ambiente con essa incompatibile, verrà necessariamente aggirata o stravolta. Passata l’emergenza, tutto ricomincerà più o meno come prima.

Angelo Panebianco
26 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA