lunedì 23 marzo 2009

Povero Obama, crede che la geopolitica sia un grande Facebook!

Quando è andato da Jay Leno, Obama di due cose non ha praticamente parlato, manco a farlo apposta quelle importanti: l'Iran e la legge ipersovietica con cui il Congresso intende tassare al 90 per cento, retroattivamente, i bonus della grande compagnia di assicurazione Aig.
Guardatevi il video se non ci credete. Ingenuo e molto cool, il presidente audace e speranzoso che guarda al futuro ha pensato di risolvere la geopolitica del terrore con una chattata da social network, una pagina video di facebook.
Caro popolo iraniano, cari leader della Repubblica islamica e così via... Che Dio gliela mandi buona. E' nel nostro interesse evitare nuove umiliazioni all'occidente, dopo i disastri di Jimmy Carter nella seconda metà degli anni Settanta.

Un risveglio diplomatico internazionale, capace di stabilizzare l'Afghanistan, di compiere fino in fondo la missione irachena di rinascita costituzionale, di dare sicurezza a Israele e pace, pane e democrazia ai palestinesi, soprattutto di rassicurare il medio oriente e il mondo intorno al nucleare di Ahmadinejad: che volete di più dalla vita, che cosa c'è di meglio della promessa di Barack Obama?
E se il costo di tutta l'operazione fossero due complimenti ai capi della rivoluzione fatti filtrare su youtube, meglio così.

John McCain, un quiet american da romanzo, non ha polemizzato con l'uomo che lo sconfisse alle elezioni, lo ha anzi sostenuto nel corso di un viaggio in Europa, dove le aspettative e la buona volontà verso il tentativo obamiano di cambiare registro nelle relazioni mondiali sono notevoli. Dick Cheney sembra meno propenso a fargliela passare liscia, visto che ripete un paio di volte alla settimana che l'America oggi è meno sicura di ieri, e con qualche argomento a proprio favore.
Ma tocca a tutte le persone sensate, sebbene le alzate di spalle dell'ayatollah Khamenei in risposta al messaggino del presidente non promettano nulla di buono, mettersi nell'attitudine della prudenza: wait and see.

La saga dei bonus sta lì a dimostrare che non bastano personal charm, studi harvardiani e abilità politica della scuola di Chicago per fare di un presidente eletto un leader effettivo.
La Aig ha ricevuto oltre 170 miliardi di dollari di aiuti dallo stato, e il governo federale è virtualmente il nuovo assicuratore globale, il nuovo padrone della ditta. Solo che prima degli aiuti il personale della compagnia, sia quello che se ne è andato in fama di mela marcia sia quello di eccezionale valore che è rimasto e la sta rimettendo in piedi, ha stipulato per contratto pagamenti per 160 milioni di dollari e spiccioli, legati alle performance straordinarie di prima della crisi, incentivi ieri considerati veicoli di stabilità e dinamismo del settore finanziario, oggi giudicati corporate excess, insomma prove di avidità devastanti per l'interesse pubblico.
Di qui la rivolta della classe media, che ha un peso elettorale decisivo in un paese in cui per il Congresso si vota ogni due anni, rinnovando totalmente un ramo e per un terzo l'altro.
Vogliamo quei bonus indietro, nelle casse dello stato dove sta il denaro uscito dalle tasche dei contribuenti.

Quando i contratti sono stati firmati, Tim Geithner, il già capo della Federal Reserve di New York e ora uomo di Obama al Tesoro, si è voltato dall'altra parte.
Quando la Casa Bianca e il Tesoro hanno varato nuovi aiuti del pacchetto di stimolo all'Aig, per altre decine di miliardi di dollari, il furbissimo Geithner ha evitato di inserire un comma anti-bonus, come chiedevano i democratici più radicali del Congresso.
E ora la Casa Bianca è nei pasticci, e il presidente tenta di eludere con frasette di circostanza questa doppia rivolta in atto: l'onda populista che vuole consacrato il principio secondo cui la rappresentanza controlla ad ogni costo la politica fiscale del governo (no taxation without representation); e la ribellione della finanza contro misure retroattive, probabilmente incostituzionali, capaci di stracciare contratti validi e di abbattere o affondare la struttura portante di una delle tre grandi industrie americane (la finanza, seguita in ordine d'importanza dai media e dalla tecnologia).

Di tutto questo dai giornali del mainstream europeo-latino, in particolare italiano, saprete poco e male: Obama infatti non è un oggetto di analisi politica, è un oggetto di puro amore come Bush era un obiettivo di puro odio.

Giuliano Ferrara
Il Foglio