lunedì 30 marzo 2009

Berlusconi pigliatutto?


Singolare ma significativo il modo con il quale si è concluso il congresso fondativo del nuovo partito di centrodestra italiano. Certo può essere sorprendente che alle tre fondamentali questioni poste da Fini, l’apertura di una stagione costituente, il sostegno al referendum, la correzione della legge sul testamento biologico così come votata al Senato, Berlusconi, nella replica finale, abbia risposto a metà e piuttosto sbrigativamente solo alla prima, lasciando all’interpretazione del suo silenzio la posizione del Pdl sulle altre due. Il presidente della Camera aveva tratteggiato un profilo di partito molto preciso, dai caratteri laici e modernizzanti, quasi spigoloso, con una identità così forte che lui stesso era stato costretto a definirlo obbligatoriamente «di minoranza». Un partito, certo, di ispirazione moderata, ma con lo sguardo tutto rivolto al futuro e difficilmente etichettabile come conservatore. Il premier ha voluto evitare «l’alternativa del diavolo» che Fini gli aveva posto: se avesse aderito alle sue posizioni gli avrebbe consegnato il bastone dell’ideologo e del profeta, consacrandolo definitivamente come suo erede; se gli avesse opposto una linea diversa avrebbe riconosciuto, per la prima volta nel partito da lui fondato e sul quale regna incontrastato, la possibilità di una leadership alternativa. Così, Berlusconi, derubricando quasi l’intervento di Fini come il proverbiale «utile contributo al dibattito», ha voluto concentrarsi sull’ordine del giorno del presente. Un ordine del giorno pervicacemente mirato a un solo scopo: il rafforzamento dei poteri del premier. D’altra parte, se si punta a un partito del 51 per cento, se si identifica il Pdl come il partito degli italiani, quello destinato e quasi costretto a governare per l’inconsistenza dello schieramento avversario, si deve tener conto che tutti possono farvi parte, i laici come i cattolici, i liberisti come i protezionisti, i conservatori come i riformisti. Insomma, un partito che non divide, pragmatico, che si modella nelle mani del suo leader con prontezza e realismo. È difficile prevedere se questo modello di partito «acchiappatutto» reggerà agli scossoni di scelte che, comunque, sono imminenti, come quelle sul testamento biologico dove, alla Camera, forse la maggioranza dei deputati non è pronta a sostenere il testo approvato a Palazzo Madama. O quando il referendum sulla legge elettorale potrebbe costituire una ghiotta tentazione per sfidare la Lega alla crisi di governo e a nuove elezioni, pur di arrivare, con una scorciatoia, a quella soglia del 51 per cento che, diversamente, potrebbe costituire solo un miraggio. La conclusione del congresso, però, aiuta a dare un significato chiarificatore al paragone che è aleggiato in questi giorni: il Partito della Libertà è la Dc del Duemila, una «balena bianca» guidata da quel moderno doroteismo ideologico che ha sostituito il dialogo diretto tra il leader e il popolo alla vecchia mediazione interclassista dei capi democristiani? Il confronto sottintende, più o meno esplicitamente, una previsione: Berlusconi è riuscito a raggruppare sotto le nuove bandiere del Pdl un blocco sociale che garantirà al centrodestra l’egemonia politica in Italia per un periodo molto lungo, destinato a non terminare neanche dopo il suo passaggio di consegne. Il richiamo alla Dc è utile se coglie la capacità del Pdl di rappresentare l’anima moderata e sicuramente maggioritaria del Paese. È illuminante perché coglie l’attuale pragmatismo di Berlusconi, che ha mandato in soffitta l’epopea rivoluzionaria degli esordi e che rifiuta le incalzanti sfide modernizzanti e fortemente identitarie che gli propone Fini. Ma con alcune differenze importanti che, invece, non consentono di fare pronostici. La Dc aveva un elettorato più conservatore di chi si incaricava di rappresentarlo nelle aule parlamentari e al governo. Il Pdl, al contrario, rischia di avere un centro di gravità dirigenziale nettamente più a destra della maggioranza di chi lo vota. Questa diversità lascia, soprattutto nel Nord Italia, un potenziale spazio politico sia alla Lega, naturalmente, sia ai partiti del centro e del centrosinistra. Poiché non esiste più, nonostante le ossessive insistenze di Berlusconi, un partito antisistema come era il partito comunista, la previsione di una sicura egemonia del centrodestra per i prossimi decenni non può essere confortata da quella similitudine storica. Nell’Italia del Duemila il potere non si conquista più perché gli altri sono fuori gioco, ma perché gli altri si mettono fuori gioco da soli. Luigi La Spina per la Stampa 30 marzo 2009