martedì 31 marzo 2009
TURCHIA: RISSE ELETTORALI
Almeno tre persone sono morte ed altre 30 sono rimaste ferite in risse e sparatorie in varie localita' turche durante le amministrative. Nel villaggio di Akziyaret, un diverbio sull'elezione del capo villaggio e' degenerato in una sparatoria con 1 morto e 12 feriti. In un episodio analogo, 15 feriti a Suruc. Altri due morti si sono registrati nel distretto di Lice e nella provincia di Afyion una violenta rissa ha fatto sei feriti. Un altro ferito nella provincia di Agri. (Ansa)
ALLE EUROPEE FRANCESCHINI SE NE STA A CASA
Per prevenire il danno franciS(mall) lo invita al confronto contando sul fatto che - sollecitato - il Cav si defili (memorabili le eloquenti poltrone vuote disseminate nel corso della sua reggenza).
Cui prodest?
Certamente non al Pd che continua a disprezzare la personalizzazione della politica a personalizzazione avvenuta. Il Cs può contrastare l'inamovibile Cav solamente contrapponendogli una personalità politica altrettanto forte perchè, giova ricordarlo agli smemorati, in un sistema bipolare (e adesso quasi bipartitico) la differenza la fà quel famoso centro dal quale gli elettori vanno e vengono a seconda che si sentono sedotti o abbandonati.
Và da sè che anche la seduzione non è nelle corde del Pd nonostante una consigliera provinciale di provincia abbia dimostrato che stare sulla scena mediatica vale più di mille dichiarazioni di principio. Tutto ciò per dire che in politica bisogna adeguarsi all'avversario giocando sul suo stesso campo perchè la demonizzazione (attività piuttosto praticata dalle sezioni alle segreterie Pd) lo santifica agli occhi dei suoi seguaci e marca nettamente il confine tra schieramenti escludendo definitivamente l'agognato e agognabile centro.
Cercasi leader disperatamente.
lunedì 30 marzo 2009
La vendetta è un piatto che va servito freddo
Ferruccio de Bortoli lascia il Sole24 Ore e ritorna oggi al Corriere della Sera. L'uscita di Paolo Mieli è il risultato di quell'onda lunghissima che si era formata all'indomani delle elezioni politiche del 2006 quando il risultato delle urne dimostrò che il suo endorsment a favore del centrosinistra non aveva eroso la roccaforte berlusconiana. Non solo. Aveva favorito la fuga di un numero crescente di e/elettori conviti che quello avrebbe dovuto restare il giornale liberal-conservatore del Paese.
Centrosinistra e centrodestra al voto
LA SCELTA DEL 9 APRILE
A dispetto di quel che da tempo attestano, unanimi, i sondaggi, il risultato delle elezioni che si terranno il 9 e 10 aprile appare ancora quantomai incerto. È questo un buon motivo perché il direttore del Corriere della Sera spieghi ai lettori in modo chiaro e senza giri di parole perché il nostro giornale auspica un esito favorevole ad una delle due parti in competizione: il centrosinistra. Un auspicio, sia detto in modo altrettanto chiaro, che non impegna l' intero corpo di editorialisti e commentatori di questo quotidiano e che farà nel prossimo mese da cornice ad un modo di dare e approfondire le notizie politiche quanto più possibile obiettivo e imparziale, nel solco di una tradizione che compie proprio in questi giorni centotrent' anni di vita. La nostra decisione di dichiarare pubblicamente una propensione di voto (cosa che abbiamo peraltro già fatto e da tempo in occasione delle elezioni politiche) è riconducibile a più di una motivazione. Innanzitutto il giudizio sull' esito deludente, anche se per colpe non tutte imputabili all' esecutivo, del quinquennio berlusconiano: il governo ha dato l' impressione di essersi dedicato più alla soluzione delle proprie controversie interne e di aver badato più alle sorti personali del presidente del Consiglio che non a quelle del Paese. In secondo luogo riterremmo nefasto, per ragioni che abbiamo già espresso più volte, che dalle urne uscisse un risultato di pareggio con il corollario di grandi coalizioni o di soluzioni consimili; e pensiamo altresì che l' alternanza a Palazzo Chigi - già sperimentata nel 1996 e nel 2001 - faccia bene al nostro sistema politico. Per terzo, siamo convinti che la coalizione costruita da Romano Prodi abbia i titoli atti a governare al meglio per i prossimi cinque anni anche per il modo con il quale in questa campagna elettorale Prodi stesso ha affrontato le numerose contraddizioni interne al proprio schieramento. Merito, questo, oltreché di Romano Prodi, di altre quattro o cinque personalità del centrosinistra. Il leader della Margherita Francesco Rutelli, che ha saputo trasformare una formazione di ex dc e gruppi vari di provenienza laica e centrista in un moderno partito liberaldemocratico nel quale la presenza cattolica è tutelata in un contesto di scelte coraggiose nel campo della politica economica e internazionale. Piero Fassino, l' uomo che più si è speso per traghettare, mantenendo unito e forte il suo partito, la tradizione postcomunista nel campo dominato dai valori di cui sopra. I radicalsocialisti Marco Pannella e Enrico Boselli che con il loro mix di laicismo temperato e istanze liberali rappresentano la novità più rilevante di questa campagna elettorale. Fausto Bertinotti, il quale per tempo ha fatto approdare i suoi alle sponde della nonviolenza e ha impegnato la propria parte politica in una nitida scelta al tempo della battaglia sulle scalate bancarie (ed editoriali) del 2005. Noi speriamo altresì che centrosinistra e centrodestra continuino ad esistere anche dopo il 10 aprile. E ci sembra che una crescita nel centrodestra dei partiti guidati da Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini possa aiutare quel campo e l' intero sistema ad evolversi in vista di un futuro nel quale gli elettori abbiano l' opportunità di deporre la scheda senza vivere il loro gesto come imposto da nessun' altra motivazione che non sia quella di scegliere chi è più adatto, in quel dato momento storico, a governare. Che è poi la cosa più propria di una democrazia davvero normale. Paolo Mieli
Berlusconi pigliatutto?
In Turchia le elezioni amministrative premiano ancora Erdogan
L'Akp, il partito di radici islamiche Giustizia e Sviluppo del premier turco Tayyip Erdogan, ha vinto le elezioni amministrative svoltesi oggi in Turchia, tenendo ma non trionfando come pronosticato dai sondaggi della vigilia che lo davano addirittura capace di ottenere quasi il 48% delle preferenze.
Poco dopo le 21 locali, con il 25% dei voti scrutinati, l'Akp sembra destinato ad attestarsi attorno al 41% dei voti, un punto in meno delle amministrative del 2004 e ben sette punti in meno delle politiche del 2007, un risultato che lo conferma come primo partito turco, ma che mette ora Erdogan nella scomoda posizione di dover fare un'analisi di coscienza per spiegarsi perché, per la prima volta da sette anni, il suo partito, come si dice in Turchia, "ha cominciato a perdere sangue".
Tra le possibili cause, secondo alcuni analisti, la rabbia di decine di migliaia di lavoratori turchi rimasti senza lavoro che hanno voluto cosi' "punire" un governo da più parti accusato di aver per troppo tempo sottovalutato la crisi economica globale che Erdogan insiste a sostenere che colpirà il Paese solo in modo marginale. Ma forse ha avuto il suo peso anche il risentimento di altre migliaia di islamici ortodossi che si sono sentiti traditi dal premier il quale - soprattutto in funzione filo-europea - ha più volte rinnegato le radici islamici del suo partito. Lo proverebbe il fatto che il piccolo partito fondamentalista islamico della Felicità (Saadet) che alle politiche del 2007 aveva ottenuto un misero 2.3%, oggi ha ricevuto il 6.10% delle preferenze, più del doppio.
Non è però andata meglio neanche al Partito Repubblicano del Popolo (Chp, socialdemocratico all'opposizione) che con il 18.6% delle preferenze ha appena "tenuto" rispetto al risultato delle amministrative del 2004 (18.30%) perdendo invece in confronto alle politiche del 2007 (20.80%). Ha guadagnato invece il Partito del Movimento Nazionalista (Mhp) che, stando ai dati finora diffusi, ha ottenuto il 15.80% contro il 10% del 2004 e il 14.25 del 2007.
Per quanto riguarda l'assegnazione dei sindaci delle principali città, sembra che l'Akp - pur avendo perso terreno - manterrà Istanbul e Ankara, il Chp tiene stretta la sua roccaforte Izmir (Smirne), e la maggiore città della Turchia sud-orientale, Diyarbakir, resta saldamente nelle mani del filo-curdo Partito della Società Democratica (Dtp).
Sei morti e oltre 90 feriti
La giornata elettorale è stata, però funestata da gravi scontri tra sostenitori di opposti partiti politici in varie località, soprattutto nella parte sudorientale della Turchia, che hanno provocato almeno sei morti ed oltre 90 feriti.
Nel villaggio di Akziyaret, nella provincia sud-orientale di Saliurfa, un diverbio a proposito dell'elezione del capo villaggio (muhtar) è degenerato in una sparatoria in cui una persona è morta e 12 sono rimaste ferite. Un analogo incidente e per analoghi motivi, è avvenuto nella città di Suruc, sempre a Saliurfa, dove 15 persone sono rimaste ferite dopo essersi prese a fucilate. In un altro scontro tra due opposti gruppi, nel distretto di Kagiman, nella provincia orientale di Kars, un uomo è morto e altri cinque sono rimasti feriti. Uguale bilancio - un morto e cinque feriti - nella provincia orientale di Van e un'altra vittima e un ferito nella provincia di Kayseri. Altri due uomini sono morti, sempre in seguito a diverbi elettorali, nel distretto di Lice, nella provincia sud-orientale di Diyarbakir, mentre nella provincia centrale di Afyion i sostenitori dei due capi villaggio avversari si sono affrontati in una violenta rissa che ha fatto sei feriti.
Arrestati ai seggi 590 ricercati
590 cittadini turchi ricercati dalla polizia sono stati arrestati grazie alle elezioni turche poichè ai seggi sono stati riconosciuti.Così il forte desiderio di adempiere al proprio dovere di voto è costato loro caro. Gli arrestati ai seggi erano accusati per reati che andavano dall'omicidio al furto.Naturalmente sono stati smascherati dovendo mostrare un documento di identità.
Dukanovic vince le elezioni in Montenegro
I quasi 500 mila elettori montenegrini hanno fatto oggi una scelta chiara consegnando una ampia maggioranza assoluta alla coalizione guidata dal Partito socialista democratico di Milo Djukanovic, premier uscente, padre della pacifica indipendenza dalla Serbia del 2006 e vero uomo forte del piccolo Paese adriatico da quasi un ventennio.
La coalizione 'Per un Montenegro europeo' dominata dal partito di Djukanovic ha conquistato secondo gli exit poll, il 51,1% dei voti (il margine di errore è considerato al massimo dell'1%). I seggi ottenuti dovrebbero essere 49 su un totale di 81, quindi assai più dei 41 che Djukanovic già controllava nella precedente legislatura. Djukanovi si è già dichiarato vincitore, visto che il distacco dagli avversari è abissale: 16& per il principale partito di opposizione, il Partito popolare socialista, e il 9% per Nuova democrazia serba (i partiti in lizza in tutto erano 16).
Si tratta di un consenso largamente sufficiente non solo a governare da solo ma anche a traghettare la più piccola delle repubbliche ex jugoslave verso l'Unione europea. Quello di oggi appare in effetti come un 'euro-voto', visto che Djukanovic ha presentato domanda di adesione all'Ue nel dicembre scorso, ottenendo la promessa dalla presidenza di turno ceca dell'Ue di accelerare il processo di integrazione osteggiato invece dalla Germania e dall'Olanda. L'Italia, secondo partner commerciale del Montenegro dopo la Serbia, è invece favorevole ad una rimozione degli ostacoli che rallentano la marcia di avvicinamento a Bruxelles. Nel corso del comizio conclusivo di venerdì scorso, Djukanovic ha detto che la sua coalizione "combatterà la crisi e proteggerà l'economia nazionale, salvaguardando imprese e pensioni".
L'economia montenegrina, e specialmente il settore del turismo, ha avuto una crescita costante dal 2004, aumentata dopo l'indipendenza dalla Serbia nel 2006, ma rischia come molti altri Paesi balcanici una possibile recessione nel 2009.
I risultati elettorali rivelano che la maggioranza dei montenegrini ritiene che l'impegno di Djukanovic ad ottenere l'adesione all'Unione europea sia il migliore antidoto alla crisi economica. Dopo l'indipendenza e le elezioni del 2006, i partiti politici avevano concordato di tenere una nuova tornata elettorale alla fine del 2009 ma il governo ha deciso di anticipare il voto, sostenendo che il cammino verso l'Ue richiede un parlamento ed un esecutivo nel pieno delle funzioni.
domenica 29 marzo 2009
BERLUSCONI E LE OMBRE DEL PASSATO
Anche un ascolto o una lettura superficiali del discorso di Silvio Berlusconi al Congresso di fondazione del Popolo della libertà consentono di coglierne immediatamente il cuore ideologico: è l'anticomunismo. Tutto il resto appare solo accennato, sbrigato in poche parole e comunque affatto generico. All'anticomunismo, invece, è stata riservata la parte centrale, e anche retoricamente ed emotivamente quella più insistita, di un discorso tutto tenuto—come è forse giusto per un'occasione fondativa, e in obbedienza d'altronde a una tradizione molto italiana — su un registro sostanzialmente storico, rivolto al passato. Le parole di Berlusconi collocano il Pdl in questa prospettiva: e dunque politicamente esso nasce contro la sinistra, lì è la sua principale ragion d'essere. E la sinistra è il «comunismo », tra i due termini egli stabilisce di fatto una sostanziale equivalenza. La tradizione socialista- riformista, men che meno quella laico-democratica, non esistono; così come non esiste alcun rapporto tra esse e l'esperienza politica dei cattolici (se ho letto bene neppure citata): Craxi, non a caso, è solo un amico personale del presidente del Consiglio che in pratica ha il solo merito di averlo anticipato nello sdoganamento della destra.
Affermando questa centralità dell'anticomunismo, Berlusconi compie la stessa operazione che la prima Repubblica compì con l'antifascismo. Di fronte allo scarso rilievo fondante della Carta costituzionale, al suo ancora più scarso valore ideal- simbolico (una costante storica delle nostre Carte: dallo Statuto albertino alla Carta del lavoro fascista), al vuoto che essa così lascia, egli usa l'anticomunismo allo stesso modo in cui la prima Repubblica e i suoi gruppi dirigenti usarono per quarant'anni l'antifascismo: come reale ideologia fondativa dell'ordine politico e motivo di autoidentificazione legittimante. E perciò, insieme, come motivo di esclusione nei confronti di tutto quanto non può essere ricondotto a essa. Non solo: ma come la prima Repubblica e suoi uomini si sono sempre compiaciuti di riferirsi alla Costituzione qualificandola sì come democratica, ma ancora più spesso attribuendole la qualifica politico- ideologica di «antifascista », allo stesso modo, ma rovesciando l'interpretazione, Berlusconi non nasconde di considerare anche la Costituzione «comunista». «A ideologia, ideologia e mezza» sembra essere ancora oggi il suo motto: anche perché non ignora che il cuore del Paese, alla fin fine, batte molto di più dalla parte dell'anticomunismo che dell'antifascismo.
Ma tutto ciò pone Berlusconi in contraddizione con quello che pure —l'ha detto lui stesso ed è da credergli—costituirebbe un suo effettivo desiderio: essere l'uomo della pacificazione nazionale; soprattutto, rappresentare un vero elemento di novità e di rottura rispetto alla vicenda italiana. Infatti l'antagonismo, la contrapposizione frontale, insiti nel proclama anticomunista mal si conciliano, anzi, diciamolo pure, rendono impossibile ogni proposta di pacificazione. All'opposto, perpetuando antichi baratri divisivi, inasprendo antichi scontri, esse collocano irrimediabilmente il presidente del Consiglio e il Popolo della Libertà nel solco del vecchio, nella storia dell'Italia del Novecento, della sua guerra civile apertasi nel 1915 e che avrebbe dovuto finire (ma ahimè non è finita) nel 1991. Dunque, pur cercando di imprimere sulla fondazione del Popolo della Libertà il significato di un nuovo inizio, pur cercando di indicare questo nuovo inizio nel consolidamento definitivo del bipolarismo e nel declino epocale della sinistra, il discorso di Berlusconi testimonia di come nella sostanza più profonda il suo tentativo urti frontalmente contro la base ideologica vera che egli ha voluto dare alla fondazione suddetta, l'anticomunismo. E di come contro questo scoglio minacci di naufragare.
Il punto è che il presidente del Consiglio appare tutto immerso, biograficamente e culturalmente, nella prima Repubblica. Lì stanno con ogni evidenza i suoi riferimenti ideali, a cominciare dall'antifascismo e dall'anticomunismo. Ma come possono essere l'uno e l'altro compatibili con la rottura, con il nuovo? Lo ha capito Gianfranco Fini, che nel suo discorso al Congresso non ha fatto spazio neppure una volta, se non sbaglio, alla parola comunismo, mentre non casualmente si è impegnato a disegnare le linee programmatiche che il Pdl dovrebbe fare sue da domani; che, invece di intrattenersi sul passato, ha preferito guardare all'avvenire.
ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA PER IL CORRIERE DELLA SERA DEL 28.3.2009
sabato 28 marzo 2009
Ma il nuovo partito non sarà monocratico
Il Popolo della Libertà, in questi giorni, si trasforma in un partito vero. Personalizzato, presidenziale, maggioritario, rivolto alla società, impresa politica di marketing e comunicazione. Un modello imitato anche dal Partito Democratico. Rispetto al quale, però, il PdL sta sicuramente meglio. Non solo perché governa. E il governo continua a godere di un buon grado di consenso popolare. Ma perché, dopo le elezioni di un anno fa, ha allargato ulteriormente il suo vantaggio, che oggi, secondo l'Atlante politico di Demos-coop, è di oltre 13 punti percentuali. Infatti, il Pdl è stimato poco al di sotto del 39%, il Pd poco al di sopra del 26%.
Il Pd, tuttavia, sembra aver interrotto la discesa iniziata lo scorso in autunno e che pareva quasi inarrestabile, visto che negli ultimi mesi era sceso sotto il 24%. In questo periodo, il Pd ha affrontato il distacco di molti elettori. Esuli in patria. Delusi dal partito ma, prima ancora, dalla società che li circonda. Metà degli elettori che lo avevano votato nel 2008, infatti, si sente più lontana dal Pd. Si tratta di un'area composita. Dove coabitano elettori perlopiù giovani, istruiti. Molti di essi laici, residenti nelle zone rosse. Molti, invece, sono orientati al centro. In passato hanno votato per la Margherita e per il Partito Popolare. Metà di essi esprime fiducia in Beppe Grillo. Un'area ibrida, quindi, che riflette in modo esemplare l'integrazione incompiuta del PdL. Le traumatiche dimissioni di Veltroni hanno prodotto un sussulto emotivo. Il rischio - reale - di assistere alla rapida dissoluzione del Pd ha frenato e, anzi, interrotto l'esodo di tanti elettori di centrosinistra verso l'esilio. La scelta di Dario Franceschini sembra aver sopito, almeno fin qui, l'insoddisfazione degli elettori del Pd. Tanto che il 33% di essi ritiene che il prossimo segretario e leader del Pd dovrebbe essere proprio lui. Bersani, secondo nelle preferenze dei Democratici, è indietro di oltre 25 punti percentuali.
Tuttavia, il marchio "presidenziale" del PdL appare molto più netto. Visto che 6 elettori su 10 indicano come leader Silvio Berlusconi. Da cui l'idea che il PdL, più che un nuovo partito, frutto dell'accordo tra FI e AN, costituisca una versione più larga del partito personale del Cavaliere. Anche per la nota riluttanza di Berlusconi a condividere le leve del comando. A sottoporsi alla fatica - a lui insopportabile - della mediazione, della collegialità, del negoziato. Quando si tratta di governare: figurarsi nel partito. Tuttavia, il 18% degli elettori del PdL vorrebbe Gianfranco Fini leader del nuovo partito e il 24% lo indica, comunque, come seconda scelta. Difficile, per questo, pensare a un partito monocefalo. Anche perché le differenze di visione fra gli elettorati dei due 2 "soci fondatori" appaiono ancora visibili. Fra gli ex elettori di AN, infatti, la quota dei sostenitori di Fini alla guida del PdL sale a un terzo; alla pari con Berlusconi. Inoltre, il 35% di essi preferirebbe tornare indietro. AN e FI: divisi e senza alcuna con-fusione.
Il bipartitismo all'italiana, quindi, è ancora lontano. In primo luogo, ha bisogno di due partiti davvero forti. Per ora il Pd non lo è. Appare, invece, un partito in cerca di identità. Ha un elettorato sempre più vecchio. Dove abbondano i pensionati, gli impiegati del settore pubblico, le professioni intellettuali (si spiegherebbe altrimenti tanto accanimento da parte del governo verso gli statali e i professori?). Fra gli elettori del PdL, invece, pesano maggiormente i giovani, i lavoratori dipendenti del privato, i lavoratori autonomi, gli imprenditori, i liberi professionisti. Oltre alle casalinghe. Insomma: il Pdl è trascinato da ceti affluenti, spinto dal dinamismo del privato. Il Pd è anagraficamente vecchio. Esterno ai punti nevralgici del sistema produttivo.
Dal punto di vista dei valori, il PdL interpreta, soprattutto, la domanda di sicurezza. Le paure. Oltre all'insofferenza verso le regole. Marcia fra ronde e diritto a ristrutturare la casa. E' un calco del mutamento sociale che ha investito il paese negli ultimi trent'anni. Dei ceti sociali che lo hanno trainato. In più, ha una visione etica ormai ripiegata su quella della gerarchia ecclesiastica. Sulla vita come sulla famiglia. Da ciò i problemi del bipartitismo all'italiana. Il Pd, Partito Unitario dei Riformisti, deve fare i conti con un elettorato biograficamente e professionalmente conservatore. Poi, ha bisogno di "un'anima", come evoca il titolo del recente saggio scritto da Luigi Manconi (per l'editore "Nutrimenti"). Per ora è più uno "stato d'animo", depresso dal senso di declino che opprime una parte dei suoi elettori. Tuttavia, anche il PdL, il Partito Unitario dei Moderati, deve ancora diventare un "partito". L'integrazione tra i gruppi dirigenti dei due soci fondatori - FI e An - non è scontata. Come non lo è la leadership di Berlusconi. Abituato a non essere discusso. Padrone a "casa sua". Ci si dovrà abituare, visto che Fini non pare intenzionato a fare la parte dell'amministratore di condominio. Inoltre, più che moderato, per i valori che esprime, appare conservatore. Perfino tradizionalista. E, dal punto di vista dell'impianto elettorale, trascinato a Centrosud. La concorrenza con la Lega si farà sentire.
Insomma, il bipartitismo italiano fra PUM e PUR, per ora, è ancora imperfetto.
Ilvo Diamanti per Repubblica
(28 marzo 2009)
giovedì 26 marzo 2009
OBAMA CAMBIA LO STILE DELLA SUA COMUNICAZIONE
Parole da “Professore in capo”, più che da “Comandante in capo”. Così è stata definita dal New York Times la performance di Barack Obama di martedì sera nel suo secondo incontro in prime-time con i rappresentanti della stampa a stelle e strisce. Una conferenza stampa della durata di circa un'ora, nella quale non si è visto il grande comunicatore dalle innegabili capacità oratorie che ha tenuto un discorso al Congresso lo scorso mese, né il presidente in grado di discorrere faccia a faccia con i cittadini in incontri pubblici per tutta l'America, né tantomeno l'inquilino della Casa Bianca capace di scherzare e di divertire il pubblico americano ospite del Tonight Show di Jay Leno. A parlare in diretta tv di fronte a una schiera di giornalisti e circa dieci milioni di telespettatori, martedì sera Barack Obama si è presentato nella East Room della Casa Bianca con toni più simili a quelli di un docente universitario che non a quelli tipici del leader del mondo libero. Pacato e mai sorridente, con lunghi discorsi, a molti osservatori è sembrato “noioso” (“arrogante”, a detta di Karl Rove), quasi “come un insegnante che parla nella quiete di una classe dove gli studenti stanno aspettando nervosamente il suono della campanella” ha scritto Peter Baker sul già citato quotidiano newyorkese. L'appuntamento ha concluso un lungo blitz mediatico (da Jay Leno sulla NBC a “60 Minutes” sulla CBS, passando per la ESPN per discutere di pallacanestro) tenuto dal presidente nella scorsa settimana, effettuato con l'obiettivo di mettere fine all'acceso clima di indignazione legato ai bonus dei dirigenti della AIG e di convincere un sempre più scettico Congresso ad accettare le sue proposte in materia di budget. Nel corso della conferenza stampa, alla quale non sono stati accreditati rappresentanti delle maggiori testate Usa (erano assenti Washington Post, NY Times, Wall Street Journal, USA Today), Obama ha difeso a spada tratta i suoi provvedimenti in materia economica, riaffermando il suo desiderio di “combattere la crisi su ogni fronte” e chiedendo agli americani una buona dose di comprensione e pazienza, nell'attesa dell'uscita del Paese dalla recessione. Secondo l'editorialista liberal John Dickerson, il non semplice compito del presidente era “convincere le persone a essere pazienti riguardo alla loro indignazione per il continuo 'bailout' di Wall Street” e, al tempo stesso, “convincerle a essere impazienti nei confronti di riforme fiscali a lungo termine che per anni potrebbero non avere effetti su di loro”. Il tutto, per Dickerson, affiancato al ruolo di “psicoterapeuta nazionale”, al fine di “gestire la rabbia” del popolo americano in questo periodo di crisi. Poche le domande dei reporter sulla politica estera, dato “stupefacente” per la politologa della CNN Gloria Borger, che ha sottolineato il mancato trattamento di questioni quali Iran, Iraq o Afghanistan e i soli accenni a Messico, Cina e rapporto tra Israele e Palestina. Una performance generale, quella di Obama, giudicata dai più come piatta e opaca, ma che non intacca minimamente la posizione di potere rivestita dal presidente e dai Democratici. Sebbene la risposta repubblicana, nuovamente per voce del governatore della Louisiana Bobby Jindal, sia stata più convincente dell'ultimo, disastroso, tentativo (in cui Jindal fu ridicolizzato dai media e paragonato a un attore comico), si registra ancora un'allarmante assenza di leadership tra le fila del GOP. Partito che, aldilà delle dure critiche della stampa conservatrice, nonostante l'opposizione senza se e senza ma alle politiche presidenziali, è incapace di lanciare volti nuovi e carismatici – fenomeno che ha fatto emergere figure secondarie e quasi dannose quali Rush Limbaugh, Joe l'Idraulico o Cindy McCain, figlia del senatore dell'Arizona – e di fare proposte alternative a quelle della maggioranza. “Piuttosto che chiamare il suo programma 'follia di marzo' (riferimento alla “March Madness” delle finali di basket collegiale NdR), perché non presentare una contro-proposta?” si è lamentato dei Repubblicani Robert M. Eisinger, docente di Scienze Politiche all'Università Lewis & Clark di Portland, evidenziando la scarsa lungimiranza e la mancata proposta di alternative da parte della minoranza. Paradossalmente, l'unica vera opposizione alla Casa Bianca proviene in questi giorni da elementi interni alla stessa maggioranza, con il fronte liberal sempre più insofferente dei Democratici moderati e il Senatore Kent Conrad (North Dakota), centrista a capo della Commissione Budget, deciso a ridurre il piano economico del presidente. Scontri di bassa o minima entità, che non fanno perdere il sonno a Barack Obama. Il quale non ha mancato di rilevare lui stesso lo stato di malattia dei suoi avversari: “Il Partito Repubblicano non ha ancora scoperto che cosa vuole rappresentare”. Situazione vantaggiosa che gli permette di agire pressoché indisturbato e, come dimostrato martedì sera, persino risultare noioso agli americani.
L'Opinione delle Libertà Edizione 62 di Giovedì 26 Marzo 2009 www.opinione.it
lunedì 23 marzo 2009
Povero Obama, crede che la geopolitica sia un grande Facebook!
Caro popolo iraniano, cari leader della Repubblica islamica e così via... Che Dio gliela mandi buona. E' nel nostro interesse evitare nuove umiliazioni all'occidente, dopo i disastri di Jimmy Carter nella seconda metà degli anni Settanta.
Un risveglio diplomatico internazionale, capace di stabilizzare l'Afghanistan, di compiere fino in fondo la missione irachena di rinascita costituzionale, di dare sicurezza a Israele e pace, pane e democrazia ai palestinesi, soprattutto di rassicurare il medio oriente e il mondo intorno al nucleare di Ahmadinejad: che volete di più dalla vita, che cosa c'è di meglio della promessa di Barack Obama?
E se il costo di tutta l'operazione fossero due complimenti ai capi della rivoluzione fatti filtrare su youtube, meglio così.
John McCain, un quiet american da romanzo, non ha polemizzato con l'uomo che lo sconfisse alle elezioni, lo ha anzi sostenuto nel corso di un viaggio in Europa, dove le aspettative e la buona volontà verso il tentativo obamiano di cambiare registro nelle relazioni mondiali sono notevoli. Dick Cheney sembra meno propenso a fargliela passare liscia, visto che ripete un paio di volte alla settimana che l'America oggi è meno sicura di ieri, e con qualche argomento a proprio favore.
Ma tocca a tutte le persone sensate, sebbene le alzate di spalle dell'ayatollah Khamenei in risposta al messaggino del presidente non promettano nulla di buono, mettersi nell'attitudine della prudenza: wait and see.
La saga dei bonus sta lì a dimostrare che non bastano personal charm, studi harvardiani e abilità politica della scuola di Chicago per fare di un presidente eletto un leader effettivo.
La Aig ha ricevuto oltre 170 miliardi di dollari di aiuti dallo stato, e il governo federale è virtualmente il nuovo assicuratore globale, il nuovo padrone della ditta. Solo che prima degli aiuti il personale della compagnia, sia quello che se ne è andato in fama di mela marcia sia quello di eccezionale valore che è rimasto e la sta rimettendo in piedi, ha stipulato per contratto pagamenti per 160 milioni di dollari e spiccioli, legati alle performance straordinarie di prima della crisi, incentivi ieri considerati veicoli di stabilità e dinamismo del settore finanziario, oggi giudicati corporate excess, insomma prove di avidità devastanti per l'interesse pubblico.
Di qui la rivolta della classe media, che ha un peso elettorale decisivo in un paese in cui per il Congresso si vota ogni due anni, rinnovando totalmente un ramo e per un terzo l'altro.
Vogliamo quei bonus indietro, nelle casse dello stato dove sta il denaro uscito dalle tasche dei contribuenti.
Quando i contratti sono stati firmati, Tim Geithner, il già capo della Federal Reserve di New York e ora uomo di Obama al Tesoro, si è voltato dall'altra parte.
Quando la Casa Bianca e il Tesoro hanno varato nuovi aiuti del pacchetto di stimolo all'Aig, per altre decine di miliardi di dollari, il furbissimo Geithner ha evitato di inserire un comma anti-bonus, come chiedevano i democratici più radicali del Congresso.
E ora la Casa Bianca è nei pasticci, e il presidente tenta di eludere con frasette di circostanza questa doppia rivolta in atto: l'onda populista che vuole consacrato il principio secondo cui la rappresentanza controlla ad ogni costo la politica fiscale del governo (no taxation without representation); e la ribellione della finanza contro misure retroattive, probabilmente incostituzionali, capaci di stracciare contratti validi e di abbattere o affondare la struttura portante di una delle tre grandi industrie americane (la finanza, seguita in ordine d'importanza dai media e dalla tecnologia).
Di tutto questo dai giornali del mainstream europeo-latino, in particolare italiano, saprete poco e male: Obama infatti non è un oggetto di analisi politica, è un oggetto di puro amore come Bush era un obiettivo di puro odio.
Giuliano Ferrara
Il Foglio
venerdì 20 marzo 2009
GAD IL MONACO
L'apologo mi è tornato alla mente nel leggere che l'elegantissimo Gad Lerner ha criticato sui giornali le sciarpe ipertrofiche di Carlo Rossella, giudicandole un insulto alla miseria in tempi di vacche magre (per tacer delle pecore). Sarà vero, ma colpisce che a rilevarlo sia un uomo che va dal sarto tutti i mesi e che, quanto ad amore per gli specchi, se la batte alla pari con la regina di Biancaneve.
Le ossessioni nascondono sempre un'attrazione inconfessabile per l'oggetto delle nostre critiche. È il principio della risonanza: perché una corda vibri occorre che trovi un corrispettivo dentro di noi. Così succede che uno passi la giovinezza a contestare i capitalisti e l'età adulta ad andarci a cena insieme. E che, volendo individuare un simbolo della mancanza di sobrietà, punti l'indice sulle sciarpe invece che sugli stipendi, per esempio dei conduttori televisivi. Naturalmente il principio della risonanza non contempla eccezioni. Se ne deduce che mi occupo di Lerner perché vorrei essere ricco, elegante, ma soprattutto bello come lui.
Massimo Gramellini da La Stampa del 20.3.2009
Il messaggio di Obama all'Iran
"Oggi voglio fare avere i miei migliori auguri a tutti coloro i quali celebrano il Nowruz in tutto il mondo. Questa festa è insieme un antico rituale e un momento di rinnovamento, ed io spero che voi possiate godere di questo momento particolare dell'anno con i vostri amici e familiari.
In particolare vorrei parlare direttamente al popolo e ai leader della Repubblica islamica dell'Iran. Nowruz è solo una parte della vostra grande e celebrate cultura. Durante molti secoli la vostra arte, la musica, la letteratura e l'innovazione hanno creato un mondo migliore e più bello. Qui negli Stati Uniti la nostra comunità è stata favorita dal contributo degli Iraniano-Americani: sappiamo che voi siete una grande civiltà, e i vostri risultati hanno guadagnato il rispetto degli Stati Uniti e del mondo.
Per quasi tre decenni le relazioni fra i nostri due paesi sono state tese, ma durante questa festa ci viene ricordato del comune destino che ci tiene legati insieme. Voi celebrerete il vostro Nuovo Anno nello stesso modo in cui noi americani ricordiamo le nostre feste, radunandosi in famiglia e con gli amici, scambiandosi doni e racconti, guardando al futuro con un rinnovato senso di speranza.
Queste celebrazioni custodiscono la promessa di un nuovo giorno, di nuove opportunità per i nostri figli, di sicurezza per le nostre famiglie, progresso per le nostre comunità e pace tra le nazioni. Sono speranze condivise, sono sogni comuni. Per questo in questa stagioni di nuovi inizi vorrei parlare chiaramente ai leader iraniani. Tra di noi esistono serie divergenze che si sono accresciute col tempo. La mia amministrazione si è impegnata a una diplomazia che risponda a tutte le questioni aperte tra di noi, per costruire legami costruttivi fra gli Stati Uniti, l'Iran e la comunità internazionale. Questo processo non andrà avanti fra minacce. Noi vogliamo invece un impegno che sia onesto e fondato sul rispetto reciproco.
Voi avete una scelta. Gli Stati Uniti vogliono che la Repubblica islamica dell'Iran assuma il suo giusto posto nella comunità delle nazioni. Voi avete quel diritto - ma questo comporta anche delle responsabilità, quel posto non può essere conquistato attraverso l'uso delle armi o del terrorismo, ma piuttosto con azioni pacifiche che dimostrino la vera grandezza del popolo e della civiltà iraniana. La misura di questa grandezza non è quella di distruggere, è la vostra consolidata capacità di costruire e di creare.
Per questo in occasione del Nuovo Anno, voglio che voi, il popolo e i leader dell'Iran, possiate guardare al futuro che noi vogliamo. E' un futuro di scambi rinnovati fra i nostri popoli, con maggiori opportunità di partnership e commercio. E' un futuro in cui le vecchie divisioni sono superate, in cui voi, I vostri vicini e in generale il mondo possiate vivere con maggiore sicurezza, in pace.
Io so che tutto questo non sarà raggiunto facilmente, ci sono coloro i quali insistono che le nostre relazioni continuino ad essere segnate dalle nostre differenze. Ma ricordiamoci delle parole che il poeta Saadi pronunciò tanti anni fa: "I figli di Adamo sono membri uno dell'altro, essendo stati creati in un'unica essenza".
Con l'arrivo di una nuova stagione ci viene ricordata la preziosa umanità che noi tutti condividiamo. E noi ancora una volta invochiamo questo spirito mentre facciamo la promessa di un nuovo inizio. Grazie e Eid-eh Shoma Mobarak (auguri per la vostra festa)".
lunedì 9 marzo 2009
TELEPROMPTER
Ora, eloquenza e retorica obamiane (che sono e rimangono straordinarie, anche se scoprissimo che a Barack dà la voce un ventriloquo) non sono in discussione per questo; anzi, volendo, si potrebbe rimanere ammaliati dalle sue capacità " attoriali": e chi si è mai accorto che stava leggendo?
A cura di Alessandro Giberti per "Il Sole 24 Ore"
mercoledì 4 marzo 2009
Greenberg vs. Penn: When Pollsters Attack!
In the book, Greenberg criticizes Penn's work for Blair, calling his methods "errant" and "rigged." He adds that Penn's failure to provide "the information normally delivered by a professional research organization" betrayed his client, boxing Blair into the pursuit of a mythical "married mums" vote.
Greenberg also has choice words for Penn's recent book "Microtrends: The Small Forces Behind Tomorrow's Big Changes," intoning, "If I ever come to think about my work in such terms, then take me out and shoot me."
Asked by Mark Blumenthal of pollster.com to respond, Penn didn't hold back, accusing Greenberg of one of the most embarrassing failings in Washington: "Stan didn't [have the information] because he was not in the loop." He later added that Greenberg's attack amounts to "more sour grapes than reality."
The crossfire has upended the typical public chumminess of Washington's pollerati. From across the pond, Philip Gould, who as an adviser to Blair's Labour Party worked with both men, tried to mediate, e-mailing pollster.com that Greenberg and Penn "are very different pollsters ... but both have significant contributions to make."
Try telling them that.
By Jon Cohen