lunedì 31 marzo 2008
Cos’è il voto disgiunto
SICILY BY SB
La campagna inguinale
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Lungi da me la voglia di contribuire al dileggio del Made In Italy. Perciò la lettura di questo articolo è severamente vietata agli stranieri, in particolare ai razziatori di pulzelle piemontarde e compagnie aeree. Ai francesi, insomma, che secondo Cocteau erano italiani di cattivo umore, ma che a forza di vedere di cattivo umore noi, stanno cominciando a migliorare il loro. Adesso che siamo rimasti in famiglia, vi comunico che non parleremo di rifiuti o mozzarelle, ma di mutande. E non di Napoli, ma di un’elegante città del Nordovest della quale non faccio il nome (Augusta) ma solo il cognome: Taurinorum. In quello che fu il salotto di Cavour, la propaganda dei partiti mira senza paura al cuore degli elettori, magari appena più sotto. I popolari della libertà regalano slip bianchi con l’invito «Rialzati Italia», ma forse nell’approssimarsi del voto vinceranno la timidezza innata e aggiungeranno una confezione di viagra. La Sinistra Arcobaleno offre cartine per farsi le canne e preservativi. La Lega, lecca lecca verdi «al sapor di menta e non di cetriolo» (par di vederlo, l’autore del raffinato slogan, piegato dal ridere per la battuta). Ancora nessuna notizia da democratici e dintorni: chessò, reggicalze coi gancetti a forma di V, manette erotiche autografabili da Di Pietro e stivaloni che rechino tatuato in pelle «Si può fare», le parole con cui Frankenstein junior rianimava il mostro nel film di Mel Brooks. Speriamo se ne astengano, almeno loro. Gli altri invece non hanno proprio resistito alla tentazione di darmi un buon motivo per non votarli. Massimo Gramellini |
BOCCONI DI MOZZARELLA
In realtà il termine qualunquismo deve essere riconsiderato, estendendolo ben al di là delle sue origini storiche: quando venne assunto orgogliosamente, nel l946, da Guglielmo Giannini che ne fece il vessillo di una contestazione reazionaria della Repubblica e delle sue fresche istituzioni. Per quel partito fu una effimera stagione, cancellata da una vivace partecipazione popolare al dibattito politico e al confronto elettorale.
Negli ultimi anni, il vento è cambiato e, senza disconoscere le mende dei nostri concittadini, inclini alla strenua difesa del «particulare», la prima responsabilità va cercata nella classe politica che li ha rappresentati. In quello che potrebbe essere definito il qualunquismo che viene dall’alto. Non mi riferisco all’attenuazione del contrasto ideologico, al modo più disincantato e civile di contrapporre i valori della libertà e dell’uguaglianza. Penso piuttosto ai generici programmi che vengono proposti dalle due parti in un imbarazzante gioco al rialzo, si tratti delle sorti dell’Alitalia, delle necessarie infrastrutture, della lotta alla criminalità.
Penso, ma è soltanto l’ultimo dato di cronaca, all’intimazione rivolta da Veltroni alla ‘ndrangheta di non votare per il Pd, che è deciso ad annientarla. Ovviamente apprezzabile, ma non tale da apprestare concreti rimedi a certe complicità. Mentre suona vagamente surreale la proposta di creare una specie di Bocconi per aspiranti manager in una regione dove si sono avuti sei ammazzati in quattro giorni. È un esempio, che non annulla altri meriti di Veltroni (come la rottura a sinistra). E nessuno dei candidati premier sfugge all’esorbitanza ed evanescenza programmatica. C’è da sperare che non incoraggino troppe astensioni tra i «qualunquisti» di ogni ordine e grado.
giovedì 27 marzo 2008
SING SONG
mercoledì 26 marzo 2008
martedì 25 marzo 2008
Mass & Media
BODY IN POLITICS
VOLARE E VOTARE
di Angelo Panebianco
Fino a qualche giorno fa niente sembrava in grado di animare la campagna elettorale. Si parlava soprattutto delle somiglianze fra i programmi dei due principali contendenti. Poi è esplosa la questione Alitalia. A tre settimane dal voto, è diventato il tema su cui le forze politiche (a cominciare da Berlusconi, con la sua proposta di una cordata italiana da contrapporre ad Air France) sembrano puntare per mettere in difficoltà gli avversari. Niente di peggio poteva accadere poiché, come ha osservato Sergio Romano (Corriere, 23 marzo), una questione così grave richiederebbe di essere trattata con una serietà che è difficile ottenere da forze politiche impegnate a sgambettarsi in una campagna elettorale.
Si intrecciano tre questioni. La prima riguarda i giochi interni al sistema dei partiti. Si sono delineate alleanze trasversali in cui ciascuno crede di avere la propria convenienza. Se Berlusconi, a nome del «partito del Nord», cerca di mettere in difficoltà Veltroni, i piccoli, a loro volta, hanno trovato un varco per picchiare duro sui grandi. Così, la Sinistra Arcobaleno apre a Berlusconi su Alitalia contro il Partito democratico (suo diretto concorrente a sinistra), mentre Casini, concorrente al centro del Popolo della Libertà, polemizza con Berlusconi e si schiera col Partito democratico.
La seconda questione (la più esplosiva, almeno in prospettiva) riguarda la spaccatura Nord/Sud, Milano contro Roma. E’ il problema del declassamento di Malpensa e delle sue vere o presunte conseguenze per lo sviluppo del Nord. E’ difficile non notare che le divisioni politiche su Malpensa rispecchiano abbastanza fedelmente la geografia elettorale italiana.
Infine, c’è la questione sindacale. I sindacati, corresponsabili del disastro Alitalia, cercano anch’essi di sfruttare le divisioni politiche e rinviare il momento in cui pagare il conto degli errori accumulati. Sarebbe interessante capire se davvero essi credono che i giochi del passato possano essere riprodotti all’infinito, se credono che, senza la vendita a un compratore credibile, il fallimento dell’azienda possa essere evitato.
Naturalmente, i sindacati possono ancora contare su sponde politiche di un certo peso (come segnala la dissociazione del ministro Bianchi dalla posizione ufficiale del governo Prodi). E’ un pasticcio colossale nel quale, per giunta, è difficile stabilire chi guadagnerà elettoralmente e chi perderà. Prendiamo il caso dell'elettorato del Nord. Ci sono certamente cittadini sensibili alla difesa di Malpensa da parte della Lega e di Forza Italia così come ce ne sono molti affezionati all'idea della «compagnia di bandiera». Ma ce ne sono anche altri che si domandano se non sia peggio lasciare le cose come stanno, col rischio di continuare a far pesare sui contribuenti (magari anche in violazione delle regole europee) i costi di un’azienda in dissesto che si sarebbe dovuto far fallire oppure vendere già molti anni or sono.
Pessimo argomento da campagna elettorale, il caso Alitalia è una buona dimostrazione di cosa succede quando i dibattiti accademici su «statalismo e liberismo» lasciano il campo alla politica vera e alla lotta sempre prosaica (anche se ammantata di sacri principi) fra gli interessi organizzati, aziendali, territoriali o sindacali che siano.
giovedì 20 marzo 2008
ISSUES
Le poche anime candide cercano in queste ore un piccolo riscatto morale nella causa tibetana, ed è già tanto. C’è da sperare che il loro numero cresca e bisogna augurarsi che qualcuno rompa con decisione la timida afasia proiettata sull’eventualità di punire la Cina. Epperò a guardare dentro casa non si può dire che faccia difetto il materiale parlante sul quale costruire le proprie vittorie o arrischiare fragranti sconfitte. Basta lavorare per sottrazione, scansare la fuffa e darsi un decoro.
mercoledì 19 marzo 2008
Holy Week
Lo scrivo col massimo rispetto, ma è come se il consiglio della Federcalcio si riunisse per discutere il prezzo del pane e quello della Confcommercio la riforma della serie A. Si dirà: i vescovi hanno diritto di esprimersi sui temi civili e politici. Verissimo, però anche sui temi religiosi. Non dico sempre, ma almeno nei ritagli di tempo fra una crociata contro i matrimoni gay e un dibattito intorno alla fecondazione artificiale. Garantisco alle Eminenze che ci sono persone più interessate alla critica neotestamentaria che alla riforma della legge sull’aborto, che per molti di noi i segreti del sistema solare restano più intriganti di quelli del sistema proporzionale e che le domande eterne sul senso della vita, del dolore e della morte coinvolgono un uditorio più vasto di quello che freme per sapere quanti partiti supereranno il quorum dell’otto per cento al Senato. Se però monsignor Betori continua a commentarmi il Porcellum, del Vangelo chi me ne parla, Calderoli?
martedì 18 marzo 2008
HOLY JOE
offrire più democrazia al Paese
Sarebbe «auspicabile» cambiare la vigente legge elettorale, secondo monsignor Giuseppe Betori, «per tornare a dare un pò di democrazia a questo Paese». Senza le preferenze «c’è un potere oligarchico di fatto», ha detto il segretario generale della Cei durante la conferenza stampa che ha concluso i lavori del Consiglio permanente dei vescovi italiani. «Il prossimo Parlamento dovrebbe cambiare la legge elettorale e ridare la scelta ai cittadini», il suo auspicio.
Monsignor Betori ha poi ribadito che la Chiesa cattolica «non si schiera per nessun partito». «A tutti i cattolici, candidati ed eletti, richiamiamo i valori fondamentali come punti di riferimento irrinunciabili», ha spiegato in conferenza stampa il presule in riferimento alle questioni "antropologiche", termine con il quale si intendono le problematiche relative alla vita e alla famiglia. A chi domandava come comportarsi di fronte a liste elettorali, come quelle del Partito democratico, che presentano candidati radicali ostili ai valori cattolici, Betori, dopo aver caldeggiato una modifica della vigente legge elettorale, ha spiegato: «Bisogna soppesare il programma e la globalità delle persone di ogni lista elettorale, e scegliere quelle che hanno maggior speranza di difendere i valori che i cattolici ritengono intangibili». «I valori - ha tenuto ad aggiungere Betori - si tengono tutti insieme, non si possono separare il valore della solidarietà dal valore della vita».
Secondo il segretario generale della Conferenza episcopale italiana è anche necessario «svelenire il clima» della campagna elettorale. Il presule ha precisato che l’appello ad un impegno comune sul «problema della spesa», recentemente formulato dal cardinale Angelo Bagnasco, non era un appoggio alle ’larghe intesè. «Il presidente della Cei ha sottolineato che ciascuna parte politica agisce nella propria specifica collocazione», ha ricordato. «Le parole di Bagnasco andavano nella direzione più volte percorsa dalla Cei, così come da alcune istituzioni della Repubblica italiana, di svelenire il clima. Su questo non solo il cardinale, ma tutto il Consiglio permanente della Cei, ritiene che sia possibile collaborare, ciascuno nel proprio ruolo, senza farsi del male». Monsignor Betori ha poi citato le tre associazioni cattoliche impegnate in materia sociale, bioetica e di politiche famigliari - Retinopera, Scienza e vita, Forum delle famiglie - sottolineando che «anche in futuro svolgeranno un ruolo di presenza e coordinamento su queste tematiche, che, a termine delle elezioni, avranno bisogno di un sostegno trasversale».
lunedì 17 marzo 2008
USA FOREVER
Non so se l'ho già raccontata questa storia. Comunque è questa. Quando sono andata negli Usa, lo scorso gennaio (Iowa's primaries), al JFK - nella sala arrivi - c'era il solito svolazzare di cartelli con i nomi più bizzarri in tutte le lingue del mondo. Tra questi ne spiccava uno con scritto "Saldi a New York". Mi si è stretto il cuore. Il mio anonimato era fallito così miseramente ancor prima di metter piedi su un taxi? Grrrr..... E se il 12 aprile qualcuno inalberasse un cartello con su scritto "Fuga dalle urne"? Sempre lì, stesso posto. Magari nel pacchetto c'è anche il nuovo Plaza e l'e-phone. Bisogna che ne parli con un tour operator.
PRIVEE
La fattoria
Comunque sia, questa è la campagna elettorale più noiosa (già scritto?) a cui abbia mai assistito. DabliuVì è sempre più simile a un post curato di campagna: una sintesi ideologica e morfologica, per lui che se ne intende di cinema, tra Camillo e don Peppone con una certa prevalenza di quest'ultimo. Berlusconi sembra uno zio di Corona appena rientrato da Chicago, Casini (oddio, quando sbraita sputa e gli viene la bava....orrore!) è in preda a un delirio di inutile onnipotenza, Storace scherza con il fuoco (eh eh eh), l'abisso tra lo charme di Bertinotti e quello degli operai è sempre più profondo...
I candidati di conseguenza traccheggiano. Chissà che tempo farà in quel week end di aprile!
PERCHE'?
Coup de teatre? Narcisismo? Deriva a perdere? Urgenza politica?
Se non fossi abbastanza cinica direi che ne soffro.
mercoledì 12 marzo 2008
La sai l'ultima?
ATTENTI AL VOTO!
Non è una dilemma facile da risolvere quello che si presenta ai poveri elettori che, nel votare, tengono d'occhio anche i nomi dei candidati delle varie liste. L'incertezza è dovuta al fatto che i leader, locali o nazionali, si sono impegnati - mai come in questi ultimi giorni - a inserire nelle proprie liste persone che con loro (teoricamente) non avrebbero niente a che fare. Succede cioè che i candidati premier (nazionali e locali) del centrosinistra abbiano fatto carte false per avere in lista quelli che a rigor di logica dovrebbero stare dall'altra parte e viceversa. Ne risulta che i candidati scoprono di avere come avversari, in quanto a loro volta candidati, proprio quelli ai quali pensavano di andare a chiedere il voto. Insomma, un pasticcio che ormai si ripete di elezione in elezione e soprattutto da quando sono scese in campo le cosiddette LISTE CIVICHE, uno spazio politico ideale dove infilare tutto quel mondo che - in condizioni di salubre distacco - da quella parte non ci sarebbe mai stato. Si spiega così perchè sia nelle liste del partito democratico che in quelle del centro destra siano stati inseriti imprenditori e operai, celebrities e via dicendo. Come dire che la gran parte dei candidati sulla piazza sono lì ma potrebbero essere tranquillamente là. Non è che ovviamente tutto questo giovi alla causa del buon elettore che, un po' di disorientamento inizia a provarlo e che vede nelle liste più generici che prodotti di marca.
E' una specie di hard discount della politica quello che ci è stato messo sotto il naso, prodotti appunto generici, che non fanno nè bene e nè male. Sono lì, tanto perchè di sì. Eppoi, vai a vedere che alla fine non ne trarranno anche dei vantaggi e, se non da quella loro temporanea parte, almeno dall'altra. Non si sai mai. Tanto non ci sono più le ideologie e i programmi sono da tutte le parti gli stessi. Che male c'è?
martedì 11 marzo 2008
L’eterna rimozione
C’è qualcosa di leggermente inquietante nel modo in cui da qualche settimana il Partito democratico ha preso a trattare Romano Prodi. Ciò che sto dicendo non riguarda Walter Veltroni, il quale anzi non manca di ricordare spesso e con accenti positivi l’opera del presidente del Consiglio ancora in carica. Ma il Pd no. Il Pd sembra aver cancellato Prodi dalla propria memoria, averlo consegnato ad un oblio imbarazzato e timoroso: sebbene recentissimo, un ricordo che è meglio seppellire nel passato.
E' un fenomeno che ricorda per un verso il meccanismo del capro espiatorio, per l’altro verso lo scongiuro. Per il Partito democratico Prodi evoca evidentemente un’esperienza di governo non felice, piena di contrasti, povera di risultati rispetto alle attese, che potrebbe avere conseguenze negative sul piano elettorale. Ma resta il fatto che di quell’esperienza il Pd nella persona dei suoi soci fondatori è stato iniziatore, sostenitore, protagonista fino all’ultimo. Com’è possibile dimenticarlo? Com’è possibile che lo faccia in modo tutto particolare quella componente maggioritaria del partito costituita dagli ex diesse?
Non credo che si tratti solo di un calcolo di piccolo cabotaggio politico; la risposta va cercata più a fondo. Va cercata cioè nella tradizione specifica di quella parte del Pd di cui sopra che affonda le radici nelle vicende del comunismo. Che da quelle vicende, pure così lontane, ha acquistato a suo tempo abiti psicologici e modelli di pensiero, ha ereditato una vera e propria antropologia politica. Tra le cui caratteristiche una ne spicca che riguarda il discorso che sto facendo: l’uso frequente e sapiente della rimozione. Su tutto ciò che del passato appariva di volta in volta negativo, o comunque contraddittorio rispetto alle esigenze dell’oggi, era d’uso stendere il velo del silenzio. Si trattasse del contrasto tra Gramsci e Togliatti, di Porzus o delle mille implicazioni dello stalinismo, bisognava fare come se nulla fosse, dimenticare; e ricordare semmai solo quando il tempo trascorso avesse reso politicamente innocuo il ricordo: l’importante era salvare l’immagine dell’insieme, scaricare il partito di ogni responsabilità o errore. Se qualcuno si era messo di traverso o qualcosa non era andata per il verso giusto, anzi in modo giudicato sbagliatissimo, peggio per lui o per la cosa: veniva ex abrupto cacciato dalla storia. A volte con ignominia a volte no, a seconda dei casi. A Prodi, insomma, tocca la stessa sorte toccata a Bordiga, a Cucchi e Magnani, a Occhetto: semplicemente non è mai esistito.
E sì che invece la funzione sua e dei suoi amici rispetto agli eredi della tradizione comunista è stata davvero preziosa. Se ci si pensa bene, infatti, sono stati Prodi e i cattolici cosiddetti democratici, è stata proprio la loro presenza, la sponda politica da essi offerta, che ha consentito agli ex Pci di non diventare ciò che a nessun costo la maggioranza di essi, in obbedienza al proprio codice genetico, voleva diventare: socialdemocratici. Che cioè ha evitato quello che altrimenti sarebbe stato l’esito ovvio, direi inevitabile, della fine della loro vicenda.
Grazie invece alla presenza di quella peculiare corrente del cattolicesimo politico, all’interesse vivissimo da essa sempre coltivato per la vicenda comunista, e dunque all’incontro reciproco scritto in un certo senso nelle cose, grazie a tutto ciò, gli ex Pci sono stati in grado di uscire dalla strettoia in cui la loro storia li aveva cacciati, potendo dar vita all’ennesima anomalia italiana. Ad un’entità politica, il Partito democratico, della cui denominazione (e della cui sostanza), come si sa, non vi è traccia in alcun altro lessico della sinistra europeo-occidentale. Nel quale partito Prodi e i cattolici «democratici» hanno sì potuto trovare posto, ma come soci di minoranza, e per giunta privi di accesso a due strumenti decisivi come le risorse economiche e l’apparato organizzativo. E quindi essendo costretti a saggiare sulla propria pelle quale merce rara sia in politica la gratitudine; quanto i rapporti di forza siano destinati, in politica, ad avere regolarmente la meglio sulla verità e sulla giustizia. di Ernesto Galli della Loggia
lunedì 10 marzo 2008
La trattativa tipo: «Non mi dai un posto sicuro? Allora cambio partito»
Il signore si chiama Gesuele Vilasi, è consigliere regionale in Calabria per Forza Italia, non è affatto un politico peggiore di altri e naturalmente resta da stabilire se sia più scortese origliare oppure strillare in treno al punto che, per chi è seduto di fronte, diventi impossibile non ascoltare. «Mi passa l’onorevole Bondi, per favore?... Ah, è in riunione... Era per le liste». Fa un altro numero. «Pronto, sono l’onorevole Vilasi, cercavo il dottor Letta. E’ in riunione? Dica che ho chiamato, grazie». Poi è uno dei suoi telefonini a squillare: «Ciao Giancarlo. Ma io lo so, figurati se non lo so che vogliono scaricare tutto sul coordinatore regionale del partito. Ma quest’operazione l’ha fatta Verdelli e allora i voti a Foti glieli viene a trovare lui perché li ho avvisati: se lo candidano, io domattina sono in lista con l’Udc alla Camera e al Senato».
Comprensibilmente, l’onorevole Vilasi – come già detto nient’affatto peggiore di altri – pretende che a buttar fuori dalle liste (e, presumibilmente, dal Parlamento) il candidato Nino Foti, sia Marcello Dell’Utri, visto che infatti il popolo non può. Voti la lista e ti tocca eleggere anche chi non vuoi, se si trova «in buona posizione»: una specie di o mangi la ministra o salti dalla finestra... Potere assoluto in mano ormai nemmeno più alle segreterie dei partiti, ma ai soli leader: alla cui saggezza è affidata la composizione non soltanto delle loro liste, ma del nostro Parlamento. Se ci si riflette, a parte il resto, è anche questo – l’impossibilità per l’elettore di esprimere un giudizio su chi è presente in lista – che può permettere le candidature (l’elezione) contemporanee di Matteo Colaninno e della segretaria del ministro Fioroni, della figlia di Totò Cardinale e dell’addetta stampa di Prodi. E produrre l’arrivo in Parlamento di un’altra «letteronza» o di una star tv. Infatti, non c’è verso: se vuoi votare questo o quel partito ti tocca eleggere per forza una o uno così. Insomma, scelto da altri.
Gesuele Vilasi lo sa, e si regola di conseguenza. Altra telefonata: «Trecento fax, glieli ho fatti mandare stanotte perché sono rimasti chiusi in due o tre a fare le liste fino alle quattro del mattino. Loro lo candidano e noi ce ne andiamo. E per quanto mi riguarda, Senato e Camera con l’Udc». Che magari è perfino l’aspetto di questa storia che infastidirebbe di più il Cavaliere: proprio con l’Udc di Casini! E forse perfino eletto: perché tanto anche chi aveva deciso di votare per Casini prima dell’ipotetico arrivo di Vilasi – e volesse continuare a farlo, naturalmente – non potrà che votare pure per l’ex «nemico» di Forza Italia.
Questa storia, in tutta evidenza, una morale non ce l’ha. Il cosiddetto voto di preferenza fu un fattore decisivo in quel dilagare di corruzione e degenerazione che portò al crollo della Prima Repubblica: fiumi di danaro in manifestini e faccioni, corti di clientes, spese folli da far rientrare con tangenti e finanziamenti illeciti. Mente chi finge di non ricordare. Ma anche così, è evidente, non può più andare. E quel che sorprende, è l’assenza di consapevolezza di quanto la perdurante imposizione non più di semplici candidati ma di eletti, gonfi le vele dell’antipolitica. E contraddica ogni proposito di rinnovamento. Forse nemmeno i leader ne possono più di un sistema così, che alle fine – in fondo - espone soprattutto loro. Ma allora, tra i tanti impegni che vanno assumendo con gli italiani in questa campagna elettorale, ribadiscano magari con più forza che questa legge elettorale la cambieranno, che quello in corso è l’ultimo «mercato». E che lo faranno in fretta, cioè prima di entrare nel solito e incontrollabile clima pre-referendum.
Preveggenza
In questo momento, sono le 10.30 del 10 marzo, dal sito de La Repubblica ho tagliato e poi incollato qui queste righe.
Sondaggio Ipr Marketing per Repubblica.it sul voto. A Montecitorio Pdl avanti di 7 punti. Ma a Palazzo Madama sono 4,7. Senza la Lega, presente solo al Nord, il Pd è avanti. Veltroni a Udine: "Basta maggioranze eterogenee". Prodi: "Addio politica" di MARCO BRACCONI
Si dà il caso che Veltroni sarà a Udine oggi pomeriggio. Potenza degli uffici stampa e dei giornali compiacenti!
mercoledì 5 marzo 2008
La vittoria dei contenitori
ELEZIONI E APPARTENENZE di Giuseppe De Rita
In una campagna elettorale per il momento deludente c'è un aspetto che non è stato adeguatamente messo a fuoco: nelle nostre vicende sociopolitiche il fattore
appartenenza sta irrevocabilmente vincendo sul fattore
identità.
Molte formazioni a lungo identitarie tendono infatti a intrupparsi in appartenenze di più tenue caratterizzazione. L'identità radicale, forse per anni la più marcata, si stempera in una potente lista elettorale sposandone le proposte più lontane dalla propria storia; l'identità post-fascista, che pure ha attraversato l'Italia degli ultimi sessanta anni, si scioglie in un grande raggruppamento di destra, fatalmente populista e un po' generico; l'identità socialista, storicamente ancora più pesante, rischia di scomparire dalla scena se non entra nel Partito democratico. E mette conto di ricordare che in quest'ultimo sono confluite, alla faticosa ricerca di una più ampia appartenenza, i resti delle due grandi identità politiche (comunista e democristiana) che hanno fatto la storia collettiva del Paese.
Tutti nei grandi contenitori, l'identità resta un residuo del passato: non più brand competitivo ma brandello d'immagine. Quando non degrada ad arma contrattuale: si rivendica spesso un'identità per rivendicare un peso (anche di candidati) ma l'appartenenza è fuori discussione. Perché è l'appartenenza, e solo lei, il fattore che tiene insieme i pezzi.
Il crescente primato dell'appartenenza sull'identità è molto più serio di una strategia elettorale, ha anche valenza politica e riscontro sociale. Se si pensa alla valenza politica è quasi banale dire che la condensazione cui stiamo assistendo (pochi partiti e, se possibile, grandi) rispecchia da un lato la stanchezza di tutti, anche dei protagonisti, verso la frammentazione partitica generata da sempre più residuali identità collettive; ma ancor più rispecchia l'obbligata onnicomprensività (l'et et) cui deve obbedire ogni grande contenitore che voglia corrispondere alle domande (o ai disagi) degli elettori. Ma anche nella realtà sociale dobbiamo constatare il primato dell'appartenenza sull'identità. Si pensi ai due estremi delle strutture di rappresentanza: da una parte i grandi sindacati sviluppano strategie e connotazioni di grande appartenenza (la cosa è visibilissima nelle realtà locali e specialmente nella Cisl); dall'altra, le grandi centrali datoriali o si condensano in più ampie appartenenze (la concentrazione delle rappresentanze assicurative e finanziarie) oppure, come nella rappresentanza industriale, valgono più i circuiti di appartenenza confederale che gli interessi e i comportamenti che fanno l'identità industriale, individuale o collettiva che sia.
Dobbiamo tutti renderci conto che nella nostra società dominano le appartenenze: quelle elettorali, quelle politiche, quelle sociali, e anche quelle di quotidiana vita collettiva, (di cui la faccia buona è il volontariato, quella cattiva sono le bande urbane senza nessuna aspirazione identitaria, neppure di tifo calcistico o di razzismo celtico). Se non ce ne renderemo conto, dovremo aspettare che cresca una nuova classe dirigente temprata dalla prassi dell'appartenenza; se invece qualcuno capirà prima è possibile che le prossime elezioni possano essere vinte da chi si proporrà, con più forza di convincimento, come «grande appartenenza ».
05 marzo 2008
Se il popolo del web si ribella ai politici
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lunedì 3 marzo 2008
METEORE POLITICHE
domenica 2 marzo 2008
NELLE TASCHE SEGRETE DEI PARTITI
MICHELE AINIS |
Un fruscio di banconote fa da sottofondo a questa campagna elettorale. Giorni fa Velina rossa, l’agenzia di stampa vicina alla sinistra, ha raccontato quanto costa farsi candidare dal partito democratico: da 50 a 70 mila euro. Il partito, ovviamente, ha smentito. Ma non ha smentito la trattativa a suon di bigliettoni con i radicali, anche perché la Bonino ne aveva già parlato a telecamere sguainate. Loro, gli alfieri del referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti, chiedevano 5 milioni per accodarsi alle liste del Pd; alla fine hanno ottenuto 3 milioni. Sull’altro fronte della barricata, dopo il divorzio fra Casini e Berlusconi il primo ha dettato un epitaffio: «In Italia non tutti sono in vendita». E con quell’epitaffio ha subito incartato Roma di manifesti elettorali. Intanto, sempre a Roma, la procura ha messo sotto inchiesta De Gregorio, per i quattrini che gli avrebbe sborsato Forza Italia in cambio del suo voto nell’aula del Senato. Mentre a Montecitorio pende un dossier sui 5 milioni rivendicati da Occhetto, Chiesa e Veltri a titolo di rimborso elettorale, da sottrarsi al movimento di Di Pietro. E a proposito dei denari scuciti dall’erario ai nostri 32 partiti. Grazie a una leggina approvata all’unisono nel 2006, vengono calcolati sull’arco d’un quinquennio, anche in caso di scioglimento anticipato della legislatura. Significa, per fare un solo esempio, circa 20 milioni nelle casse del Pd. D’altronde alle ultime politiche i partiti si sono divisi una torta da 200 milioni, giacché ogni elettore vale 5 euro, pure se non va a votare. E oltretutto con la raffinata ipocrisia di presentare come rimborso elettorale l’elargizione d’una somma superiore fino a 180 volte rispetto alle spese effettivamente sostenute: è il dono impacchettato dallo Stato per il partito dei pensionati, dopo le europee del 2004. Intendiamoci: la democrazia costa, sarebbe altrettanto ipocrita negarlo. E a sua volta il rapporto fra democrazia e denaro s’intesse fin dagli esordi dell’esperienza democratica. Nella Grecia antica la partecipazione politica veniva retribuita con il triobolo, per stimolare i meno abbienti; ragioni analoghe ispirano il moderno istituto dell’indennità parlamentare, nonché la garanzia di conservare il posto di lavoro alla scadenza del mandato elettivo. Viceversa i regimi oligarchici rendevano gratuita ogni carica pubblica, proprio per selezionare il ceto di governo attraverso il portafoglio. Insomma la retribuzione degli eletti schiude a ciascuno, e non soltanto a chi può vivere di rendita, la porta del Palazzo; mentre il finanziamento pubblico ai partiti offre una chance di vincere la gara anche alle formazioni che non hanno un petroliere sulla tolda di comando. Semmai la questione investe la misura del finanziamento: alle sue dimensioni attuali è un boccone troppo grosso, che a propria volta ingrossa ulteriormente il corpaccione dei partiti, nonché il loro appetito. Un circolo vizioso. Anche perché questi partiti superalimentati dalle finanze pubbliche finiscono poi per allevare una schiera di professionisti del consenso, gente senza mestiere, senz’altra competenza che quella di gonfiare l’urna elettorale. Gente che perciò vive «di» politica, non già «per» la politica, come intuì Max Weber nel lontano 1919. E tuttavia non è solo di questo che si tratta. Se la democrazia non ha orrore del denaro, essa però rifiuta qualsiasi reticenza. La democrazia - s’usa dire - è una casa di vetro. E se dietro il vetro c’è un salvadanaio, i cittadini hanno il diritto di sapere come viene usato. Noi però conosciamo le liste elettorali dei partiti, non la loro lista della spesa. Di più: non conosciamo neanche i nomi dei loro benefattori. Dal 2006 la legge impone di dichiarare i contributi privati solo quando superano 50 mila euro. In Germania e in Gran Bretagna il limite è più basso; in Francia vige una regolamentazione più severa. Da parte sua il governo Prodi ha appena fissato una soglia di 300 euro per i doni ricevuti dai ministri; ma si è ben guardato dal restituire trasparenza al finanziamento dei partiti. Sicché rimane in sospeso la domanda: dopo lo Stato, chi altri paga le vostre campagne elettorali? E perché lo fa? Dovremmo pur saperlo, dal momento che ci chiedete un voto. micheleainis@tin.it La Stampa |