venerdì 30 maggio 2008

IDEOLOGY BRAND

Il tatuaggio che immortala il «Che» sul braccio dell’uomo che ha guidato la spedizione squadristica del Pigneto celebra a suo modo l’anniversario del ’68 e chiude un’epoca trasformando definitivamente la faccia del comandante Guevara in icona post-icona, come un adesivo, un marchio vuoto, un brand di moda, potrebbe essere l’aquilotto dell’emporio Armani o la virgola della Nike. È per questo che la lunga confessione consegnata dal picchiatore a Carlo Bonini di Repubblica dovrebbe segnare anche la fine dell’ossessione compulsiva di etichettare politicamente le emergenze sociali: la sicurezza è un sentimento di destra, le ronde sono fasciste, i raid sono nazisti.

Un impulso che risponde al bisogno rassicurante di tener viva la cornice ideologica del Novecento come chiave di interpretazione di tutto.

Un vizio italiano, ma non solo. Il Times di Londra ieri leggeva la faccenda romana in chiave di xenofobia denunciando il rischio razzismo in Italia; il Financial Times rilanciava l’allerta per i rom. Vero, certo. Ma pure questo è un automatismo, anch’esso a suo modo ideologico, che non basta a spiegare quel che bolle nel calderone italiano.

Per illustrarlo il capo della polizia Antonio Manganelli ha parlato ieri alla Camera di «indulto quotidiano», che in altre parole significa impunità permanente in una situazione di «delinquenza diffusa», dove un terzo dei reati viene commesso dai clandestini. Molto più al nord che al sud, ma si sa.

Il picchiatore del Pigneto - che ieri si è consegnato alla polizia ed è subito stato rilasciato beneficiando anche lui della sua quota di indulto quotidiano - è l’esemplare collettivo che ci permette di sfondare il cristallo delle astrattezze sociologiche. «Nazista a me? sono nato il primo maggio...» La politica non c’entra, la - come si dice? - xenofobia nemmeno. Lui voleva soltanto recuperare il portafoglio rubato la sera prima da Mustafà - un marocchino o tunisino, chissà - perché è una questione di «rispetto», i senegalesi nessuno li tocca perché «portano rispetto» e lui ha litigato con tutti quelli che «non portano rispetto alla gente del Pigneto». Lui è cresciuto al bar Necci, quello del film di Pasolini, Accattone: «Chiedete lì chi sono io», come se fosse un passaporto democratico. Nemico degli stranieri? Ma no, gli algerini lo chiamano «Grande mujaheddin, Grande talibano».

Un autoritratto che esce dal Pigneto, ex borgata romana, ma andrebbe bene a Ponticelli, Napoli, dove sono stati incendiati i campi dei rom, o a Verona, dove in piazza Bra si può morire di botte per il passatempo notturno di una banda di ragazzi. È questa la novità italiana. I colpevoli hanno alternativamente il tatuaggio del «Che» sul braccio, la croce celtica al collo o niente, post-icone frullate in un nulla simbolico di territori privi di anima: giungle urbane che si assomigliano, dove la microcriminalità è insieme jattura ed economia, il bullismo è misura esistenziale, lo squadrismo forma primordiale ma riconosciuta di giustizia fai-da-te là dove non se ne avverte un’altra. Forse - come dicono in molti - la sensazione dell’insicurezza è infinitamente superiore all’insicurezza reale, ma il cortocircuito è adesso innescato, le «ronde» sono ormai una dimensione diffusa di controllo del territorio, i vigili urbani di Milano da qualche giorno rastrellano tram e filobus a caccia di clandestini in guisa di vere «ronde padane».

Una guerra ad alta intensità è di fatto dichiarata, la paura ha diffusione interclassista (ma si sente di più nelle classi popolari), alla presentazione di un romanzo sulla Napoli bene viene invitato Roberto Saviano come se la sua Gomorra si fosse ormai dilatata fin dentro l’anima di tutta la città, lo spirito pubblico è smarrito, nella notte brava di Torino i vigili urbani che distribuiscono multe per divieto di sosta vengono aggrediti su piazza Vittorio, il palcoscenico della città aulica.

La griglia destra-sinistra non tiene più. Nemmeno a Roma, dove da quando è sindaco Alemanno (salutato da non poche «braccia tese» al suo arrivo in Campidoglio), è come se fosse cresciuta un’equivoca attesa. L’ex sindaco Veltroni insiste sul clima di intolleranza. L’uomo del Pigneto, con o senza tatuaggio, racconta un’altra Italia che sembra sfuggire a tutti e due. E forse anche a noi.