mercoledì 7 gennaio 2009

TREGUA E RETORICA

I numerosi appelli alla «tregua» non possono lasciare indifferente chi sostiene il buon diritto delle operazioni militari condotte da Israele. Di fronte allo scenario straziante di Gaza, dei civili e dei bambini uccisi, delle case sventrate, degli ospedali sovraffollati e drammaticamente a corto di medicinali, l’invocazione di una tregua parla a chiunque abbia a cuore le ragioni dell’umanità e disvela la natura essenzialmente, irrimediabilmente atroce della guerra, persino di quella più «giusta». Anche i civili massacrati nelle guerre di Bagdad e di Beirut, di Kabul e di Belgrado richiamavano l’urgenza di una «tregua». Per fortuna è passato il tempo in cui (basta compulsare le antologie letterarie per sincerarsene) anche gli intellettuali più sensibili cantavano l’ebbrezza bellica, l’estetica della guerra, la mistica della morte, la poesia del combattimento. La morte e la devastazione provocate dalla guerra, oggi, rendono invece improrogabile l’esigenza di una «tregua».

Sono le autorità morali e religiose che chiedono la tregua. La chiede il presidente francese Sarkozy. Chiede il «cessate il fuoco » Tony Blair sebbene, come ha maliziosamente notato il suo successore Gordon Brown, in diciotto mesi da che è rappresentante del «Quartetto» in Medio Oriente non abbia mai messo piede nella striscia di Gaza. In Italia si spendono Massimo D’Alema per chiedere la «trattativa» con Hamas, Emma Bonino per la «tregua duratura», Lamberto Dini per il «negoziato». Tutti interventi animati da argomenti che non attengono solo alla sfera «morale», ma anche a quella del realismo politico. Non è dettata dal candore delle «anime belle» la preoccupazione (peraltro, non proprio inedita) che tra i giovani palestinesi l’irruzione a Gaza possa acuire un distruttivo furore anti-israeliano. E non è un argomento capzioso quello di chi invita a non sottovalutare il radicamento di Hamas, partito dedito alla lotta armata terroristica che però è sostenuto dalla maggioranza della popolazione di Gaza. Il fronte della «tregua » non è privo di basi politiche, oltreché morali. Ma è la «retorica della tregua» che rischia di renderle fragili e destinate all’inconcludenza.

Tutte le espressioni che modulano con ripetitiva monotonia l’esigenza della tregua, dal «cessate il fuoco» al «tacciano le armi», dai «tavoli della pace» alle «conferenze internazionali per il dialogo » ai «corridoi umanitari », presuppongono una condizione fondamentale che è proprio quella assente nell’inferno di Gaza: la tregua, perché sia tale, si fa sempre in due. E’ ragionevole, è realistico, è possibile che Hamas voglia essere una delle due parti a rispettare una tregua? Non l’ha già violata lanciando razzi Qassam sulle città israeliane per fare espressamente vittime civili? E poi, su quali basi è possibile per Israele trattare con chi non nasconde un’ostilità assoluta e non negoziabile verso la sua stessa esistenza?

Una condizione asimmetrica talmente evidente che anche i più convinti partigiani della «tregua», e persino i commentatori più critici con le scelte di Israele, non possono fare a meno di notare. Rossana Rossanda, sul «manifesto », è durissima con «gli aerei e i blindati di Tsahal», ma non regala ad Hamas, tragicamente ispirata alla logica del «periscano Sansone e tutti i filistei», l’attenuante del «giustificato risentimento». Chi, a cominciare da Sarkozy, insiste sulla «sproporzione» della reazione israeliana non nega la legittimità di una reazione a un evidente torto di Hamas. Dovrebbe piuttosto indicare con passabile approssimazione quale sarebbe la reazione «proporzionata». Dovrebbe definire quale sanzione sarebbe considerata legittima per chi violasse in futuro una tregua già compromessa con il lancio dei razzi su Ashkelon e Sderot. Dovrebbe spiegare come colmare la latitanza degli organismi internazionali e come ovviare alla tragica mancanza di credibilità dell’Onu che, come ha scritto Angelo Panebianco sul «Corriere», parla senza pudore, attraverso il Richard Falk che rappresenta il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, di «aggressione israeliana». Dovrebbe spiegare se la condanna morale di chi uccide i civili palestinesi è applicabile con la stessa severità ad Hamas, che in uno dei suoi lanci di razzi sulle città israeliane ha colpito per sbaglio proprio due bambini di Gaza. Dovrebbe descrivere con parole moralmente adeguate chi fa delle sue donne e dei suoi bambini altrettanti scudi umani dietro cui mimetizzare bunker e depositi di armi. Dovrebbe indicare in cosa consista esattamente l’alternativa alla guerra e all’intervento militare. Per rendere la parola «tregua» credibile e convincente e salvare Israele come i civili palestinesi.

di Pierluigi Battista Corriere della Sera 7 gennaio 2009