Tralasciamo il «Morte agli ebrei» su alcune bandiere durante le manifestazioni di Bruxelles, Parigi o Madrid. Tralasciamo il sindacato italiano della Flaica-Cub che in «segno di protesta» contro l'operazione israeliana a Gaza fa un appello — avvenimento senza precedenti in Europa, da tre quarti di secolo — a «non comprare più nulla nei negozi appartenenti a membri della comunità ebraica». Non avrò la crudeltà di insistere sull'asse, a dir poco nauseabondo, che si forma quando la signora Buffet ( dirigente del partito comunista francese, n.d.t.), il signor Besançenot ( dirigente di un nuovo partito anticapitalista N.P.A, n.d.t.) e altri vengono raggiunti in testa di corteo dal faurissoniano ( Robert Faurisson, celebre negazionista, n.d.t.) Dieudonné ( attore comico francese, n.d.t.) o quando il suo degno compare, Jean-Marie Le Pen, si unisce al coro per paragonare la Striscia di Gaza a «un campo di concentramento».
Per un caso, proprio da Ramallah, capitale dell'Autorità palestinese, e poi da Sderot, la città israeliana alla frontiera di Gaza continuo bersaglio del fuoco dei razzi Qassam, scopro le immagini di simili manifestazioni di sostegno alla «causa palestinese». Proprio da questi due luoghi, vedo le folle di europei urlanti, vociferanti e scatenati: le immagini scorrono mentre sono in compagnia di persone la cui sola preoccupazione resta, malgrado le bombe, le sofferenze e i morti, quella di non perdere mai il filo della convivenza e del dialogo. Voglio dunque aggiungere alcune riflessioni a quelle già fatte nei giorni scorsi e che hanno dato vita, da parte degli internauti di Point, a una enorme serie di reazioni. Primo.
Che sollievo vedere i palestinesi veri, reali, anziché quelli immaginari che, in Francia, pensano di fare la resistenza prendendo di mira le sinagoghe! I primi, lo ripeto, si impongono di essere moderati e con ammirevole sangue freddo si sforzano di mantenere le chance della convivenza di domani; i secondi sono rabbiosi, più radicali dei radicali, pronti alla violenza, nelle strade di tutta Europa, fino all'ultima goccia di sangue dell'ultimo palestinese. I primi considerano e riflettono, sanno che niente in questa storia è tutto nero o tutto bianco, e conoscono la schiacciante responsabilità di Hamas nel disastro in cui sta precipitando il loro popolo. I secondi, come se la confusione non fosse già abbastanza, si bevono di gusto le enormi panzane della propaganda anti-israeliana e fanno dei teorici dell'attentato suicida e dello scudo umano, dei nuovi Che Guevara, di cui sfoggiano emblemi e simboli: anziché infondere calma, mettono in scena la politica del peggio, infiammando gli animi.
Secondo. Quale regressione, quale azzeramento del pensiero e dell'azione, da parte di costoro, che da lontano, ignorando i contorni del dramma, fomentano odio, quando invece si dovrebbe fare di tutto per andare nel senso della pace e della riconciliazione! La pace vuole due Stati che accettino di vivere l'uno accanto all'altro, e che comincino a dividersi la terra; la pace vuole, da entrambe le parti, la rinuncia all'estremismo, a posizioni radicali, ai luoghi comuni, e perfino ai sogni. La pace implica, per esempio, che Israele si ritiri dalla Cisgiordania così come si è ritirata dal Libano e da Gaza, ma implica l'esistenza di una parte palestinese che non tragga vantaggio dalla ritirata per trasformare, ogni volta, il territorio evacuato in una base per il lancio di missili sui civili. La pace deve passare per il cessate il fuoco, per la fine della guerra che sta facendo un insostenibile numero di vittime, soprattutto tra i bambini. Ma questa pace passa anche attraverso l'eliminazione politica di Hamas, cui poco o nulla importa delle vittime, e della pace — e che, non essendo stata capace di imporre la sharia al suo popolo, lo trascina sulla via del «martirio» e dell'inferno.
Terzo. Sono a Ramallah, dunque. A Sderot e a Ramallah. E vedendo da Sderot e da Ramallah questa mobilitazione contro un «olocausto», che nel momento in cui scrivo è di 888 morti, mi faccio una semplice domanda. Dov'erano i manifestanti quando si trattava di salvare, non gli 888, ma i 300.000 morti dei massacri programmati del Darfur? Perché non si sono visti nelle strade quando Putin radeva al suolo Grozny e trasformava decine di migliaia di ceceni in tiro al bersaglio? Perché hanno taciuto quando, tempo prima, e per anni, e stavolta nel cuore stesso dell'Europa, sono stati sterminati 200.000 bosniaci, il cui solo crimine era quello di essere nati musulmani? Per alcuni, i musulmani sono buoni solo quando sono in guerra con Israele. Meglio ancora: ecco i nuovi seguaci dell'antico «due pesi, due misure » che si preoccupano della sofferenza di un musulmano solo quando possono attribuirne la colpa agli ebrei. L'autore di questo articolo ha manifestato, in prima fila, per il Darfur, per la Cecenia e per la Bosnia. Si batte, da 40 anni, per un valido stato palestinese accanto a quello di Israele. Mi si permetterà di considerare questo doppio atteggiamento ripugnante e frivolo.
Bernard-Henri Lévy sul Corriere della Sera 14 gennaio 2009