lunedì 13 ottobre 2008

CRAC & YUPPIES


di JAY McINERNEY

Ho sentito per la prima volta la parola «yuppie » nell'83, quando vivevo nell'East Village. Allora dividevo un appartamento con il mio miglior amico, scrivevo il primo romanzo e mi guadagnavo da vivere come lettore di dattiloscritti a Random House. Mi stavo godendo una prima colazione a mezzogiorno, da Veselka, sulla Second Avenue, ancora in preda alla sbornia della notte prima (...). In precedenza, mi fermavo da Binibon, ma proprio sul marciapiede Jack Henry Abbott aveva pugnalato il cameriere-drammaturgo Richard Adan e dopo il fattaccio il locale era stato chiuso per mancanza di avventori. Seduto accanto a me al bancone c'era un pittore, che viveva nel quartiere e amava pavoneggiarsi con gli abiti schizzati di vernice, e a un tratto l'ho sentito borbottare, «Yuppie di merda ». Ho alzato lo sguardo e ho visto una giovane coppia elegante, ovviamente di buona famiglia, del tipo preppy per intenderci, che aspettava che si liberasse un tavolo. I due ragazzi sembravano provenire dai quartieri alti dell'Upper East Side, pantaloni cachi e camicia di cotone. Noi invece eravamo tutti uniformemente anticonformisti nei nostri jeans neri, Ramones nere ai piedi e T-shirt con i logo delle TV. (...) Questo «yuppie» mi suonava nuovo.
Pare che il termine sia apparso per la prima volta nel 1983, quando l'opinionista Bob Greene scrisse un articolo sull'ex leader yippie Jerry Rubin, che organizzava incontri sociali allo Studio 54. In quel giro, a detta di Greene, c'era un tale che giurava che Rubin, da capo degli yippie, era diventato capo degli yuppies. Il neologismo stava per Young Urban Professionals (giovani professionisti metropolitani) e sarebbe passato alla storia come yup, se non fosse stato per Rubin. Il termine yuppie suggeriva una certa traiettoria evolutiva — o involutiva — rispetto a hippie e yippie. E vantava una storia avvincente: la duplice ironia del perditempo rivoluzionario che si trasforma in imprenditore e capitalista convinto; sullo sfondo, un'atmosfera fascinosa screziata di fatuo edonismo, per non parlare dell'acronimo arguto, che descriveva a puntino una nuova minoranza immediatamente riconoscibile(...).
Il tono con cui si pronunciava la parola yuppie sulla East Fifth Street si caricava progressivamente di odio e disprezzo man mano che i prezzi immobiliari nell'East Village schizzavano verso l'alto. Nel corso di decenni di relativa stabilità, la zona era diventata il bastione degli immigrati dall'Europa orientale e dei giovani artisti. È facile dimenticare, a distanza di tanto tempo, che questa era anche una zona di guerra, dove scippi e stupri erano all'ordine del giorno e non facevano nemmeno più notizia. Gli Hells Angels imperversavano sulla East Third Street, e al calar della notte si andava a est della Second Avenue a proprio rischio e pericolo. I poliziotti non ci mettevano piede. La East Tenth, oltre la Avenue A, era un supermercato della droga, con spacciatori minorenni che sgattaiolavano dentro e fuori da palazzi fatiscenti. In realtà, vasti settori della città erano invasi dalla sporcizia e in mano alla criminalità. Persino il West Village era assai deprimente in confronto a oggi e a Times Square regnava uno squallore spettacolare. Andate a rivedere Taxi driver o The French Connection se volete rivivere l'atmosfera di queste zone, allora ridotte a un deserto urbano.
Ma non si trattava solo di estetica. A quei tempi New York era una città, nel complesso, molto più provinciale di oggi, suddivisa a seconda dell'etnia e del ceto sociale. A Little Italy abitavano in preponderanza gli italiani, mentre l'East Village contava per lo più ucraini. I ricchi Wasp (bianchi anglosassoni protestanti) vivevano invece nell'Upper East Side, a ovest della Third Avenue, e Harlem, ovvio, era al 99 percento nera. Molti bianchi avevano il terrore mortale di appisolarsi in metropolitana e di svegliarsi in corrispondenza della 145a Strada. La classe media bianca defluiva poco a poco dalla metropoli, dove imperversava la criminalità e l'eroina dilagava come un'epidemia (...). Questa era la Manhattan prima dell'arrivo degli yuppies, una città, oserei dire, alla disperata ricerca di riscatto e di rilancio (...).

Reagan spiana la strada agli yuppies
Il mondo artistico dell'East Village, inaugurato dall'apertura della Fun Gallery di Patti Astor nel 1981, era già lanciato alla grande per la fine dell'83. Le gallerie attiravano i clienti danarosi, ovviamente disprezzati proprio dagli artisti dell'ambiente. Gli yuppies, appena identificati come tali, incarnarono subito la principale contraddizione del settore artistico, che oggi diamo quasi per scontata: sono proprio gli esponenti della borghesia i consumatori finali di tutto quello che l'arte produce al fine di épater la bourgeoisie.
Basquiat certo non vendeva le sue tele da cinquantamila dollari agli amici tossicodipendenti.
Sin dall'inizio, si percepiva una certa confusione soggetto/oggetto nel concetto di yuppie, quasi una riflessione sul fenomeno, del tipo «abbiamo conosciuto il nemico ed è dentro di noi». A parte gli occupanti abusivi del centro città, era difficile talvolta trovare un abitante di Manhattan che non avesse adottato il nuovo stile di vita in qualche sua sfumatura. L'iscrizione alla palestra ti qualificava come yuppie? E sniffare cocaina? O mangiare pesce cru do? Quando ho sentito un agente cinematografico che scagliava sprezzante quell'epiteto contro un gruppo di banchieri all'Odeon, mi sono chiesto che fine avessero fatto i classici oggetti di lancio, quali pentole e piatti.
A livello nazionale, il terreno era stato preparato dall'elezione di Ronald Reagan alla presidenza, l'ex attore con il sorriso Colgate accompagnato dall'imperiosa Nancy, sua moglie. La signora Reagan sborsò 25.000 dollari per il guardaroba dell'inaugurazione, mentre per rinnovare gli arredi dell'appartamento presidenziale alla Casa Bianca non esitò a spendere 800.000 dollari. Pare che a quei tempi fossero un sacco di soldi, a giudicare dallo stupore con cui la cifra passava di bocca in bocca. Per il servizio di porcellana, la fattura fu di 209.508 dollari, che sembrano tanti ancora oggi. Che lusso! Dopo gli anni di Jimmy Carter, che compiangeva il malessere nazionale e ci raccomandava di ridimensionare le aspettative e trasportare da soli le nostre valigie, i Reagan irruppero sulla scena come fautori inconsapevoli della bella vita. I consumi sfrenati erano una buona cosa. In America era spuntato finalmente il sole, secondo Reagan, quasi a voler dire che gli anni Sessanta erano davvero finiti.
All'epoca non lo sapevamo, ma la nascita della nuova specie potrebbe risalire al 22 settembre del 1982, con la prima puntata di Family Ties (in Italia «Casa Keaton ») e l'apparizione di Michael J. Fox nei panni di Alex Keaton, il giovane repubblicano con la ventiquattrore in mano. A ripensarci, sì, Keaton era proprio il proto-yuppie. Nato in Africa da genitori hippie impegnati in interventi umanitari, Keaton porta la cravatta anche in casa, adora la ricchezza, il successo negli affari, Ronald Reagan, e sogna di far carriera a Wall Street. La serie conobbe sette stagioni, dall'82 all'89, e illustrò una strana inversione culturale in cui una nuova generazione conservatrice accantonava tutti i valori liberali dei padri. Gli ideatori della serie, invece, intendevano focalizzare l'attenzione sui genitori, ma il giovane repubblicano ben presto si accaparrò le luci della ribalta. Se sulle prime Keaton poteva apparire un'anomalia, nel giro di brevissimo tempo si trasformò nell'avatar dello Zeitgeist.
«Chi sono tutti questi tipi ambiziosi, con le bottigliette d'acqua firmata, scarpette da corsa, parquet anticato e appartamenti da mezzo milione di dollari in quartieri degradati?» chiedeva la rivista Time il 9 gennaio del 1984. «Gli yuppies», ci veniva spiegato, «si dedicano al duplice obiettivo di fare un mucchio di soldi e di raggiungere la perfezione, grazie alla cura del fisico e della mente, con palestra e psicoanalisi» (...).

Jay McInerney