giovedì 31 gennaio 2008

La carta di D'Alema: subito il referendum

Così si andrebbe al voto non prima nel 2009. E si metterebbe in difficoltà la Cdl
La strategia del vicepremier: alle urne ad aprile per modificare con il sì la legge elettorale

E' la carta segreta che spiazzerà il centrodestra. L'idea l'ha avuta Massimo D'Alema. Una mossa degna di un politico abile qual è lui per sparigliare la partita che si sta giocando con Berlusconi. Non riesce il tentativo Marini? O comunque riesce per il rotto della cuffia? Bene, il ministro degli Esteri ha in serbo un'iniziativa che difficilmente il Cavaliere potrà contrastare. D'Alema l'ha suggerita a Giorgio Napolitano, che in queste ore la sta vagliando: indire il referendum elettorale in aprile. Dopodiché si vada pure alle elezioni. Ovviamente, come minimo in giugno, se non oltre.
La Corte costituzionale ha annunciato che il sistema elettorale vigente ha delle «carenze». Il che, tradotto in parole povere, significa che secondo la Consulta la legge aveva bisogno di aggiustamenti anche a prescindere dal referendum. Una spinta in più per fare una riforma: e per centrare l'obiettivo di un sistema elettorale compiuto si potrebbe arrivare fino al 2009.
Una mossa, quella di D'Alema, che creerà qualche problema nel centrosinistra (anche se Rifondazione ha già lasciato intendere che è pronta anche ad affrontare questo appuntamento). Ma che, sicuramente, provocherà uno sconquasso dall'altra parte della barricata. Nella Casa delle Libertà, infatti, c'è Fini, che quel referendum l'ha firmato. C'è Berlusconi, che finora è riuscito a non esprimersi in proposito. C'è la Lega che è contraria. Ma, soprattutto, c'è quell'Udc che avrebbe dovuto essere l'interlocutore del centrosinistra sulle riforme — e sul prolungamento della legislatura — che vede nel referendum la certificazione della fine della propria autonomia (e, forse, anche, della propria sopravvivenza).
Non è un caso che appena il tam tam sulla mossa escogitata da D'Alema giunge alle orecchie di Berlusconi, il Cavaliere resti interdetto: «Certamente questa è una mossa insidiosa», dice Berlusconi a Fini e Letta. Non è la prima volta e non sarà l'ultima che D'Alema prende in mano le redini del gioco per scongiurare una fine prematura per il centrosinistra. E Veltroni, che pure teme che questa operazione serva ad andare avanti e a indebolirlo, non può certo contrastarla. Qualche mese in più serve soprattutto a lui. E comunque un referendario della prima ora come il sindaco deve comportarsi di conseguenza. Perché è vero che il leader del Pd non ha firmato il referendum, come invece hanno fatto Parisi e Bindi, ma è anche vero che non può essere colui che lo ostacola. La sua storia politica non lo permette.
Il che non significa che Veltroni non abbia dei dubbi. Primo, «anche se passerà la legge del referendum io mi rifiuto di fare un'ammucchiata in cui tutti stanno con tutti, con le conseguenze che si sono viste con questa coalizione e questo governo». Per Veltroni questo è un punto fermo. Di più. Il sindaco aveva sfidato Berlusconi, anche nel loro secondo incontro riservato, ad andare da solo alle elezioni, anche nel caso in cui si fosse fatto il referendum. Ma c'è un altro dubbio che assilla Veltroni, il quale è scettico sulla riuscita della consultazione. E' già accaduto per gli altri due referendum elettorali: il quorum non è stato raggiunto. Chi ha detto che questa volta accada il contrario?
Eppure, tra scetticismi, dubbi e tentativi di Marini, quella di D'Alema si rivela come l'unica mossa capace di mettere in difficoltà il Cavaliere e di dare del filo da torcere al centrodestra. «Perché — è il ragionamento del ministro degli Esteri — dovremmo togliere agli italiani questa occasione per esprimersi? ». Dunque, forte di 800 mila firme in calce ai quesiti referendari, il Quirinale potrebbe indire la data del referendum. E non è un caso che i vertici del Prc, avvertiti anzitempo di questa eventualità, non alzino le barricate, ma facciano sapere: «In fondo con il referendum non andrebbe tanto male neanche a noi». E soprattutto non andrebbe male al centrosinistra che prenderebbe fiato e tempo per rinserrare le fila e tentare una campagna elettorale che altrimenti sarebbe persa in partenza.

Maria Teresa Meli/Corriere della Sera
31 gennaio 2008

mercoledì 30 gennaio 2008

LIBRI


Grazie a Abraham Yehoshua e Amos Oz e David Grossman questa Gerusalemme sotto la neve l'avevo già sognata.

lunedì 28 gennaio 2008

MEMORIA LABILE

Ai detrattori (me compresa) delle orribili liste bloccate con cui, forse, chissà, torneremo a votare per la Camera vorrei ricordare che non ho memoria di candidati eletti senza che ciò fosse stato ampiamente deciso dai partiti. Anche le liste messe apparentemente a disposizione degli elettori, infatti, erano costruite e congegnate in modo tale da garantire che gli eletti sarebbero stati quelli già prestabiliti dalle segreterie dei partiti. L'introduzione della preferenza unica aveva dato un pò di verve alle campagne elettorali aprendo delle possibilità anche a qualche outsider affiancato da un bravo consulente e possibilmente con una buona capacità di spesa. Forse è per questo che....

domenica 27 gennaio 2008

Politics&theCountry


Antefatto. Un tizio, che è pure serio e intelligente, mi ha lasciato intendere che, a suo dire, questo blog sfugge a una valutazione professionale su ciò che faccio, penso ecc. ecc. Siccome questa cosa me l'ha detta/insinuata al telefono mentre mi stavo laccando le unghie dei piedi (attività, ahimè, sovente relegata da alcune sciagurate ai soli mesi estivi quasi i piedi non fossero visibili - a se stesse - per tutto l'anno) costringendomi a fingere di star concionando sul tema della marginalità in politica, mi sono guardata bene dall'approfondirla lì per lì. Comunque sia, una delle cose che il tizio mi ha chiesto è se intendo continuare a fare la Samantha. Per chi non lo sapesse Samantha è una delle quattro protagoniste di Sex&TheCity, Kim Catrall nella vita. Il personaggio che interpreta è quello di una pierre con una visione piuttosto liberale della vita e del mondo e con una certa propensione per i feticci del consumismo femminile (scarpe e accessori genericamente intesi). A ben pensarci fare la Samantha (ah ah ah) in un contesto politico/intellettuale mi pare un bel modo per giocare con una materia ancora zeppa di tabù dove le donne, a proposito di marginalità, non hanno la possibilità di caversela un granchè bene. Il perchè e il percò lo sanno le mie allieve dei corsi di formazione/comunicazione politica e, i volonterosi, lo possono scoprire anche da queste pagine vaganti, sbirciando di qua e di là. Vorrei scrivere un libricino che si intitoli La Sdrammatizzazione della Politica per dimostrare che, a ben vedere, la sacralità che ancora la circonda potrebbe venir meno semplicemente infilando uno stiletto nelle carni giuste. Da questo pseudo ragionamento si può dedurre che questo spazio ha una funzione giocosa con delle punte (ahi ahi!) di approfondimento saltuarie e dettate dal semplice desiderio di esprimere un modo di sentire che improvvisamente ha un urgente bisogno di manifestarsi. Il Tizio che mi ha colta con lo Chanel n. 19 tra/sulle le dita
mi ha detto che la mia leggerezza da blogger potrebbe compromettere la percezione della mia professionalità. Ma và là!

COSI' E'

LA CADUTA DEL CENTROSINISTRA

Alle origini del fallimento


di Ernesto Galli Della Loggia

La fine del governo Prodi evoca innanzi tutto un'importante questione storica destinata, temo, ad accompagnarci a lungo: la costante minorità numerica della sinistra italiana, e dunque la sua costante debolezza elettorale di partenza. L'Italia profonda non è un Paese progressista. Ciò costringe la sinistra, per avere qualche probabilità di andare al governo, ad allearsi con forze diverse da lei, più o meno dichiaratamente conservatrici. Il che, tuttavia, come si capisce, può avvenire in momenti e su spinte eccezionali (per esempio l'antiberlusconismo) ma è difficile che duri a lungo. Si aggiunga — come concausa di questa minorità, e sua aggravante — la paralizzante eredità comunista. La vicenda italiana indica quanto sia difficile che da quell'eredità nasca un'evoluzione di tipo uniformemente socialdemocratico. La stragrande maggioranza degli eredi del vecchio Pci, infatti, come si sa, ha rifiutato tale evoluzione e il suo nome, preferendo invece, al suo posto, quello alquanto vago di «democratici ».

Accanto a loro è nato dal tronco del vecchio partitoun blocco di tenace radicalismo (le tre o quattro formazioni che ancora si dicono «comuniste ») il quale include almeno un terzo dell'antico elettorato di Botteghe Oscure: insomma un ulteriore fattore di debolezza. C'è poi da ultimo la sinistra cattolica proveniente dalla vecchia Democrazia cristiana. Per avere qualche speranza di vincere è necessario dunque assommare e combinare queste tre componenti, e in più, come dicevo, è necessario trovare un'alleanza con il centro. Un'impresa non da poco, bisogna ammettere; proprio per riuscire nella quale si è spinti a ricorrere a una personalità a suo modo autonoma e di prestigio, per esempio Romano Prodi, la quale però a sua volta tenderà per forza di cose a concepire anch'essa prima o poi una sua personale strategia, a costituire un suo personale polo politico. Portando così al massimo il potenziale divisivo e la confusione delle lingue. Il governo Prodi, già nato sulla base di queste difficoltà strutturali, le ha aggravate di suo con una serie di errori e di insufficienze. Innanzi tutto con la faccenda del programma. Invece di provare a superare la fortissima disomogeneità dell'alleanza accordandosi preliminarmente su cinque, al più dieci, cose importanti da fare nella legislatura, invece di perdere anche magari qualche settimana prima delle elezioni a discutere priorità e stabilire modalità a quel punto davvero vincolanti, si è preferito soddisfare le esigenze identitarie dei circa dieci-dodici componenti della coalizione e compilare un ridicolo programma «monstre» di 280 e passa pagine, impossibile da attuare ma solo fonte di discussioni e rivendicazioni continue, da parte di tutti contro tutti, appena si è cominciato a governare: e da cui nessuno, ovviamente, si è mai sentito impegnato. Anche su queste secche si è incagliata la capacità realizzativa del governo. La cui portata assai limitata, del resto, si è però vista già all'inizio, nell' estate del 2006, quando il ministro Bersani presentò un pacchetto di riforme liberalizzatrici che, pur se nella sostanza cautissime, furono ancor di più sterilizzate finendo per partorire il più classico dei topolini.

Egualmente, di qualunque vera riforma dell'ordinamento giudiziario— un'altra questione cruciale che mina la vita del Paese — non si è sentito mai parlare. Lo stesso dicasi poi per quella che pure il centrosinistra aveva presentato come la più urgente ed essenziale delle riforme: la legge sul conflitto d'interessi. Sono pure cadute nel dimenticatoio grandi questioni nazionali, come l'infame legislazione sulla sanità pubblica, le condizioni delle reti infrastrutturali, lo stato disastrato dell'istruzione. Per quanto riguarda i conti pubblici, infine, anche qui all'urgenza da tutti invocata di ridurre la spesa pubblica non è stato dato alcun seguito, nel mentre si è ricorso come sempre all'aumento del carico fiscale. Insomma, la coalizione di centrosinistra, presentatasi come portatrice di volontà e di visioni realizzative assai superiori a quelle dei suoi avversari, è mancata clamorosamente alla promessa creando un sentimento di disillusione profonda nell'opinione pubblica. Sentimento accresciuto dalla presenza, anche ai vertici, di un personale politico troppo di frequente demagogico, vuotamente assertivo quanto inconcludente, di cui il ministro Pecoraro Scanio è stato l'esempio ormai emblematico.

Un personale politico che su un altro versante ancora ha mostrato peraltro la sua scarsa qualità: su quello dell'occupazione del potere. A cominciare dal presidente del Consiglio il centrosinistra ha condotto dappertutto una sistematica politica lottizzatrice. I suoi uomini di governo, favoriti dalla vasta influenza sociale e culturale a loro omogenea, frutto della storia della Repubblica, non hanno mai fatto spazio a nulla e nessuno che non portasse la loro etichetta politica. Posti, incarichi e finanziamenti sono andati solo a persone e cose della loro parte. Per quella che non era ritenuta tale, invece, non si è mancato di fare ricorso a pressioni dirette e indirette, intrecciate a più o meno sottili intimidazioni. In questo modo, e abbastanza paradossalmente, la coalizione di centrosinistra è venuta costruendo un'immagine di sé sempre più identificata con le oligarchie e i poteri tradizionali, con le nomenclature più tenaci della Repubblica. E ben prima che il verdetto del Senato sono stati lo scoramento e la delusione che tutto ciò, insieme al resto, ha provocato nei suoi stessi elettori, che hanno scavato la fossa in cui alla fine il governo è precipitato

27 gennaio 2008

giovedì 24 gennaio 2008

VOTARE OH OH!!!


Per una che fa il mio mestiere e che passa tutta la giornata a disegnare/immaginare scenari politici, il periodo potrebbe essere descritto come quello delle vacche grasse. Succede infatti che chi più ne ha più ne metta al punto che Prodi temerariamente se ne va in Senato - luogo non esattamente amichevole - dove si sviene, si sputa, si sberleffa, si tradisce, si compra, si tratta, si trama. Più o meno come in un qualsiasi mercato della Campania o da quelle parti lì dove, lo giuro, mi hanno scippato gli occhiali da sole (che indossavo, ovviamente, sul naso. "E' questione di rapidità di riflessi" mi hanno spiegato). Il posto, l'aula del Senato, la conosco bene perchè ogni tanto mi è anche successo di dire ai miei clienti che nel vestirsi, pensando di essere ripresi dalla televisione, avrebbero fatto bene a tener conto del rosso cremisi dello sfondo. E quindi, per esempio, che un abito grigio vigogna con una cravatta con un tocco verde o giallo è più telegenico di un completo blusublu che diventa tutt'uno con il resto rendendo la faccia, se non è a plomb, un po' ridicola. Oppure, alle signore, che una giacca colorata (non rossa, ovviamente) e una camicetta bianca in quel posto lì fà un grande effetto. Se poi si vuole essere davvero davvero telegeniche, allora tanto vale osare una scollatura a V che lascia scoperta una buona porzione di pelle. Cosa che slancia, valorizza il viso e i capelli (quando mai si è vista in televisione una presentatrice o una giornalista con un maglioncino con il collo alto? Orrore!!!). Insomma, il rossorosso richiede qualche piccola attenzione sulla quale a Montecitorio (dove il mogano rompe la noia) si può, volendo, anche soprassedere. Si potrebbe arguire da questa digressione che la mia frivolezza (cinismo) sia eccessiva in un momento in cui si sta svolgendo il rito del ribaltamento di Prodi. Che di natura io sia un'infedele è noto e che il tradito più tradito sia questo blog è altrettanto evidente. Ma non mi si dica che la fiction in scena su Camera Due non sia stata da me ampiamente prevista. Direi quasi nei dettagli. Non è che abbia una qualsivoglia propensione alla sventura o al suo annuncio, ma che di Prodi nessuno ne potesse più era evidente anche al più leggiadro degli osservatori (leggasi opinione pubblica) di questo paese. E, se questo era lo stato d'animo di Pinco e di Pallino, si può intuire le ambascie di chi ogni giorno con il signor Prodi doveva avere a che fare vuoi per tamponare un'emergenza (ah ah ah!), vuoi per fare una nomina (un po' come Mastella), vuoi per fare due conti con ToPaSky o chi per lui. Che l'uomo fosse ingestibile era noto. Non si spiega altrimenti l'angoscia di un mio lontano candidato che ripetutamente si chiedeva dove avrebbe dovuto piazzarlo al ritorno definitivo da Bruxelles. E io a dire: "Non è caratterialmente in grado di gestire a lungo i conflitti e la gente non ci va pazza...", e quello: "Si, va bene. Ma da qualche parte dobbiamo pur sistemarlo... chi mettiamo se non lui?". E sì. Lì è finito, al Governo, perchè di altri per le mani, spendibili, in quel momento non ce n'erano e Berlusconi aveva già fatto il secondo trapianto di capelli e sembrava ormai un giovanotto. Comunque sia il governo alla fine l'ha fatto grazie anche all'apporto del migliore attore protagonista del festival del cinema politico, importato direttamente dalle colline di Benevento. Io, modesta osservatrice, qualche dubbio sull'uomo ce l'avevo. Non è che la sua fosse una posizione politica di specchiata evidenza. Non è neanche che avesse detto che il centro sinistra era la sua area di riferimento. Insomma, niente che potesse far ritenere di avere a che fare con un alleato di ferro. Non è che il governo sia precipitato, ovviamente, a causa di quest'uomo verso il quale, lo ammetto, nutro una spudorata ammirazione; certo è che la sua presenza (sola presenza) ha favorito l'accelerazione di un processo bla bla bla bla.....che ha portato e porterà non poca acqua al mulino dei due maggiori antagonisti (ah ah ah) del momento. Il sindaco di Roma - tanto per esser chiari - poteva forse continuare a fare il sindaco di Roma per altri quattro anni mentre avrebbero potuto apparire all'orizzonte altri giovanotti (!) al par suo (e forse meglio) pronti a pilotare il paese di qua e di là? E l'homme d'Arcor poteva forse restare inattivo mentre il primo che si svegliava (dalla sua o dall'altra parte poco importa) dichiarava che avrebbe corso da solo? Insomma, oggi non è successo niente di nuovo se non un naturale svolgimento e relativa conclusione dell'attuale vicenda politica. Di questa faccenda l'aspetto più interessante riguarda, guarda caso, il modo in cui torneremo (torneranno, io, questo giro, passo) a votare. Alla fin fine, chi questa materia la destreggia o la scruta lo sa bene, il problema è proprio lì. Nel sistema elettorale: maggioritario, proporzionale, un po' dell'uno e un po' dell'altro, con uno sbarramento al 3 o al 4 o al 5, poco importa. Il fatto è che andremo alle urne con le famigerate liste bloccate contro le quali mi indigno nella mia duplice veste di cittadina e di consulente (praticamente la campagna elettorale diventa un optional). Accetto delle scommesse. E' pensabile che gli attuali parlamentari (che non sono riusciti nemmeno a doppiare la boa della pensione) si facciano scippare il posto da delle eventuali new entries? Io che li conosco bene direi proprio di no. E già li vedo mentre spostano le pedine sulla scacchiera: e tu vai lì e tu vai là e tu farai il sottosegretario e tu.... C'è stato un momento in cui - l'ho già raccontato -, in una certa parte politica si stessero azzuffando per l'occupazione dei diversi ministeri quando nulla lasciava presagire una caduta o una crisi del governo... In queste ore, nelle prossime! quanto sarà intenso il livello di contrattazione? Fantastico! E' fiction allo stato puro. Ci sono gli attori, c'è il mezzo (la televisione), c'è il plot, gli sceneggiatori che lo ritoccano, gli scenografi che imbelliscono, le battute spontanee, le comparse, gli ingaggi, la risposta del botteghino, le critiche dei critici, i cineforum. Segue dibattito.

Microfisiologia partigiana della crisi / Ilvo Diamanti

L'analista cinico e disilluso, abituato a trattare in modo cinico e disilluso la nostra democrazia cinica e disillusa potrebbe riassumere in modo cinico e disilluso l'esito di questa legislatura - ansiogena e convulsa. Usando, come approccio la "fisiologia partigiana". La patologia partitica, dettata dalla dipendenza del nostro sistema da una pletora di formazioni piccole e piccolissime. Partiti minuscoli, senza ideologia e senza programma. Perlopiù, riconducibili al solo leader. Alimentati e riprodotti da un sistema elettorale che impone le coalizioni preventive. E da una distribuzione del voto che divide gli italiani in due. Antiberlusconiani contro anticomunisti. Partiti che valgono poche centinaia di migliaia di voti. Per riferirsi all'ultimo punto di crisi: l'Udeur ha raccolto circa mezzo milione di voti, nel 2006. L'1,4% dei voti validi, ottenuti perlopiù in Campania. Determinanti, dato l'equilibrio delle forze in campo. Non solo fra gli elettori, ma anche in Parlamento. E soprattutto in Senato. Dove, infatti, numerosi "soggetti politici" sono in grado di condizionare le scelte della "maggioranza". Partiti individuali - o quasi - e individui senza partito. Pallaro, Di Gregorio, i Liberal-Democratici (LD: come Lamberto Dini), Turigliatto. E altri ancora, la cui visibilità dipende dal momento. Ovvio che ogni partito con basi elettorali limitate e tanto più i partiti individuali, presenti solo in Senato, temano ogni legge che ne metta a rischio l'esistenza. Ma anche l'influenza. Leggi maggioritarie veramente maggioritarie? No grazie. Proporzionali? A condizione che non pongano vincoli troppo esigenti. L'ideale: un proporzionale con soglia di sbarramento allo 0,5%. Oppure, in alternativa: una legge elettorale che "costringa" tutti a indicare le alleanze "prima" del voto. Così che, in un clima di incertezza tanto elevata, nessuno possa rinunciare a nessuno, se vuol vincere le elezioni. Leghe locali, pensionati, casalinghe, consumatori; e domani, immaginiamo, tassisti, professionisti e nimby di ogni genere, tipo e latitudine.

Nessun Vassallum e nessuna bozza Bianco; ma neppure il sistema tedesco (5% di sbarramento? Entrerebbero solo 5-6 partiti). Unica soluzione? Il "nanarellum". Un sistema elettorale che garantisca esistenza e influenza ai "nanetti", come li chiama Giovanni Sartori. Per questo, l'analista cinico e disilluso vede nel collasso di questi giorni un esito annunciato da tempo. A prescindere dalle inchieste dei magistrati. Qualcuno l'aveva pure detto, nei mesi scorsi. Ci pare Mastella, ma non vorremmo sbagliarci. (Anche perché non è il solo ad aver detto cose simili). Recitiamo a memoria: "Se si va al referendum, se questa maggioranza pensa di sostenerlo o di permetterlo; se accetterà "derive" maggioritarie, si sappia che il governo non durerà un minuto di più". Sarà un caso, ma la defezione di Mastella e dell'Udeur è venuta all'indomani della decisione della Corte Costituzionale, che ha decretato la legittimità del referendum elettorale; dopo il sostanziale stallo (fallimento) del negoziato (fra interessi impossibili da comporre) sulla legge elettorale, promosso da Veltroni e sostenuto, a parole, da Berlusconi; dopo la volontà, dichiarata da Veltroni, di far procedere il PD "da solo". Oggi, in sede negoziale. Ma anche domani, alle elezioni.

Sembra la cronaca di una fine annunciata. Colpisce una legislatura che, superato questo cupo gennaio, scivolerebbe, inevitabilmente, verso la prova del referendum.
Una questione di "fisiologia politica": è l'istinto di sopravvivenza dei partiti minimi (e non solo il loro) che sembra spingere alle elezioni, al più presto possibile. Per votare con il vituperato "porcellum". Meglio "porcelli" ma vivi, insomma.

E' una lettura cinica e disillusa, da analista cinico e disilluso. Banale e qualunquista: ce ne rendiamo conto. Utilizza argomenti mediocri. Fa riferimento agli istinti politici più elementari invece che agli accesi dibattiti dei giorni scorsi. Svaluta le polemiche aspre riguardo al rapporto fra magistratura e politica, Chiesa e Stato, cattolici e laici, Nord e Sud. I temi, gravi, della politica economica, finanziaria, internazionale, la sicurezza, l'occupazione, le morti sul lavoro. Trascura perfino la contrapposizione - a suo modo passionale - fra antiberlusconiani e anticomunisti. Dedica attenzione massima a cose minime, insomma. Lo stesso approccio, cinico e disilluso, tuttavia, suggerisce pensieri diversi e quasi opposti. Che sollevano qualche dubbio sulla fine anticipata - anzi: immediata - della legislatura. Sulle elezioni subito: ad aprile. Contro queste prospettive congiura l'istinto di conservazione dei parlamentari. Molti dei quali, se legislatura non arrivasse a metà percorso - se finisse prima di ottobre, insomma - perderebbero il diritto alla pensione. Rinuncerebbero ai numerosi benefit offerti loro dall'attuale carica. Senza alcuna garanzia di venire ricandidati e rieletti. Perché ogni seggio lasciato rischia di essere perso. Perché la concorrenza cresce sempre di più (se Mastella e l'Udeur, putacaso, confluissero nel centrodestra, a chi leverebbero posto? Posti?). Osservazioni venali e veniali di fronte alla gravità del momento e alla serietà dei motivi gridati dagli attori politici che interpretano la crisi attuale. Temi etici, estetici, programmatici, economici, deontologici, istituzionali, costituzionali e altro ancora.
Sbaglia sicuramente l'analista cinico e disilluso, quando descrive una "democrazia minima", i cui destini si decidono a Ceppaloni. Quando racconta farse che finiscono in tragedia.
La Repubblica
(24 gennaio 2008)

martedì 15 gennaio 2008

ITALIAN CHOICE


Non vedo l'ora di andare al BIT (Borsa Internazionale del Turismo) a vedere gli stand del Ministero del turismo, della regione Campania ecc. ecc.

REBRANDING

Signor Presidente del Consiglio, mi chiami pure senza esitazioni. La mia parcella sarà lieve come il passo del suo portavoce. Il Paese ha bisogno di un po' di pubbliche relazioni e anche di dare una sistematina all'immagine e infine risposizionarsi sul mercato internazionale. Non so se ha presente, ma questo è affar mio. Insomma, è il mio lavoro. Ingrato quanto vuole ma anche divertente soprattutto davanti ad episodi come quelli di questi giorni. Ho un paio di amici giornalisti nel resto del mondo ai quali potrei spiegare che è tutto uno scherzo e che i fricchettoni della Sapienza sono dei prezzolati come quelli che a Cagliari hanno buttato i cassonetti in casa del governatore. E' un periodo in cui questo paese è particolarmente gioviale. Vuole che le dia una mano per capire come comunicare, date le circostanze? Ho qualcosa di divertente in mente e sono incredibilmente spiritosa, molto più di quanto possa apparire da queste righe frettolose. Vuole mettermi alla prova? Vuole qualche idea geniale? Nel mio studio (agenzia è un termine TROPPO d'antan) ci sono solo donne straordinariamente sveglie che in tempi di campi flegrei e di santità ontate ne inventano una più del diavolo. E siccome l'altro giorno sulla 44a St ho sentito due che dicevano che per venire in Italia bisogna farsi il vaccino contro l'epatite B forse è il momento di ridefinire l'immagine di questo Paese. Noi lo chiamiamo rebranding. Do you know? Solidariamente sua.

Appartenenza

Rivendico la mia fede ostelliniana.

lunedì 14 gennaio 2008

On my road

Jack Kerouac si è firmato nel 1948, in una lettera esposta oggi alla Public Library di New York, "ribelle reazionario".
Delizioso. Come lo capisco! Ah! Come lo capisco!!!

domenica 13 gennaio 2008

GOD BLESS OBAMA


Mon dieu! Ancora frastornato per l'affaire Sarkò/Brunì (così mi chiamava mia zia da piccola) il mio cuore sta precipitando in un ulteriore intermezzo ideologico/razziale/sentimentale. E adesso chi lo dice al President che sono leggermente (ligth) fall in love per the next president? Sono così drammaticamente frivola e priva di pudore ideale (ideologico?) che mentre conficco aculei nella bambolina di pezza dell'usurpatrice già penzolo oltreoceano in direzione del neretto più hot del mondo. Le cose sono andate, più o meno, così. LORO vanno in Egitto? Bene, io vado in Iowa e, già che ci sono, anche nel New Hampshire. Il perchè è ovvio: come potrei far comunicare gli altri se non so come comunicano on e off the record i politici più comunicatori del mondo? Bè, alla fine ho preso un aereo (Delta, of course) e sono finita sotto la neve che imbiancava le primarie. L'obiettivo, è ovvio, era quello di scrutare Hillary (e, devo ammettere, anche Giuliani...). Tralasciando le tappe di consolazione da Victoria's Secret, Saks Fth, ecc. ecc. quello che mi si è parata innanzi era, come da vent'anni a questa parte (tanti sono quelli che seguo da vicino l'american campaign) , la rappresentazione di una campagna elettorale. Voglio dire che gli americani sono dei geni nell'hollywoodiare la politica e, di conseguenza, nel trasformare i candidati in primi della classe degli actor's studios. Avete presente il Dr. House, o ER o Sex and the City o Friends? Ebbene, sono dei serial assolutamente second hand rispetto alle sceneggiature interpretate dai candidati presidenziali nei diversi stati dove si vota (si fa una prima scrematura) alle primarie. Io sono assolutamente certa che il sistema elettorale americano sia in europa praticamente sconosciuto e mi guardo bene dal raccontarlo qui (modestamente...). Diciamo che il voto dell'Iowa (si legge àiova) ha dei contenuti scaramantici. Innanzi tutto è il primo Stato in cui si vota e notoriamente, chi ben inizia... Eppoi è talmente difficile da raggiungere, gelido, ecc. ecc. che tradizione vuole che chi riesce a passare il turno da quelle parti abbia poi la strada, se non in discesa, per lo meno agevolata. Ovviamente questa che spiega è la mia parte frivola. Quella più seria (inesistente) dovrebbe anche dire che lì votano non solo gli iscritti ai registri elettorali ma anche i normali cittadini meglio noti come incerti . Insomma, la storia non è semplice come pare. Sia come non sia, arrivo di fronte a Hillary. Non è che la Signora sia un mostro di eleganza e che abbia letto gli appunti di Haudrey (due Haudrey non basterebbero a fare una sua gamba) tant'è che si presenta con un tailleur pantalone (chiamiamolo pure con il suo nome: abito maschile) azzurro perverso (blu microsoft, tanto per intenderci). La cosa procede in questo modo: prima si svolge il dibattito con i candidati repubblicani e poi quello con i candidati democratici. Il giornalista è simpatico, non c'è un caldo torrido, McCain è divertente, Giuliani continua a ripetere che lui è stato un sindaco... mi piace molto quando si azzannano i candidati dello stesso partito. I candidati si fanno i conti in tasca: "tu hai speso più di me" e, se non si sta attenti, potrebbero sembrare di partiti diversi. Bush viene ignorato, anzi, McCain dice che non vuole essere il terzo mandato dell'"attuale presidente", nessuno sta a destra, nessuno sta a sinistra, il centro del centro è il punto politico gravitazionale del mondo. Se la cavano tutti modestamente. E il next president of the united states? Io non lo vedo anche perchè mi sono rimpinzata di muffins, ho caldo, freddo e sonno. Obama e Hillary salgono sul palco dopo i consigli per gli acquisti. Sono lì per Hillary e quindi mi sveglio che è una meraviglia. Convenevoli tra candidati. Splendido! Nel passaggio dei tavoli c'è uno scambiarsi di baci&abbracci commovente. Tutti (loro) che si dicono: ma che bravo che sei stato!, ma no, vedrai che tu sarai meglio di me! ma quando mai! very nice, babe! E mentre assistiamo a questo melting pot tra asini ed elefanti il ragazzo più giovane, neretto ma non troppo, che gronda control da tutti i pori abbandona l'allegra compagnia e si avvia, udite udite! verso me, ovvero il pubblico. E mentre gli altri ipocritamente si sbaciucchiano, come un VERO CANDIDATO si protende verso la gente e TENDE LA MANO a tutti. Non come uno che è appena arrivato ma come fosse lì da sempre. Ah, Barack! Lì ho capito che sei il candidato della mia vita! Tu che ti chiami inspiegabilmente come la mia vecchia password! Che sorpresa! E che charme! Se non fossi in pieno marasma sentimentale a causa del President fedifrago mi sarei prostrata ai suoi piedi offrendogli i miei servigi (direct mail, press office, polls...). David Axelrod permettendo (il suo VERO consulente). E mentre il sublime ragazzo recitava divinamente la parte del next president quella che è convinta di esserlo recitava quella di sua maestà, un po' disgustata di trovarsi a contatto con dei personaggi che le facevano perdere del tempo mentre lei avrebbe dovuto essere già nella cucina della Casa Bianca a ordinare il bombardamento di uno scocciatore. Che dibattito! Uguale uguale a quelli che si svolgono tra candidati in TUTTO il mondo e innescato dal giovanotto fresco di Harward e nato nelle Hawaiian Is. che dice, dice esattamente così: "I'm the change". E non lo dice a vuoto perchè sui suoi signes è scritto proprio così: CHANGE. Che vuol dire, quanto meno per un fatto di dollaro ed euro: cambio, cambiamento. Alla Hillary và il sangue alla testa. Il cambiamento? Io sono il vero cambiamento! Io sono una donna e rappresento il cambiamento in questo paese! Ed Edwards che, privo di sangue, incalza che NO! il cambiamento è lui. E avanti così. 40 minuti a dirsi l'un l'altro chi è il cambiamento e chi no. Ovviamente cercando di portare tutti l'acqua al proprio mulino. Insomma, la situazione è così paradossale che a un certo punto il giornalista deve fare da arbitro e ricordare che non vale se sono in più d'uno (Obama ed Edwards) a scagliarsi contro un altro (Clinton). La signora in blu è furente, tagliente e avvelenata e gli ribatte "Ci voleva tanto per capirlo?". Insomma, un disastro. Lui, il morettino, conviene con il fatto che il dibattito si è concentrato su di lui. E così è. Il suo headline occupa tutto lo spazio televisivo e no. Io sono beata, Hillary furibonda, Obama in control, gli altri non ci sono. E' andata così, in una serata in cui non smetteva di nevicare e la giornalista della CNN relazionava il mondo con in mano un metro che di tanto in tanto conficcava nella neve per dimostrare che era in diretta e che tanta neve così, nello Iowa, non la ricordava (lei).

sabato 12 gennaio 2008

OSTELLINO DOCET

IL «MANIFESTO DEI VALORI» DEL PD

Un tuffo nel passato

La lettura dell' odierno «Manifesto dei valori» del Partito democratico, redatto da Alfredo Reichlin, (ri)suscita nello studioso di filosofia e di scienza politica un irrefrenabile moto di ammirazione per il «Manifesto del partito comunista » di Karl Marx (e Friedrich Engels) del 1848. Tanto gli strumenti concettuali utilizzati da Marx erano la punta più avanzata della cultura della sua epoca, quanto quelli utilizzati da Reichlin appaiono la retroguardia della cultura di oggi. Più che il frutto del pensiero filosofico e politico contemporaneo, il Manifesto del Pd sembra il risultato di uno scavo archeologico nel socialismo utopistico, ieri degenerato storicamente nel comunismo, oggi parzialmente mitigato dalle «dure repliche della storia », la vittoria della democrazia liberale, del capitalismo e dell'economia di mercato.

Il Pd, «un partito aperto », «un laboratorio di idee e di progetti», nasce dalla necessità di «interpretare i processi storici e culturali in atto». Parrebbe una riedizione, per quanto tarda, del socialismo scientifico del giovane Marx del Manifesto del 1848, come «sociologia del capitalismo». Invece, è filosofia della storia, provvidenzialismo, modello teologico, nella (hegeliana) convinzione che la storia proceda verso un fine ultimo e che compito della politica sia quello di prevederne il cammino e di gestirlo, mentre la storia procede secondo la regola della «prova e dell' errore». Esigenza primaria del nuovo partito è, dunque, «il governo delle conoscenze». Negazione, questa, del concetto di «dispersione delle conoscenze » che è alla base della sociologia moderna (Max Weber), dell'individualismo metodologico (Friedrich von Hayek) e della società aperta (Karl Popper), cioè del processo attraverso il quale gli uomini, nella libertà, producono «inconsapevolmente » benefici pubblici attraverso comportamenti individuali non prevedibili e programmabili.

Per il Pd, «la libertà deve essere sostanziale e non puramente formale ». È l'anacronistica riedizione della convinzione dei marxisti che solo con l'abolizione dei rapporti di produzione capitalistici e la sconfitta della democrazia liberale sarebbe nata la piena libertà. In che cosa, poi, consisterebbe tale libertà «sostanziale » il Manifesto del Pd non lo dice chiaramente. Sembra di capire si tratti (genericamente) della libertà cosiddetta sociale di cui già Isaiah Berlin ha fatto giustizia nel saggio Le due libertà. Quella negativa (liberale), come «non impedimento» per l'Individuo; quella positiva (democratica), come interferenza collettiva nella vita degli individui, con le sue ricadute totalitarie. In realtà, l'aggettivo «formale» certifica la superiorità della libertà borghese rispetto ai regimi che hanno preceduto la democrazia liberale e a quelli comunisti che le sono succeduti. Un processo politico è descrivibile solo se individua momenti in cui le regole del gioco sono formalizzate. In caso contrario, non si può parlare di evoluzione del processo, ma di «stato di natura» (ciascuno fa quello che gli pare e vince il più forte). Il «Principe » cioè, oggi, lo Stato e chi lo controlla, è legibus solutus, non è esso stesso sottoposto a regole del gioco (pre)definite.

«L'individuo, lasciato al suo isolamento— dice a questo punto il Manifesto del Pd— non potrebbe più fare appello a quella straordinaria capacità creativa che viene non dal semplice scambio economico, ma dalla memoria condivisa, dall'intelligenza e dalla solidarietà, dai progetti di domani». E ancora: «Noi vogliamo non una crescita indifferenziata dei consumi e dei prodotti, ma uno sviluppo umano della persona, orientato alla qualità della produzione e della vita». Qui siamo alla traduzione dell'etica in politica, anticamera della dittatura. Poiché in Marx non c'è una vera teoria dello Stato, questa volta è Lenin di Stato e rivoluzione a venire in soccorso dei redattori del Manifesto del Pd. Che pasticcio... Potrei continuare. Ma mi fermo qui. Non perché quello del Manifesto sia un programma pericoloso. Figuriamoci. Solo perché a me pare unicamente il frutto di una memoria politicamente ripudiata, ma culturalmente non ancora dimenticata.