Ho trovato questa irresistibile lettera, inviata al Foglio, di Massimo Fini. Da leggere. E rileggere.
Gentile Direttore,
mi si chiede, in concomitanza con la riedizione della raccolta dei miei articoli polemici, pubblicata nel 1990 da Mondadori coll’ironico titolo Il Conformista, di dire perché mai gli intellettuali italiani siano conformisti in modo così evidente e orripilante.
Ti confesso che non sono sicuro di avere una risposta. Innanzitutto la questione non riguarda solo la cultura italiana. È vero che già Foscolo distingueva fra i letterati, cioè gli artisti di Corte, e gli altri, e ne sapeva qualcosa, avendo dovuto finire la sua vita in esilio, a Londra. Ma anche il francese Julien Benda parla del Tradimento dei chierici e Dostoevskij nei Demoni fa una sferzante satira di Ivan Turgenev (mascherato nel libro sotto il nome di Stephan Trofimovic), classico intellettuale gradito al regime degli zar, mentre lui era costretto ad arrabattarsi scrivendo romanzi d’appendice per i giornali.
La questione è quindi, almeno tendenzialmente, universale. Né la si può liquidare semplicisticamente col fatto che l’intellettuale è irresistibilmente attratto dal Potere per puro cinismo e opportunismo. Tutta la lunga stagione delle ideologie è stata segnata dall’intellettuale engagée, l’intellettuale impegnato che in una di quelle ideologie credeva in buona fede. Erano i «compagni di strada» di cui Jean-Paul Sartre è stato l’esempio più famoso. Era l’epoca dell’egemonia della cultura di sinistra. Ma è anche vero che chi cercava, parzialmente o totalmente, di sottrarsi veniva massacrato dagli apparati del Partito comunista.
È quanto accadde ad Albert Camus, colpevole di aver denunciato, nel 1953, i lager staliniani. È quanto era accaduto, anni prima, a Ignazio Silone, inviso alla destra in quanto comunque ex comunista e alla sinistra perché abiuro. È quanto toccò a Giuseppe Berto che nonostante vendesse i suoi libri a centinaia di migliaia di copie, fu emarginato e costantemente osteggiato dalla cricca dei Moravia, degli Eco, dei Milano (critico dell’Espresso, sia ricordato per i più giovani). E persino Pier Paolo Pasolini dovette fingersi comunista, per sopravvivere, pur essendo nella sostanza un reazionario e un tradizionalista nostalgico di una cultura popolare che veniva pian piano strangolata e assassinata dall’avanzare dell’omologazione globalizzante (si rileggano Descrizioni di descrizioni, Einaudi).
Ma suppongo, Direttore, che la tua domanda riguardi il conformismo degli intellettuali italiani di oggi. Be’, ammesso che io sia un pulpito credibile, penso di poter dire che morte le ideologie, cioè le motivazioni ideali, oggi tale conformismo ha le sue radici solo nell’opportunismo, nel voltagabbanismo, nella viltà. In una stagione in cui, in realtà, non c’è più alcuna vera differenza fra destra e sinistra, avendo accettato entrambe il libero mercato, il modello di sviluppo a stelle e strisce e, insomma, la Modernità (il che forma quel «pensiero unico» di cui tanto si parla senza sapere che cos’è), si sta con l’una o con l’altra a seconda della propria convenienza e del trasformismo che è, esso sì, un’antica consuetudine italiana. Diventata, in questi ultimi anni, la destra egemone politicamente, abbiamo assistito a transumanze, a immigrazioni intellettuali più impressionanti di quelle dei boat people.
Non c’è intellettuale che, dichiarandosi radicalmente avverso al Regime, non abbia accettato un posto nel consiglio di amministrazione Rai. Che del Regime, di qualsiasi regime, è il centro (gli intellettuali sono dei segaioli con mogli orrende, e non possono resistere alla tentazione di poter ricattare qualche ragazza in cambio di una particina in una fiction).
Inoltre, in termini più generali e meno pecorecci, mi pare che sia scomparsa, soprattutto nel giornalismo, la figura del «bastian contrario», cioè di quella foglia di fico di cui i Direttori si servivano per coprire le proprie vergogne, ma alla quale era permesso di trasmettere opinioni eterodosse e aliene che, giuste o meno che siano, sono comunque vivificanti e stimolanti per una cultura che non voglia asfissiarsi in se stessa. Questa funzione hanno avuto, ognuno a modo loro, Indro Montanelli, il Bocca dei tempi migliori e lo stesso Pasolini. E qui trovo, oggi, una differenza con i nostri cugini francesi e con gli americani. In Francia o negli Stati Uniti non ci sono mai stati dubbi sul fatto che intellettuali e scrittori radicalmente ostili al sistema, come Baudrillard, come Virilio, come Gore Vidal, come Susan Sontag, come il cupo Noam Chomsky, avessero pieno diritto di cittadinanza nell’intellighentia nazionale.
Da noi no. Chi non fa parte delle bande della destra o della sinistra è fuori dal circolo, è escluso dal dibattito nazionale, è un paria, uno che non esiste, sul quale viene stesa una coltre di silenzio che è la sorte che tocca - come prevedeva Montanelli nella prefazione al mio Il Conformista - «ai conformisti che non si conformano».
Massimo Fini