venerdì 7 novembre 2008

WE ARE AMERICANS

Lo confesso. Sono un’infiltrata della rete, un’abusiva di linkedIn, un ologramma esistenziale, una vile virtuale, una zelig di facebok, una piratessa di myspace, una divulgatrice di false aspettative, una zecca di netlog, un’ambigua e opportunista supporter di Obama e della Palin così come una nevrotica aderente ai gruppi di quelle che senza 1.000 scarpe non possono vivere (vero) e che adorano John Galliano (verissimo).
Alla faccia di quelli che dicono che i social network sono la nuova frontiera e lo specchio (reale) della nuova società, io in quell’intrico di rapporti mi ci sono buttata a capofitto con una decina di identità diverse e venga pure un giudice postale a dirmi che sono condannabile per falso in atto virtuale. Per farla breve sono una dei molti guardoni della politica che trafficano su internet per vedere che cosa stiano facendo gli altri o che cosa gli altri stiano raccontano di fare. Con questo spiritaccio tutto pettegolo mi sono infilata sia tra le truppe virtuali di Obama sia tra quelle di McCain. Eccomi quindi a dover ammettere di aver sia vinto sia perso ma di aver anche ultimamente sfacciatamente favorito, con la mia attività malandrina, la vittoria del presidente più sexy della storia americana (siamo quasi 30 mila scalmanate a sostenerlo con motivazioni spesso censurabili).
Mi sono molto data da fare in Virginia e nell’Ohio pur tenendo d’occhio la California dove mi sono impegnata anche in un paio di referendum sui matrimoni omosex e una storia complicata di aborti di minorenni. E solo Bill Gates sa quanto ho cliccato per abolire le corse dei cani in Massachusetts…
Ho fatto sapere a Joe the Plumber che se fosse vissuto in Italia (tra i volunteers del repubblicani c’è anche una mia versione italo-americana) sarebbe già il portavoce del governo Berlusconi mentre ho scoperto che tra i boys di Obama c’era una moltitudine di mandanti di Sarkò lì per vedere come dare una botta multirazziale all’inquilino dell’Eliseo nel prossimo giro elettorale quando le folle (foulles) imploreranno un presidente meticcio.
Perché questo è il trend e io che in quest’ultimo mese mi sono data da fare un po’ in tutto il mondo ho ben capito che se non si è giovani e nericci non si va da nessuna parte. Se poi si è anche intelligenti la presidenza del paese più potente del mondo è garantita.
Avrei quindi dei consigli da distribuire, anche perché le news letter dell’organizzazione del vecchio Joe e del vigoroso Obama me le sono ben studiate e ho rispettato rigorosamente le istruzioni di Mary e di David, quelli che più volte al giorno mi dicevano su che cosa cliccare. Su questo fronte, devo ammetterlo, il veterano del Vietnam è stato un po’ superficiale e ho le prove che il suo staff fosse pieno di babbione obese (quando ho raccontato a una tale Gail di essere una cinquantenne del Nevada mi ha mandato la foto con i suoi quindici nipoti. Troppo entusiasmo per non essere autentico…).
Quelli di Obama (per loro il mio anno di nascita è il 1984 e vivo anche nell’Indiana, swing state of course) fino a quando non ho raggiunto i 4 mila contatti non mi hanno dato tregua e c’è anche stato un tizietto che mi ha rimproverata di assenteismo (quando loro erano in pieno delirio e al trentesimo briefing per me era ora di andare a dormire, ma come farglielo capire?).
Nell’ultima settimana, tranquillizzata anche dalla presenza fisica del vispissimo friulano Simone Bressan tra i volontari della Palin, ho mollato i contatti con i seguaci dei rossi (repubblicani) e mi sono buttata a peso morto sullo staff di Obama stracolmo di miei coetanei (eh eh!) avezzi, ahimè, a chattare nell’universale linguaggio degli sms (g’t tk sgn dak Boh!). Abbiamo condiviso l’endorsment di Colin Powell (dio! Quanto mi piaceva vestito da generale con il berretto infilato nella mostrina!), monitorato i minuti che la Cnn dedicava all’avversario, segnalato i transfughi, commentato i blog di mezzo mondo per convincere che Obama era il vero cambiamento.
E così, a meno di 24 ore dall’evento, nei mie sessantacinquecentimetriquadrati di mondo al silicio, mi sono arrivati i ringraziamenti del Presidente e di qualche migliaio di ragazzi di tutti i colori del mondo america (tutto il mondo) per dirmi che Yes we did. Ce l’abbiamo fatta. E ce l’ho fatta anch’io a reggere ai diversi copioni che prevedevano che dicessi che ero troppo impegnata (no pty.t bsy) per andare al party di Denver o che i genitori mi avevano vietato di prendere il treno per l’Alaska o che non avevo distribuito tutti i signs causa febbre (srr!election’s fever).
Questa che ho raccontato è una favola di oggi vissuta in una stanza (è la stanza tutta per me) con i gerani ancora fioriti sulla finestra e di cui, su Google Earht, si vede il tetto così come quelli delle case dei tanti volontari sparsi nel mondo che un po’ seriamente e un po’ scherzando hanno dato vita a gruppi su gruppi di giovani e meno giovani spinti dalla voglia di vedere come andasse a finire. Fatta la tara e tolti i birbanti come me, rimangono qualche milione di persone che hanno creduto nell’american dream dei sogni liberal , quelli, per intenderci, che qui in Italia si sono intrufolati nei due canali televisivi dei Neodem e dei Red il cui segnale, nella notte delle elezioni americane, era stranamente debole e talvolta, ma forse anche questa me la sono sognata, del tutto assente.