lunedì 29 dicembre 2008

PERCHE' ISRAELE NON SBAGLIA


Con la decisione di ritirare le truppe israeliane da Gaza, Ariel Sharon aveva offerto ai palestinesi un’opportunità. Al tempo stesso, però, il passaggio della sua amministrazione nelle loro mani aveva creato obbiettivamente le premesse di una loro spaccatura. L'opportunità consisteva nella possibilità che le fazioni nelle quali il movimento era diviso abbandonassero la lotta armata, si unificassero sotto Al Fatah e partecipassero al processo di pace con Israele, voluto da Usa e Europa. Le premesse della crisi stavano nell’eventualità di un acuirsi della divisione fra integralisti, contrari a soluzioni di pace, movimento palestinese moderato e governi islamici favorevoli. La crisi di questi giorni conferma che, fra le due prospettive, a prevalere è stata la seconda. Ancora una volta sono state le divisioni all'interno del movimento palestinese e, in parte, dello stesso mondo arabo a prevalere, riaccendendo il conflitto. Con il lancio di missili da parte di Hamas contro le popolazioni israeliane limitrofe, cui ha fatto seguito l'inevitabile reazione di Israele.

Il successo di Hamas nelle elezioni per l'amministrazione di Gaza, nel gennaio 2006; la rottura, nel giugno 2007, dell'accordo con Al Fatah, raggiunto solo poco più di tre mesi prima, nel febbraio dello stesso anno, ne erano state le avvisaglie. C'è un convitato di pietra che blocca ogni possibilità di pace. È l'Iran. Che sostiene il rivendicazionismo di Hamas; che, con la sua corsa all'armamento atomico, inquieta Israele, l'Occidente e pressoché l'intero mondo arabo, dall’Arabia Saudita—promotrice, nel marzo 2002, dell’iniziativa Arab Peace e fallita nel 2007 — all'Egitto, alla Giordania. Forse non è superfluo ricordare che l'articolo 7 della Carta di Hamas non propugna solo la distruzione di Israele, ma lo sterminio degli ebrei, così come sostiene il presidente iraniano Ahmadinejad; che all'articolo 13 si invoca la guerra santa; che il nazionalismo del movimento affonda le sue radici nell’interpretazione di Teheran della religione. La maggioranza del mondo arabo è per la pace. Lo testimoniano — al di là delle condanne di rito di Israele e delle manifestazioni di piazza—le reazioni alla crisi di Fatah. Abu Mazen, il presidente dell’Autorità palestinese, ha ricordato di aver implorato Hamas a non rompere il cessate il fuoco. L'Egitto fa trapelare che esiste un piano Iran-Hamas-Fratelli musulmani per creare disordini in Palestina e nel suo territorio. Tacciono la Giordania, l'Arabia Saudita, i palestinesi della West Bank. L'attacco israeliano—invece di ricompattarlo contro Israele, come vuole una tesi propagandistica anti israeliana — ha rinsaldato il mondo arabo contro Hamas e l'Iran. È un ulteriore segno che Ariel Sharon aveva visto bene.

Pietro Ostellino dal Corriere della Sera

29 dicembre 2008

giovedì 18 dicembre 2008

SI VOTERA' DI SABATO E DOMENICA


Per le amministrative e le europee 2009 ci sarà un «election day», il 6 e 7 giugno del 2009. Lo dice il ministro dell'Interno Roberto Maroni, in conferenza stampa a Palazzo Chigi. «Il voto- spiega- interessa oltre 4 mila comuni e 73 province, oltre alla tornata per le europee. Si voterà sabato 6 pomeriggio, invece del lunedì, e tutta la domenica 7 giugno».

sabato 6 dicembre 2008

SANTORO E GLI ALTRI (NAUFRAGHI A VITA)


All'Isola, all'Isola! Come farebbe bene un po' d'Isola dei famosi a gente come Michele Santoro, Sandro Ruotolo, Piero Sansonetti, Norma Rangeri. Un po' d'Isola, madornale sfizio, per grattare via dalla loro dura scorza di combattenti qualche chilo di inutile ipocrisia e malriposta supponenza. Un po' d'Isola per lasciare tutti senza fiato, in silenzio, per una salutare pausa di riflessione.

L'unico modo, come suggerivano Fruttero & Lucentini, perché l'apodittico dubiti, il pontificante scenda dal pulpito, l'agitatore si sieda su una panchina, il gonfiato si sgonfi. Si discuteva ad «Annozero» (Raidue, giovedì, ore 21,10) d'Isola dei Famosi (con il titolo più demente dell'intera collezione: «L'Isola di Obama»), della vittoria «comunista» di Vladimir Luxuria, dell'oscenità del genere. Si discuteva e si mostravano immagini del programma non per ricavarne un qualche traino ma per denunciare la «pornografia dei sentimenti » (definizione di quello scoppiato di Wim Wenders, citata da Simona Santoro), per esercitare un po' di sana pedagogia del reality: per questo lo studio pullulava di norme, paragoni, rondò(lini): bisognava pur piantare dei paletti, segnali di spartitraffico, cavicchi di comportamento.

In Inghilterra, a fine '800, l'ex primo ministro Mr William Gladstone adescava le prostitute solo per adempiere alla pia missione di redimerle. Le cose più intelligenti della serata le ha dette Belen Rodriguez, almeno è stata sincera: c'è molta differenza tra la Rodriguez e la Granbassi che lascia l'Arma per apparire in tv? E c'è molta differenza strutturale tra il reality e i talk officiati da Simona Santoro? E alla vincitrice Luxuria non è mai venuto in mente che la sua sia stata una vittoria pilotata (dal punto di vista linguistico, sia chiaro) a fini di audience? Quando il Servitore del Popolo s'intrattiene sulla politica, spero dimostri un maggior livello di competenza dell'altra sera.

Aldo Grasso Corriere della Sera
06 dicembre 2008

giovedì 4 dicembre 2008

VOGUE FOR EVER


Il Diavolo veste Prada, parte seconda: tra indiscrezioni e smentite la direzione di Anne Wintour a Vogue America potrebbe essere davvero agli sgoccioli. Il New York Post che per primo alcuni giorni fa aveva raccolto le voci di corridoio sulla fine dell"era Wintour' ha oggi ripreso una smentita di S.I. Newhouse, il presidente del gruppo Conde Nast a cui fa capo la celebre rivista di moda: "Mai pensato di sostituire Anna con Carine Roitfeld", la direttrice del ben più smaliziato Vogue France. Newhouse si è però ben guardato dallo smontare il teorema secondo cui la direzione di Anna sarebbe arrivata dopo vent'anni al capolinea. Il problema per la britannica Wintour è che i conti non vanno affatto bene: la crisi economica che ha investito l'America dei giornali ha mangiato pagine di pubblicità anche alla patinata e voluminosa rivista di moda. Conde Nast a fine ottobre ha avviato una drastica cura dimagrante chiedendo ai direttori di testate di tagliare sia lo staff che il budget del 5 per cento. La scure era caduta con particolare violenza su Vogue Living, mandato definitivamente in pensione, e su Men's Vogue, edizione americana, costretto a uscire con solo due numeri all'anno e che potrebbe in un secondo tempo chiudere completamente. La Wintour è direttrice editoriale di entrambi. "Men's Vogue sarà una versione piccola piccola rispetto ad oggi - aveva detto all'epoca una fonte - e questa versione piccola esisterà solo perché Anna possa salvare la faccia". Era stato il segnale che aveva dato via libera alle voci: "Sta pensando di ritirarsi", aveva confidato al New York Post una fonte ben informata: "Anna pensa che ha fatto tutto quel che poteva, che ne ha abbastanza e che è meglio smettere ora prima che il suo universo crolli". Il contratto della Crudelia de Mon della moda a cui nella fiction cinematografica ha dato il volto Meryl Streep sta per scadere: Gawker.com, il principale sito di gossip newyorchese, aveva alzato la posta ipotizzando che Newhouse avesse fatto un viaggio ad hoc a Parigi per reclutare la Roitfeld per la direzione della testata che nonostante tutto resta la più redditizia del gruppo. La voce è stata oggi puntualmente smentita, ma non ha fermato il gossip. Altri nomi hanno continuato a circolare per il posto della Wintour: Cindi Leive, che dirige Glamour, e Linda Wells, al timone di Allure, oltre a Amy Astley, la direttrice di Teen Vogue che a sua volta è una protetta di Anna, e Aliona Doletskaya, direttrice di Vogue Russia. La Wintour ha 59 anni e dirige American Vogue dal 1988 quando ha ereditato il posto dalla leggendaria Diana Vreeland. Sebbene l'autrice lo neghi, sono ispirate a lei le vicende del romanzo Il diavolo veste Prada del 2003, scritto da una sua ex-assistente, Lauren Weinsberger. Giornalista di moda da quando aveva 16 anni, nei 20 anni al timone di Vogue ha lanciato nell'olimpo delle passerelle stilisti americani come Tom Ford o Marc Jacobs che col suo aiuto è diventato direttore creativo della maison francese Luis Vuitton.

mercoledì 3 dicembre 2008

Closet Centrist

In Obama's Cabinet, the Audacity of Moderation
Wednesday, December 3, 2008; A17

It is a lineup generous in its moderation, astonishing for its continuity, startling for its stability.

A defense secretary, Robert Gates, who once headed the George Bush School of Government and Public Service at Texas A&M. A secretary of state, Hillary Clinton, who supported the invasion of Iraq, voted to label the Iranian Revolutionary Guard a terrorist organization and called direct, unconditional talks with Iran "irresponsible and frankly naive." A national security adviser, retired Gen. James Jones, most recently employed at the U.S. Chamber of Commerce, who served as a special adviser to the Bush administration on the Middle East. A Treasury secretary, Timothy Geithner, who is one of Henry Paulson's closest allies outside the administration. A head of the Council of Economic Advisers, Christina Romer, whose writings and research seem to favor low tax rates, stable money and free trade.

It is tempting for conservatives to crow -- or liberals to lament -- that Barack Obama's victory has somehow produced John McCain's administration. But this partisan reaction trivializes some developments that, while early and tentative, are significant.

First, these appointments add evidence to a debate about the political character of the president-elect himself. Conservatives have generally feared that Obama is a closet radical. He has uniformly voted with liberal interests and done nothing to justify a reputation for centrism.

Until now. Obama's appointments reveal not just moderation but maturity -- magnanimity to past opponents, a concern for continuity in a time of war and economic crisis, a self-confidence that allows him to fill gaps in his own experience with outsize personalities, and a serious commitment to incarnate his rhetoric of unity.

All the normal caveats apply. It is still early. Obama is benefiting from being the only player on the stage -- all his pretensions of moderation could be quickly undermined by a liberal Congress, unhinged by its expanded majority. And Obama's social liberalism could still turn Washington into a culture-war battlefield.

But honesty requires this recognition: So far, Barack Obama shows the instincts and ambitions of a large political figure.

Second, Obama's appointments reveal something important about current Bush policies. Though Obama's campaign savaged the administration as incompetent and radical, Obama's personnel decisions have effectively ratified Bush's defense and economic approaches during the past few years. At the Pentagon, Obama rehired the architects of President Bush's current military strategy -- Gates, Gen. David Petraeus and Gen. Raymond Odierno. At the Treasury Department, Obama has hired one of the main architects of Bush's current economic approach.

This continuity does not make Obama an ideological traitor. It indicates that Bush has been pursuing centrist, bipartisan policies -- without getting much bipartisan support. The transition between Bush and Obama is smoother than some expected, not merely because Obama has moderate instincts but because Bush does as well. Particularly on the economy, Bush has never been a libertarian; he has always matched a commitment to free markets with a willingness to intervene when markets stumble.

The candidate of "change" is discovering what many presidents before him have found: On numerous issues, the range of responsible policy options is narrow. And the closer you come to the Oval Office, the wiser your predecessors appear.

Third, Obama is finding the limits of leading a "movement" that never had much ideological content.

His transition has seen the return of a pack of Clintonistas -- Lawrence Summers, Eric Holder, Rahm Emanuel -- prompting talk of Bill Clinton's third term. Some of this is unavoidable. Governing experience generally gathers in the stagnant pools of past administrations.

But the resurrection of Clintonism is more pronounced because Obamaism is so wispy and indistinct. Obama brings no cadre of passionate reformers with him to Washington -- no ideological vision cultivated in think tanks for decades. Instead, he has turned to experience and competence in his appointments -- which often means returning to the Clinton era. Experience is vital, especially in avoiding rookie mistakes. But, strange as it sounds, a president can become isolated within his own administration -- his agenda undermined by inertia, resistance or conflicting priorities. Obama eventually will need to define Obamaism and cultivate allies in his own administration who will fight for his enthusiasms.

Whatever the caveats, Obama is doing something marvelously right: He is disappointing the ideologues. This is more than many of us hoped -- and it is causing some of us to raise our hopes in Obama again.

michaelgerson@cfr.org

CHI HA PAURA DI HILLARY CLINTON?

In a period that has been less a traditional transition than an incremental inauguration, Obama so far has performed masterfully. Before the Mumbai terrorist attacks, he dominated the news and drove world financial markets with three successive press conferences, announcing a heavyweight economic team and previewing a deficit-heavy stimulus package. Last week, markets rose on the updraft of Obama’s words; evidently, there is a futures market for hope (though as Monday’s steep decline revealed, that doesn’t alter the dreary fundamentals).


At his national security press conference on Monday, Obama introduced a team that not long ago would have been as unexpected as his own election. He has engaged a retired Marine general as National Security Adviser and re-enlisted Bush’s Secretary of Defense to help engineer his withdrawal from Iraq. (I don’t share the apprehension of some Democrats about Obama’s choices; he won’t break his pledge on Iraq, which would shatter both his credibility and his party.)

The star turn belonged, of course, to Hillary Clinton, whose elevation to Secretary of State was opposed by some of Obama’s closest advisers. Some still worry about the risks, real or imagined. In the latter category is the notion that Clinton somehow will outshine President Obama. But no one in a cabinet outshines the President, and Obama has less to fear in this regard than most.

Other risks, however, are real. To dispel them, Clinton will have to pass the Hillary Test in the days and months ahead.

First, will she be a team player or a barely disguised competitor?

During the making of this Secretary of State, the leaks from her camp weren’t encouraging. She was inclined to say “yes” and then “no” and then “yes” again; she had to pick her subordinates; she needed guarantees about her role. High Clintonian drama was thus introduced into the precincts of No Drama Obama. Some of Clinton’s concerns were reasonable, but there was no reason to leak them—except as a pre-emptive excuse in the event of a vetting failure (think Bill, not her). Then the leaks abruptly stopped.

The test grows harder once she is in office. It will be difficult to sustain trust and coherence in foreign policy-making if unsourced stories proliferate, assigning Clinton credit for success, offering inside accounts of her dissents or blaming Obama for failing to heed her advice. She must resist such temptation, and I believe she will, not least because a split would likely endanger her future more than his.

However, it’s also possible that the new President will forge a genuine bond with the primary campaign rival he once said he liked “well enough.” Their relationship, after all, is a two-way street. The oft-cited comparison with Lincoln’s selection of his archrival, William Seward, for Secretary of State is instructive. Lincoln often walked across Lafayette Park to Seward’s home to confer with him. Seward, who in an early memo had proposed that Lincoln devolve presidential powers to him, became Lincoln’s closest friend in the Cabinet. Obama won’t be walking the two miles to Clinton’s residence off Embassy Row, but these latter-day rivals will succeed only if both principals work for it.

For her part, Clinton must be—and be seen to be—genuinely comfortable yielding center stage to Obama, as she did at the Democratic Convention. She will also have to foreswear a shadow political operation, including poll briefings from her strategist Mark Penn, the salient points of which would no doubt find their way into the press. (Come to think of it, she would have been better off without those poll briefings during her campaign, as well.) And President Bill Clinton will have to discipline himself to play a supporting role—for Obama as well as for his wife. Any hint of a policy split with the former president would be instantly attributed to Hillary.

Finally, atmospherics matter. In the 2000 Gore campaign, I witnessed the media’s fascination with each scintilla of interaction—every smile or scowl exchanged—between Al Gore and Bill Clinton. Any sign of discomfort generated speculation, headlines and damage. The same unforgiving klieg light will shine on the new President and Secretary of State when they’re together—or if they’re not together enough.

Hillary Clinton now has a big job. If she still aspires to the top job, she can’t afford to treat this period as an eight-year transition to her Presidency. If she contemplates a candidacy in 2016—and I suspect she does—the way forward is to focus on being an effective and loyal Secretary of State. Then, around 2014, she can resign and run from a position of greater strength than she was afforded in 2008. She will have no need of stories about sniper fire in the Balkans. And she will have proved that she can manage a large organization better than she ran her presidential campaign. In other words, to fulfill her ambition, Clinton must ignore it. For now.

Clinton was unquestionably a risky choice. But the move can pay off for Obama, for the country and ultimately for Clinton herself if she remembers something Obama himself has been repeating lately: We only have one President at a time.

That’s the Hillary Test.

Condoleza Rice plays piano

domenica 30 novembre 2008

Jihadisti per caso

Mentre sono ancora frammentarie e confuse le notizie sui protagonisti, così come gli indizi sui mandanti, dell'attacco jihadista a Mumbai, gli analisti già ricominciano a dividersi, seguendo un canovaccio che è sempre lo stesso quando si tratta di terrorismo islamico. La divisione è fra chi ritiene che ogni singolo episodio terroristico, quale che sia la sua gravità, sia interamente spiegato dall'esistenza di conflitti locali (si tratti, di volta in volta, del Kashmir, della Palestina, del conflitto fra casa regnante ed estremisti in Arabia Saudita, dell'Afghanistan, dell'Iraq, eccetera) senza bisogno di prendere troppo sul serio le rivendicazioni dei jihadisti sul carattere «globale » della loro guerra contro apostati e infedeli, e chi invece ritiene che i conflitti locali siano fonti di alimentazione del jihad globale.

Non è una disputa accademica. Perché l'interpretazione che si adotta suggerisce linee di azione differenti. Se vale la prima interpretazione si tratterà, per l'Occidente, di agire pragmaticamente caso per caso, accettando il fatto di trovarsi per lo più di fronte a forme di irredentismo (Kashmir, Palestina), che usano strumentalmente la coperta dell'estremismo islamico, o di guerre civili che hanno per posta il potere all'interno di questo o quello Stato musulmano. Se vale la seconda interpretazione si tratterà di non perdere di vista il quadro di insieme e, per esso, il fatto che nel mondo islamico è da tempo in corso una lotta nella quale tanti gruppi estremisti (collegati tramite il web e le reti di solidarietà e finanziamento presenti in tutte le comunità islamiche, anche quelle europee) cercano di spostare a vantaggio delle proprie idee gli equilibri di potere all'interno della umma, della comunità musulmana nel suo insieme. In uno scontro di civiltà che usa la religione per distinguere musulmani buoni e cattivi e per identificare i nemici: i cristiani, gli ebrei, gli indù, eccetera.

Se si evitano le scelte ideologiche preconcette occorre riconoscere che tutte e due le interpretazioni contengono elementi di verità. Lo dimostra il caso di Mumbai. Hanno ragione quegli analisti che inquadrano la vicenda all'interno del conflitto indo-pakistano e delle sue connessioni con la guerra in Afghanistan. È plausibile che i burattinai stiano all'interno delle forze armate pakistane e che vogliano impedire la normalizzazione, sponsorizzata dagli Stati Uniti, dei rapporti fra Pakistan e India, sperando in una reazione indù antimusulmana: più sale la tensione, più essi possono segnare punti a proprio vantaggio all'interno del Pakistan nonché a favore dei propri alleati-clienti nella galassia talebana in Afghanistan. Ma ciò non spiega tutto. Fra gli ospiti degli hotel aggrediti erano gli americani e gli inglesi i più presi di mira. È dipeso solo dal ruolo degli angloamericani in Afghanistan? O non era anche un modo per lanciare agli islamisti sparsi per il mondo il messaggio secondo cui l'azione in corso era comunque parte di una più ampia lotta in cui il Grande Satana resta il nemico più importante? E, soprattutto, come si spiega l'attacco (anch'esso pianificato) al Centro ebraico, l'assassinio di un rabbino e di altri otto ebrei?

Cosa c'entrano gli ebrei con il conflitto indo-pakistano? Assolutamente nulla. Ma c'entrano moltissimo con l'ideologia jihadista e con il fanatismo antisemita che la caratterizza. Il richiamo più immediato è al caso di Daniel Pearl, il giornalista ebreo-americano rapito e sgozzato in Pakistan nel 2002. Il fatto che egli fosse ebreo ebbe una parte decisiva nel suo assassinio. L'attacco al Centro ebraico è la dimostrazione del fatto che il terrorismo islamico ha due facce, trae alimento da due radici: i conflitti regionali ma anche un'ideologia jihadista che ha per posta la riorganizzazione della umma, la comunità dei credenti, in chiave antioccidentale e della quale è un tassello essenziale la «guerra ai sionisti».

Per questa ragione, pur dovendo modulare le risposte a seconda delle condizioni locali, non conviene perdere di vista il quadro di insieme. Le battaglie «locali» (soprattutto quando si colpiscono anche ebrei e americani) ottengono una eco immediata in tutti i luoghi del mondo ove l'estremismo islamico alligna e favoriscono un proselitismo i cui effetti si manifesteranno in seguito, con altre azioni terroristiche, in altre parti del globo.

Per quanto riguarda noi europei di singolare nei nostri atteggiamenti verso il terrorismo islamico c'è l'indifferenza che spesso mostriamo per un aspetto della sua ideologia che dovrebbe, a rigore, apparirci ripugnante: l'antisemitismo. È una vecchia storia. La stessa Europa che ricorda l'Olocausto e si commuove davanti al film Schindler's List non prova particolare sdegno per l'antisemitismo diffuso nel mondo arabo, e musulmano in genere, di cui la «caccia all'ebreo» da parte dei jihadisti (anche a Mumbai) è una diretta conseguenza. Non casualmente, qui da noi trovò fertile terreno, dopo l'11 settembre, la favola secondo cui il jihadismo sarebbe colpa di Israele, un frutto delle persecuzioni israeliane nei confronti dei palestinesi. E vanno anche ricordati i sondaggi che registrano l'ostilità di tanti europei per Israele. Al fondo, sembra esserci una strategia inconsapevole e politicamente suicida. C'è l'idea che solo se neghiamo l'evidenza, ossia i veri caratteri dell'ideologia jihadista, solo se spieghiamo le sue manifestazioni violente come il frutto esclusivo di circostanze specifiche in luoghi lontani da noi, possiamo sperare di essere lasciati in pace.
Angelo Panebianco Corriere della Sera 30 novembre 2008

sabato 29 novembre 2008

THE IMAGE OF THE IMAGE


As a pointless exercise in self-flagellation, it's fun to look back and wonder how you should have invested your money in the last year. You'd have ditched stocks and bonds, of course, and you would have avoided real estate. And if you really had foresight, you would have bet the rent on Barack Obama baby bibs.

Or Barack Obama mugs, T-shirts, stationery, posters, postcards, notecards, aprons, coasters, dog jerseys, throw pillows and mouse pads. With so many segments of the economy in the fetal position, the Obama memorabilia business is one of the very few that is actually thriving.

In most election years, the candidate T-shirt and button market pretty much disappears after the ballots are counted. Not this time. Our next president has become a living, breathing stimulus package for a modest-size group of entrepreneurs who are slapping Obama's image on any surface it'll stick to. At CafePress.com there are 96,000 different Obama-related designs for sale, according to vice president of marketing Amy Maniatis. That includes a T-shirt that says "Now I don't have to move to Canada" and a poster that says "Once you go Barack, you'll never go back." All the designs come from "virtual shopkeepers," who upload images to the site and then sell them on any number of stock items, splitting the profits with CafePress.

"This is our third election, and for us, what we saw in 2000 and 2004 was really different," Maniatis says. "There was a lot of anti-Bush merchandise after those elections." Anti-Bush stuff sold so well for so many years that there was genuine concern at CafePress that the end of the president's second term would hurt the company's bottom line. ("Economists Warn Anti-Bush Merchandise Market Close to Collapse" read a recent headline in the Onion.) Instead, Obama love has more than offset the downturn.

At America!, the exuberantly punctuated chain of patriotically themed souvenir shops, they're moving a lot of life-size cardboard cutouts of Obama, at $42.99 each. (And by the way, all the McCain product -- half off.) Spokeswoman Donna Tsitsikaos sounds like a woman trying hard not to crow about sales numbers.

"Product is driving people to the stores," she says, "even in this economy."

Obamamania has been a boon for tiny Greenville, Ohio, the home of Tigereye Design, which manufactured and handled the fulfillment for official Obama campaign materials, such as shirts, hats and buttons. It also has its own site, DemocraticStuff.com, which peddles an astounding variety of niche Obama buttons, including "Beekeepers for Obama," "Emo for Obama" and "Ventriloquists for Obama." Tigereye started the year with a staff of 50, then just kept on hiring.

"We had about 500 people at the peak," says Steve Swallow, the company's president. "It really had an impact on our local workforce, because almost all of the people we hired were unemployed before. And it wasn't just us. If you call the post office here, I bet they'll say they never handled so much mail."

Wealth from Obamabilia is currently spread all over eBay, where a search using "Obama" yields more than 21,000 items, including a rhinestone tote bag, a glow-in-the-dark bottle stopper and a flip-top lighter. On Craigslist, there are Obama banks ($40 apiece), a bobblehead doll ($100) and a doll that sings and dances ($100).

There has even been some additional work for tattoo artists. Some people prefer their Obama souvenirs permanent.

"Right after the election, I had four ladies come in here together and say they wanted the Obama 'O,' " says Justin McCrocklin, who works at Tatu Tattoo in Chicago. "You know, the 'O' he used on the logo, with stars and stripes on it."

These women had worked on the campaign, they explained, and they wanted to remember the experience. For $70 per person, each now has a half-dollar-size forget-me-not on an ankle or forearm.

But no one has seized on the Obama keepsake market with quite the ambition of A.J. Khubani, the president of TeleBrands. The New Jersey company is best known for creating the "As Seen on TV" logo and selling items like the Flat Fold Colander, the Stick Up Bulb and the Pedi Paws, "the incredible nail trimming solution for dogs and cats." On election night, Khubani was watching the euphoria at his home in Saddle River, N.J., and thought, as he put it, "There has to be something we could sell."

By Wednesday morning, he'd hired an artist to design a commemorative plate, with Obama's face and some fireworks on the front, along with the inscription "Change Has Come" and on the back, the electoral count as of election night.

"We had an image in hand by Wednesday afternoon," says Khubani, "we had a prototype on Thursday, and the plates arrived at the shoot on Friday morning."

The commercial was edited over the weekend and went on the air a few days later.

"Yes you can . . . own a piece of history," booms a narrator in the ad, which can now be seen all over cable television, "with a bonus display stand and a certificate of authenticity, for $19.99."

Khubani expects big things from this tchotchke. He's ordering 1 million of them. Sadly, the manufacturing upsides of the "victory plate" won't be part of the Obama economic mini-surge here in the United States.

The plate is being made in China.

By David Segal
Washington Post Staff Writer
Friday, November 28, 2008; C01

martedì 25 novembre 2008

Abbronzatura

mercoledì 19 novembre 2008

BlackBarry for ever


By Ruth Marcus
Wednesday, November 19, 2008; A21

Barack Obama, poor guy, would just like to go out for a walk.
One of the most poignant moments in the Obamas interview with "60 Minutes" came when Steve Kroft asked the president-elect how his life had changed since Election Day.
"There's still some things we're not adjusted to," Barack Obama said.
"Like what?" Michelle Obama asked.
"Me not being able to take a walk," her husband replied. "I'd love to take you for a walk."
Every president-to-be goes through this transformation; every president chafes at it. Harry Truman spoke of "this great white jail known as the White House." Bill Clinton called it "the crown jewel of the federal penitentiary system."
Yet for most presidents, this loss -- the deprivation of both autonomy and anonymity -- is not the jolting event that it is for Obama. Some, like John F. Kennedy or George W. Bush, were born to prominence and scrutiny; others have become acclimated to it over years in politics. Before the White House has come the governor's mansion or the vice presidency, with cosseting staffs and hovering security details.
But Obama is unique in his warp-speed transformation from obscure state senator to 44th president in just four years. The obvious downside is his lack of experience, but the potential advantage is his unusual proximity to normality. In the isolation chamber of the White House, it can be useful not only to know real people but to have been one yourself in the not-so-distant past.
"I actually think that we are as close to what normal folks go through, and what their lives are like, as just about anybody who's been elected president recently," Obama told Kroft. "Hanging on to that is something that's important."
Different presidents experience the constraints of the office in different ways. Clinton craved human contact. He was happy -- delighted, actually -- if everyone he met knew exactly who he was, as long as he could talk to them.
In his autobiography, Clinton described going out for a run as president-elect, and stopping, as was his habit, at McDonald's, where he met a 59-year-old man who had lost his job in the recession. "I walked back to the hotel thinking about that man, and how I could manage to keep in touch with the problems of people like him from behind the wall that surrounds every president."
Obama, more self-contained, seems instead to yearn for the freedom of "being able to just wander around the neighborhood." That "loss of anonymity," he said, is "something that I don't think I'll ever get used to."
Perhaps not, but he seems to bring to the job a keen awareness of the need to push back against the closed environment of the White House. In "The Audacity of Hope," he described watching Bush hold forth before a mostly fawning group of senators. "I was reminded of the dangerous isolation that power can bring."
Jeff Zeleny wrote in the New York Times a few days ago about whether the new president will be forced to surrender his omnipresent BlackBerry. "A decision has not been made on whether he could become the first e-mailing president, but aides said that seemed doubtful."
Bush made the choice to sign off before assuming the presidency. "Since I do not want my private conversations looked at by those out to embarrass, the only course of action is not to correspond in cyberspace," Bush wrote a group of friends just before his inauguration. "This saddens me."
I'd argue that Obama should cling to his e-mail as a 21st-century way to pierce the White House bubble. After all, Gore did it as vice president, BlackBerry included.
The arguments to the contrary will pile up like so many unread messages.
The lawyers will wring their hands over the prospect of disclosure down the road, if not sooner, invoking the specter of congressional investigators poring over presidential e-mails. So what? Everyone who uses e-mail should think twice before writing something embarrassing.
The security gurus will caution about the risk of being hacked. Find a way to make it secure.
The senior staff will bristle at the president's doing end runs around their carefully constructed processes. That's just the point. He needs unfiltered sources of knowledge and advice.

If the man can't take a walk, at least let him have his e-mail.


martedì 18 novembre 2008

CLINTONIANS ARE BACK


By Alec MacGillis Washington Post Staff Writer Tuesday, November 18, 2008; A02

On the campaign trail, Barack Obama liked to defend himself against charges of inexperience by calling for fresh perspective in Washington. "The American people . . . understand the real gamble is having the same old folks doing the same old things over and over and over again and somehow expecting a different result," he would say to big applause.

But as the president-elect's White House team takes shape, it is becoming clear that Obama in fact sees value in having plenty of the "same old folks" around to help him. After selecting as his chief of staff Rep. Rahm Emanuel, a House power broker and Clinton White House veteran, Obama over the weekend added several other top advisers with deep seasoning in Washington and on Capitol Hill in particular.

Although Obama has shown a fondness for surrounding himself with big thinkers and visionary experts, his White House hires suggest that his West Wing, at least, will place a premium on skilled legislative practitioners.

Congressional Democrats are taking the hires of Hill veterans as an encouraging sign that Obama -- the first member of Congress to be elected president since John F. Kennedy -- plans to work closely with them, which they regard as a welcome change from Bush's administration, which even many Hill Republicans said left them out of the loop.

The staff choices "represent a new era in cooperative relations between the White House and Congress," said Rep. Robert Wexler (D-Fla.). "It bodes well for an extraordinary period of legislative accomplishment -- for creating an atmosphere in which legislative victories will be maximized."

Rep. Debbie Wasserman Schultz (D-Fla.) said the Hill expertise is particularly needed given the shaky economy. "It sends a very clear message . . . that he is ready to work with us from Day One," she said. "We need to get past the 'getting to know you' phase quickly, and this helps get that done."

But some veterans of Republican White Houses are asking how Obama's promise of a clean break with the past squares with his elevation of so many Washington insiders skilled in partisan warfare.

"This is more 'Groundhog Day' than a fresh start," said Peter Wehner, a former senior adviser to Bush who is a fellow at the Ethics and Public Policy Center.

Wehner said he thinks Obama is trying to avoid the mistakes of the Clinton administration, which stumbled early on, but he warned against "overlearning history." "It's reassuring having people who have been around the block -- it means he'll step on fewer banana peels in the early going," he said. But "this just doesn't have the feel of a political transformation," he added.

Other veterans of GOP administrations said Obama could yet prove an agent of change -- on his own.

"The transformative part of his presidency is the president himself," said Douglas W. Kmiec, a Pepperdine University law professor who served in the Reagan and George H.W. Bush administrations and supported Obama. "The most important voice for change is his. And change is accomplished in our system not by erasing all of the lines on paper but by having people who understand government's structure and so can reinforce lines that have been wrongfully distorted or broken in terms of separation of powers."

Obama adviser Anita Dunn made a similar case. "What you're seeing is the same kind of approach he took to his campaign -- some new people, some old people, like Goldilocks," she said. "What you see is someone who is not going to make some of the mistakes administrations have made in the past of not understanding how to get things done in Washington. People who say 'Where's the change?' need only look at the president of the United States . . . the person at the top who sets the tone and the priorities."

The latest hires include Pete Rouse, an understated but highly regarded Hill veteran who will be a senior adviser in the White House after 30 years on the Hill -- 19 working for Thomas A. Daschle, a former Senate Democratic leader, and four as Obama's chief of staff. Hired as deputy White House chiefs of staff are Mona Sutphen, who worked for a D.C. consulting firm after serving on Clinton's National Security Council, and Jim Messina, who was the Obama campaign's chief of staff after serving in the same capacity for Sen. Max Baucus, the Montana Democrat who is helping lead the way on health-care legislation.

Hired as Obama's top congressional liaison is Phil Schiliro, another highly regarded Hill veteran who in 25 years there served as Daschle's policy director and, most recently, as chief of staff to Rep. Henry A. Waxman (D-Calif.), chairman of the House Committee on Oversight and Government Reform. Selected as White House counsel is Greg Craig, who served in the State Department under Clinton and acted as his counsel during his impeachment but broke with the Clintons to endorse Obama.

These experienced Washington hands will be joined by Obama's top confidants from Chicago -- David Axelrod, his chief campaign strategist, and Valerie Jarrett, a businesswoman and close family friend who is helping direct the transition alongside former Clinton chief of staff John D. Podesta. She will serve as Obama's senior adviser and public liaison.

Several White House veterans said the mix represented a healthy combination of new blood and D.C. experience -- not unlike what Ronald Reagan brought in 1980, when he combined Washington hands such as James A. Baker III and Kenneth M. Duberstein with confidantes Edwin Meese III and Michael K. Deaver.

Obama, having collected relatively few loyalists during his rapid rise, has shown an eagerness to hire the best available people regardless of personal connections or ideology, the veterans said. The clearest example was his success persuading Rouse, who was looking for work after Daschle's 2004 defeat, to join the office of a freshman senator.

"Obama understands that in order to be an effective president, you need to win battles on Capitol Hill," said Duberstein, who was Reagan's chief of staff. "What he seems to be putting in place is a mixture of people who know how to get things done in Washington along with people who have known him for many years. That fits with what he has campaigned on . . . which is shrewdly bringing people together. It is all about putting together a pragmatic governing coalition and having the people on hand who know how to get things done."

Duberstein disagreed that Washington veterans undercut the change that the country voted for Nov. 4. "What the American people are saying is: 'Enough of the stalemate and gridlock. Get people in there who know what they are doing,' " he said.

Andrew H. Card Jr., President Bush's first chief of staff, praised Obama for filling so many White House jobs so quickly. But he warned that having so much Hill experience on the team could give it too much of a legislative mind-set.

"A member of Congress holds hearings and healthy debates before he makes a decision. A president doesn't have that luxury," he said. "He is required to make snap decisions. Members of Congress can be much more deliberative, where a president has to be decisive. If you're a senator, you're one-hundredth of one-half of a decision. When you're president, you're 100 percent of a decision. You have to be more nimble."

Leon Panetta, who was Clinton's chief of staff, dismissed this concern. "It doesn't take very long before you develop an executive mind-set. On Capitol Hill you usually have 535 different [bosses], and at the White House you only have one boss -- and you learn that real fast," he said. "I just look at it from the point of view of having people who can hit the ground running. With all the problems the country faces, it makes a hell of a lot more sense to have people who understand how Washington works."

LA FINE DI UN SOLISTA


La linea del «niente nemici a sinistra» è sempre stata la pietra tombale di ogni riformismo.

di Ernesto Galli Della Loggia

Un passo dopo l'altro il Pd sembra rimangiarsi il suo impegno di neppure un anno fa di «andare da solo», di considerarsi potenzialmente maggioritario, e dunque di non avere bisogno di nessuna «unione» con altri. Come conseguenza, un passo dopo l'altro ritorna d'attualità l'unità delle sinistre. Lo indica tutta una serie di fatti: dalla nessuna presa di distanza da parte del Pd nei confronti della linea dura della Cgil di Epifani, all'appoggio senza riserve offerto al movimento contro le riforme volute dal ministro Gelmini, che pure hanno riscosso un favore tutt'altro che limitato al centro destra, alla crescente tentazione dell'antiberlusconismo duro e puro presentato di nuovo come argine necessario contro il «regime», alla gestione della questione della Commissione di vigilanza sulla Rai, infine alla presentazione di una candidatura unitaria (espressa dall'Italia dei Valori, e anche questo è significativo) per le elezioni regionali in Abruzzo. Di per sé, naturalmente, nessuna di queste scelte è una scelta esplicita per l'unità delle sinistre. Esse lo diventano però dal momento che, complessivamente, allontanano inevitabilmente il Pd da una posizione riformista spostandolo su posizioni agitatorie e radicali tradizionalmente proprie delle forze alla sua sinistra, dai Verdi a Rifondazione. Sono scelte, ad esempio, che fanno incontrare al Partito democratico una piazza che esso ormai conosce e controlla solo in parte, e di cui quindi finisce spesso per essere più la coda che la guida. Sono scelte che di fatto consegnano la bandiera dell'opposizione, e dunque anche quella del Pd, nelle mani di categorie (i piloti), di pezzi di sociale (il magma studentesco), di protagonisti (Di Pietro, i comici!), che in realtà hanno a che fare poco o nulla con un moderno partito riformista. L'unità delle sinistre si sta riformando nelle piazze e negli studi televisivi. E' chiara qual è la causa immediata di questo lento ma deciso abbandono da parte del Pd delle posizioni «soliste» abbracciate poco prima delle ultime elezioni. E' la debolezza della leadership di Walter Veltroni. Azzoppato dalla dura sconfitta elettorale; insidiato dalle continue, inestinguibili, lotte interne; incapace di comporre in un accettabile grado d'unità le due o tre diverse anime confluite nel Pd, Veltroni non è ancora riuscito a trovare — e a praticare — una linea politica d'opposizione capace di tenere insieme, e di rendere egualmente visibili, il profilo riformista del suo partito da un lato, e dall'altro la chiarezza del quotidiano contrasto rispetto al governo. Così, sentendo il terreno mancargli ogni giorno sotto i piedi, si è «buttato a sinistra », come si dice. Privo del consenso degli elettori ha cercato almeno quello dei manifestanti; persa la battaglia dei votanti, si è messo a sperare nelle lotte dei «movimenti». E ha consentito, anche con la sua voce, che divenissero sempre più forti le voci del no, della contrapposizione di principio, di un'esibita quanto dubbia diversità antropologica.

Ma non c'è solo la debolezza di un leader dietro la svolta in atto che sta irresistibilmente spingendo il Pd verso una riedizione dell'unità delle sinistre. C'è qualcosa di più profondo, ed è la sua evidente difficoltà di condurre una lotta politica su due fronti: proprio quella lotta, cioè, che, specie nell'ambiente italiano, così pervaso di vecchi e sempre nuovi massimalismi, è la linea obbligata di un partito riformista. Ma è un obbligo che il Partito democratico fa una terribile fatica ad assolvere perché per farlo dovrebbe abbandonare (e forse non avere mai neppure conosciuto) quella cultura di antica matrice comunista che esso invece ancora si porta dentro. Cultura che ha la sua premessa decisiva nell'idea che nella storia, alla fine, c'è posto solo per due parti: quella del bene e quella del male, destinate allo scontro finale.

Come evitare, però, se si adotta questa visione l'obbligo di stare tutti i buoni dalla stessa parte, tutte le sinistre insieme a sinistra? Si dirà che però di battaglie su due fronti, e cioè anche contro formazioni alla sua sinistra, il vecchio Pci ne fece tante: per esempio contro i trotzkisti o contro il terrorismo goscista. E' vero, ma non a caso, come ognuno ricorda, ogni volta esso sentì il bisogno, per farlo, di qualificare pubblicamente i propri avversari di sinistra come «fascisti» (lo stesso Craxi e i suoi non sfuggirono all'epiteto): ristabilendo così la dicotomia accennata sopra. In forza della quale, insomma, a sinistra c'è posto solo per una parte, per i buoni: cioè per «noi» e i nostri amici; tutti gli altri non possono che essere finti buoni, lupi travestiti da agnelli, «fascisti» appunto. Solo la cultura del riformismo socialista, rifiutando una visione manichea della storia, ha avuto storicamente la possibilità di combattere vere battaglie su due fronti, contro la destra e contro la sinistra radicale (perlopiù comunista), chiamando quest'ultima con il suo nome e accettando la sfida a sinistra. Il Pd, invece, è preso in una morsa: se vuole essere riformista si trova di fatto ad avere, anche stando all'opposizione, dei nemici a sinistra che il suo riformismo stesso gli impedisce però di considerare «fascisti»; ma non essendo ideologicamente riformista abbastanza, non riesce ad accettare di essere combattuto e di combattere tali nemici, rinunciando all'idea di farseli in qualche modo alleati. Nasce da qui, alla prima occasione, il ricorrente miraggio dell'unità delle sinistre, altra faccia obbligata del «niente nemici a sinistra»: una linea che è sempre stata la pietra tombale di ogni riformismo. Schiacciato dalla quale Walter Veltroni minaccia di concludere oggi la sua appena iniziata avventura di «solista».

Dal Corriere della Sera 18 novembre 2008


lunedì 17 novembre 2008

One Cabinet Job Would Put Focus On Two Clintons

By Michael D. Shear and Philip Rucker
Washington Post Staff Writers

Monday, November 17, 2008; A01

If Sen. Hillary Rodham Clinton is named the next secretary of state, she and her husband could be positioned to lead a public-private partnership on the global stage unlike any before it, one that experts say would bring with it a host of potential benefits and pitfalls for the new president.

Since leaving the White House, Bill Clinton has used his connections with world leaders to position himself as something akin to the world's philanthropist in chief -- and become rich in the process by collecting huge sums from foreign companies eager to hear him speak.

That arrangement could be complicated, though, by his wife joining the Obama administration, with the prospect of questions about any conflict of interest or attempts to curry influence.

For the past four years, Bill Clinton has convened the annual Clinton Global Initiative, a glamorous philanthropic conference that brings together hundreds of corporate chiefs, heads of state, humanitarians and celebrities. The William J. Clinton Foundation has ballooned into a global nongovernmental organization with a staff of more than 800, addressing chronic problems such as climate change, hunger, AIDS and malaria.

If President-elect Barack Obama selects Hillary Clinton as his secretary of state, she will oversee many of the U.S. government's foreign aid programs, potentially turning the couple into an overwhelming force in global aid, say some leaders in the philanthropic community.

"It boosts her stature, it boosts the work of the Clinton Global Initiative, it boosts the whole concept of American partnerships making a real difference on the global level," said Steve Gunderson, president of the Council on Foundations and a former Republican congressman.

"She will be able to say in many of her meetings, 'We're in a situation where I can't commit congressional foreign assistance, but let me work with the philanthropic community back in the United States to see if there are ways that they can be helpful,' " Gunderson said.

The choice of Clinton would present other potential problems for Obama. He would be investing his fortunes not only with his former rival for the presidency but also in an outsize figure on the global scene who has been conducting a kind of privately financed foreign policy all his own since leaving office. Obama and the former president have also continued to share a somewhat strained relationship since the end of the Democratic nominating contest.

Bill Clinton's web of personal financial ties and public policy pronouncements about the world's challenges would instantly become a source of possible discord with a new Obama administration as his wife travels the same world circuit as America's official emissary.

"He's a former president of the United States. He's been traveling around the world, and he's got his foundation and a lot of foreign policy efforts going on," said Leon Panetta, Clinton's former chief of staff and now a professor of public policy. "What they will have to obviously be careful of are the potential conflicts that might appear."

Supporters of the former first lady reject the idea that her selection as secretary of state would be viewed through a prism of either the benefits or the baggage provided by her husband.

"She was one of the most successful primary candidates," said Rep. Debbie Wasserman Schultz (D-Fla.). "I really think that it's unfair to suggest that there's any type of a package that comes with her appointment."

But Hillary Clinton's presence in Obama's Cabinet would mark a shift in the kind of relationship that presidents have traditionally shared with predecessors who maintained a high profile.

Occupants of the Oval Office tend to keep former presidents at arm's length, sometimes turning to them occasionally to play roles such as special emissary during international disasters or humanitarian crises. President Bush asked both his father and Clinton to raise relief money after the Indian Ocean tsunami and Hurricane Katrina. Bill Clinton, as president, enlisted predecessors to advocate for the North American Free Trade Agreement.

Former president Jimmy Carter was a thorn in the side of George W. Bush, traveling to Syria, Cuba and the Middle East to meet with leaders despite complaints from the White House.

"You want to be able to determine when you are going to make use of a former president in terms of foreign policy or trying to help on particular issues. That can be a very powerful tool if it's used well," Panetta said. "It has to be used with discretion. The last thing you want is to have a former president be a rogue."

Some foreign policy experts said seeking to exploit Bill Clinton's reach and experience could prove a mistake.

"They might be tempted to use him in the Middle East. That wouldn't be a wise thing to do," said Charles Hill, a Yale professor who served several secretaries of state. "It's too American. It's too visible. That's a danger that the Obama team has to face and deal with."

Hill said there is also the danger that the former president's constant presence could lead some world leaders to question the authority of the new president.

"He's got to maintain his stature. He should not want Bill Clinton getting all the ink. Or Hillary Clinton," Hill said. Selecting Hillary Clinton to serve, he said, would violate one of the cardinal rules of foreign policy: "Secretaries of state don't deal with ex-presidents. And if they do, the White House raps their knuckles."

For his part, Bill Clinton said last night that his wife would be "a great secretary of state." Speaking in Kuwait City before an international audience of economists and politicians gathered by the National Bank of Kuwait, Clinton said that if Obama "decided to ask her and they did it together, I think she'll be really great as a secretary of state," Agence France-Presse reported. He said he did not know whether she had discussed the post with Obama's camp.

Hillary Clinton would not discuss the matter Friday, saying in Albany, N.Y.: "I'm not going to speculate or address anything about the president-elect's incoming administration. I'm going to respect his process."

By taking the Cabinet post, Hillary Clinton would also force new scrutiny of her husband's charitable activities and his private financial dealings. Bill Clinton has raised millions of dollars for his foundation but has declined to publicly disclose its benefactors. Likewise, most of the donors who helped bankroll his presidential library in Little Rock have never been disclosed.

"It certainly is likely to sharpen the scrutiny that the press and critics will give to the types of things he does in raising the money," said Joel L. Fleishman, a philanthropy expert and professor of law and public policy at Duke University. Fleishman added that "her being secretary of state would tend to raise the scrutiny."

Since founding his global conference, Clinton says, he has facilitated charitable commitments valued at $46 billion that already have improved more than 200 million lives in 150 countries. And his personal wealth has ballooned as well: The Clintons earned a combined $109 million during the Bush administration.

The 63-page vetting document that Obama is using asks applicants whether there are "any categories of personal financial records . . . that you (or your spouse) will not release publicly if necessary. If so, please identify these records and state the reasons for withholding them."

Interestingly, in the margins of a copy of the application leaked from the transition team, the word "Clinton" is written next to that paragraph.

After earning $200,000 a year in the White House, the former president has raked in more than $40 million on the speaking circuit, often from foreign companies in countries where a Secretary of State Hillary Clinton would confront thorny issues in the next several years.

Even without a wife in Obama's Cabinet, Clinton has already raised eyebrows with his speeches. In February 2005, Clinton spoke about AIDS to a Swiss biotech firm whose American subsidiary eventually agreed to pay $704 million after pleading guilty to conspiracy. In 2001, he was paid $125,000 to speak to International Profit Associates, an Illinois company that was the focus of a federal investigation and a government lawsuit alleging widespread sexual harassment.

Clinton has also turned his friendships with wealthy businessmen into a source of personal income. Partnerships with billionaire California investor Ronald Burkle earned Clinton more than $5 million. The former president made more than $3 million as a consultant to InfoUSA, a consumer data business founded by his friend Vinod Gupta.

Clinton has also been linked to controversial foreign deals. A New York Times report suggested that the former president had played a key role in helping a Canadian mining executive, Frank Giustra, win a uranium-mining contract in Kazakhstan.

The paper reported that Giustra donated $31.3 million to Clinton's foundation shortly after the Kazakhstan mining deal was finalized.

Staff researcher Madonna Lebling contributed to this report.

venerdì 14 novembre 2008

IMITATION IS THE GREATEST FORM OF FLATTERY

http://www.nytimes.com/2008/11/15/world/middleeast/15bibi.html?partner=permalink&exprod=permalink
Click on the Russian-language version of the campaign Web site of Benjamin Netanyahu, the conservative Likud leader running for prime minister of Israel, and up pops a picture of the candidate with Barack Obama. On the Hebrew version, Mr. Obama is not pictured. But he is, in fact, everywhere.

The colors, the fonts, the icons for donating and volunteering, the use of videos, and the social networking Facebook-type options — including Twitter, which hardly exists in Israel — all reflect a conscious effort by the Netanyahu campaign to learn from the Obama success.

“Imitation is the greatest form of flattery,” noted Ron Dermer, one of Mr. Netanyahu’s top campaign advisers. “We’re all in the same business, so we took a close look at a guy who has been the most successful and tried to learn from him. And while we will not use the word ‘change’ in the same way in our campaign, we believe Netanyahu is the real candidate of change for Israel.”

Those who created the Obama Web site, including Thomas Gensemer, managing partner of Blue State Digital, say the Netanyahu site is closer to Mr. Obama’s than any others they have seen.

“Nothing has been so direct as the Netanyahu Web site, though we have seen others with shades of it,” he said, adding that when a campaign is successful, “people are going to knock things off, both in terms of functionality and aesthetic.”

Web sites aside, for liberals in both countries, the idea of Mr. Netanyahu as the Obama candidate of Israel seems mystifying. Of the three main contenders for prime minister in February’s election, including Tzipi Livni of Kadima and Ehud Barak of Labor, Mr. Netanyahu is the most hawkish and the least interested in the focus on dialogue with adversaries that Mr. Obama made a centerpiece of his foreign policy platform. Mr. Netanyahu has said he would shut down the current negotiations with the Palestinian leadership.

But it is precisely the break with the current policy that Mr. Netanyahu, known by his nickname Bibi, believes will help him take the largest share of votes. The most recent polls show him slightly ahead of his rivals.

Sani Sanilevich, who is managing Mr. Netanyahu’s Internet campaign, said the Web is one of the biggest focuses of the campaign, and with good reason.

“The main advantage of the Internet is the ability to communicate with citizens and people directly,” he said. “You can actually hear them and get them involved in this campaign. The whole idea is, together we can succeed.”

That last phrase, “Together we can succeed,” is the campaign slogan on the Netanyahu site, and it does echo, to some extent, Mr. Obama’s “Yes we can.” Mr. Sanilevich said the Netanyahu campaign plans to make use of Twitter, the mass text-messaging service that sends out short “tweets.”

“There are a couple thousand in Israel on Twitter,” he said. “We have lots of people using the Web sites registered as volunteers, and I am sure we will be able to use Twitter, which is an amazing tool. I have it on my phone and I go around with Bibi and everywhere we go he gives me things to say on Twitter.”

Netanyahu aides say direct communication with voters is important for many reasons; one of them is their belief that Israel’s mainstream media are not sympathetic to the candidate, and he needs to go around them.

The campaign said that like the Obama operation it would bombard its supporters with messages for volunteering and donating opportunities and set up a site where supporters could communicate with one another without the campaign’s direct involvement.

At least before Mr. Obama’s victory last week, Mr. Netanyahu might have been expected to have a stronger political rapport with Senator John McCain. The Republican positioned himself as the more reliable friend of Israel. His campaign portrayed Mr. Obama as an uncritical friend of a prominent Palestinian critic of Israeli policies in the West Bank, and also accused him of associating with a terrorist.

But Dore Gold, a former Israeli ambassador to the United Nations and a close Netanyahu adviser, said the Likud leader liked and respected Mr. Obama, so it was not strange that he had taken a page from the president-elect. He said that the two meetings they had held so far, in Washington in 2007 and in Jerusalem last summer, had gone very well.

“I was at both meetings, and it was clear that the two leaders established a very good chemistry very quickly,” Mr. Gold said. “We are convinced that the Obama administration will be open to hearing new ideas from Israel on how to make progress in the region.”

Mr. Netanyahu is positioning himself as the candidate of new ideas both for Israel itself and for peace with the Palestinians.

The ideas revolve around economic opportunities, aides say, cutting red tape to improve the Palestinian economy, building peace from the ground up instead of the top down, and improving life in Israel with a bold domestic agenda involving improved education, economic growth and personal security against increased crime.

The aides are convinced that negotiations with Palestinian leaders will lead nowhere and that while waiting for Palestinian attitudes to change, the best steps Israel can take involve building the Palestinian economy. Ms. Livni, on the other hand, has vowed to continue the negotiations with the Palestinians, which she is helping to lead.

Mr. Netanyahu’s aides add that just as the Obama campaign linked Mr. McCain to President Bush, they plan to label Ms. Livni as continuation of the status quo and Mr. Netanyahu as the candidate of change.

“Yes he can,” one aide said, with a touch of self-parody. “He believes he is the guy who can do it.”

Ethan Bronner reported from Jerusalem, and Noam Cohen from New York.

giovedì 13 novembre 2008

NUOVI POST(I)

http://www.messaggerofriulano.blogspot.com/

DIEGO VOLPE PASINI E LE DONNE



Se c’è una cosa che emerge chiara dalla vicenda di Diego Volpe Pasini, consigliere comunale e animatore politico udinese, finito in carcere per non aver ottemperato a suo tempo all’obbligo dell’assegno di mantenimento al figlio è che - nel tempo - questo vispo ragazzo un pò fanè ha incamerato rapporti, conoscenze e informazioni tali da renderlo, agli occhi di molti, “pericoloso”.
Per “pericoloso”, nel linguaggio della politica, si intendono quei tizi che, vuoi per carattere (solitamente narcisismo) o convenienza, dispongono della straordinaria capacità di far passare per manifestazioni di libertà e/o verità (diritto di cronaca se riescono a confezionare un qualsivoglia mezzo di comunicazione) la sistematica denigrazione del prossimo: avversari, alleati, parenti, conoscenti e amici, rom e marocchini.
Le province, soprattutto quelle ai confini degli imperi, sono piene di individui che passano con grande rapidità dalle stelle alle stalle, da destra a sinistra, e che tengono sotto tutela intere classi politiche terrorizzate all’idea di entrare nel loro temutissimo mirino.
Il Volpe Pasini in questione (non quello che di tanto in tanto si è presentato alle elezioni, quello è il fratello: vero plot da cartoons con Pippo e Pluto) che è sveglio come pochi, ha fatto propria l’arte – nel suo caso lo è davvero – della comunicazione: si è incatenato ai parcometri, si è battuto contro gli zingari, contro le prostitute, contro gli immigrati, non è stato – lo si è letto sui giornali - un ottimo esempio di buona amministrazione per le sue aziende, ha avuto qualche incidente stradale (e chi non lo ha?), è in stretti rapporti con l’ufficio delle imposte e, complessivamente, si può dire che gestisca il denaro con una nobile disinvoltura (ah! come lo capisco!). Insomma, una vita, per noi di provincia, un po’ spericolata con una certa propensione al pubblico spettacolo.
E’ approdato al comune di Udine (il mantra “teniamocelo buono” serpeggia da sempre nella sinistra bacchettona e la destra la insegue pedissequamente) con una carica creatagli ad hoc (responsabile? addetto? delegato? alla sicurezza) avvicinandolo così al suo sbandierato obiettivo di essere eletto un giorno sindaco e, per quanto mi riguarda, avere un sindaco che sa fare un baciamano comme il faut a una signora non è cosa da liquidarsi con un paio di battute.
La vita spericolata ha comportato anche l’obbligo a mantenere il figlio. Solite cose, si dirà: il mondo è pieno di coppie che si separano e poi litigano sugli alimenti.
Nel suo caso, però, l’ex signora Volpe Pasini non deve averla presa troppo bene quando ha scoperto l’insolvenza. E così, per rivendicare il diritto del rampollo, tanto ha fatto da trascinarlo in tribunale. Cosa che, inutile dirlo, capita alle ex mogli con una certa frequenza. Sono seguite, c’è da supporre, lettere da parte di avvocati, pentimenti, spiegazioni, scuse, convocazioni in tribunale. Niente di nuovo sotto il sole delle tante coppie rimaste a corto di argomenti. Che la macchina della giustizia sia piuttosto farraginosa lo sanno tutti ma, solitamente, prima di far eseguire una condanna definitiva come la detenzione in carcere, gli avvocati, confortati dalla solvibilità del loro cliente, presentano appelli e mettono i tribunali a ferro e fuoco tant’è che non si può dire che le patrie galere pullulino di padri assenteisti.
Qualcosa si è inceppato nel meccanismo della giustizia se Volpe Pasini è stato tradotto (che termine orribile!) in carcere munito di libri (non c’è snob al mondo che non veda nella casa circondariale la sede in cui “finalmente” dedicarsi full time alle buone letture) e fotografo al seguito. Se ben ricordo c’è un istituto giuridico, che si chiama condizionale, che consente ai condannati non recidivi di non finire in carcere e di evitare traumi che, come in questo caso, diventano pubblici.
L’improvvida circostanza che a questo arresto si sia accompagnata l’anticipata scarcerazione, da qualche parte d’Italia, di un pluriomicida, ha legittimato la classe politica locale e la stampa (quelle stesse che sulla pericolosità del Nostro sono sempre stati piuttosto concordi) a gridare all’ingiustizia.
Il refrain che ormai è arrivato all’opinione pubblica è: non è giusto che un assassino torni libero dopo solamente una decina d’anni mentre un onesto cittadino e persino pubblico ufficiale (!) che ha SOLAMENTE evitato di pagare il mantenimento di suo figlio finisca in carcere.


Quel SOLAMENTE è un sonoro schiaffo morale alle migliaia di donne separate che ogni mese e talvolta per anni e anni devono combattere con mariti latitanti che invocando, scusandosi, battendosi il petto, ostentando redditi zero, giurando che non lo faranno mai più o semplicemente ignorando il problema, cambiano le carte in tavola e non sganciano, per i figli, nemmeno un cents.
Per costoro i figli sono stati un errore di gioventù, un incidente di percorso da invitare eventualmente a Natale o da portare talvolta in gita pensando che non è affar loro ma delle madri pensare al loro sostentamento economico ed educazione.
Il “caso” Volpe Pasini ha talmente enfatizzato questo aspetto che dei distinti signori, fino a ieri intenzionati a passare gli alimenti ai figli della famiglia precedente, stanno seriamente considerando di soprassedere all’impegno essendo ormai evidente si tratti di un “piccolo” reato.
In fondo che male c’è a lasciare un figlio senza alimenti? Com’ è possibile finire in carcere per quella che potrebbe essere una semplice dimenticanza?
Mi spiace per Volpe Pasini. Mi spiace perché è un vero peccato che una persona, soprattutto se benestante – lo hanno scritto i giornali, i blog e via dicendo -, conosca il clima tetro di una cella.
Ma mi spiace soprattutto per le donne che in questo caso hanno taciuto. Anche quelle che di solito si scatenano per molto meno. Il divorzio e l’aborto sono diritti acquisiti dopo urla e barricate, culturali e non. Il dovere per un uomo divorziato a mantenere il figlio è sancito dalla legge e una donna ha il diritto di esigere la corresponsione di quanto stabilito da un tribunale della Repubblica.
Questo episodio poteva essere un modo per sottolineare la necessità di rispettare un diritto. Si è invece trasformato in un una farsa di provincia in cui prevale la necessità dell’equilibrismo, l’equidistanza, perché con i “pericolosi”, quelli che non si sa mai che colpo in canna ci riservino, è meglio essere prudenti. Chissà di quali dossier o gossip o lancinanti verità dispongono! Per sicurezza (!) meglio tenerseli buoni.

venerdì 7 novembre 2008

La campagna elettorale più costosa del mondo

http://online.wsj.com/article/SB122602757767707787.html

WE ARE AMERICANS

Lo confesso. Sono un’infiltrata della rete, un’abusiva di linkedIn, un ologramma esistenziale, una vile virtuale, una zelig di facebok, una piratessa di myspace, una divulgatrice di false aspettative, una zecca di netlog, un’ambigua e opportunista supporter di Obama e della Palin così come una nevrotica aderente ai gruppi di quelle che senza 1.000 scarpe non possono vivere (vero) e che adorano John Galliano (verissimo).
Alla faccia di quelli che dicono che i social network sono la nuova frontiera e lo specchio (reale) della nuova società, io in quell’intrico di rapporti mi ci sono buttata a capofitto con una decina di identità diverse e venga pure un giudice postale a dirmi che sono condannabile per falso in atto virtuale. Per farla breve sono una dei molti guardoni della politica che trafficano su internet per vedere che cosa stiano facendo gli altri o che cosa gli altri stiano raccontano di fare. Con questo spiritaccio tutto pettegolo mi sono infilata sia tra le truppe virtuali di Obama sia tra quelle di McCain. Eccomi quindi a dover ammettere di aver sia vinto sia perso ma di aver anche ultimamente sfacciatamente favorito, con la mia attività malandrina, la vittoria del presidente più sexy della storia americana (siamo quasi 30 mila scalmanate a sostenerlo con motivazioni spesso censurabili).
Mi sono molto data da fare in Virginia e nell’Ohio pur tenendo d’occhio la California dove mi sono impegnata anche in un paio di referendum sui matrimoni omosex e una storia complicata di aborti di minorenni. E solo Bill Gates sa quanto ho cliccato per abolire le corse dei cani in Massachusetts…
Ho fatto sapere a Joe the Plumber che se fosse vissuto in Italia (tra i volunteers del repubblicani c’è anche una mia versione italo-americana) sarebbe già il portavoce del governo Berlusconi mentre ho scoperto che tra i boys di Obama c’era una moltitudine di mandanti di Sarkò lì per vedere come dare una botta multirazziale all’inquilino dell’Eliseo nel prossimo giro elettorale quando le folle (foulles) imploreranno un presidente meticcio.
Perché questo è il trend e io che in quest’ultimo mese mi sono data da fare un po’ in tutto il mondo ho ben capito che se non si è giovani e nericci non si va da nessuna parte. Se poi si è anche intelligenti la presidenza del paese più potente del mondo è garantita.
Avrei quindi dei consigli da distribuire, anche perché le news letter dell’organizzazione del vecchio Joe e del vigoroso Obama me le sono ben studiate e ho rispettato rigorosamente le istruzioni di Mary e di David, quelli che più volte al giorno mi dicevano su che cosa cliccare. Su questo fronte, devo ammetterlo, il veterano del Vietnam è stato un po’ superficiale e ho le prove che il suo staff fosse pieno di babbione obese (quando ho raccontato a una tale Gail di essere una cinquantenne del Nevada mi ha mandato la foto con i suoi quindici nipoti. Troppo entusiasmo per non essere autentico…).
Quelli di Obama (per loro il mio anno di nascita è il 1984 e vivo anche nell’Indiana, swing state of course) fino a quando non ho raggiunto i 4 mila contatti non mi hanno dato tregua e c’è anche stato un tizietto che mi ha rimproverata di assenteismo (quando loro erano in pieno delirio e al trentesimo briefing per me era ora di andare a dormire, ma come farglielo capire?).
Nell’ultima settimana, tranquillizzata anche dalla presenza fisica del vispissimo friulano Simone Bressan tra i volontari della Palin, ho mollato i contatti con i seguaci dei rossi (repubblicani) e mi sono buttata a peso morto sullo staff di Obama stracolmo di miei coetanei (eh eh!) avezzi, ahimè, a chattare nell’universale linguaggio degli sms (g’t tk sgn dak Boh!). Abbiamo condiviso l’endorsment di Colin Powell (dio! Quanto mi piaceva vestito da generale con il berretto infilato nella mostrina!), monitorato i minuti che la Cnn dedicava all’avversario, segnalato i transfughi, commentato i blog di mezzo mondo per convincere che Obama era il vero cambiamento.
E così, a meno di 24 ore dall’evento, nei mie sessantacinquecentimetriquadrati di mondo al silicio, mi sono arrivati i ringraziamenti del Presidente e di qualche migliaio di ragazzi di tutti i colori del mondo america (tutto il mondo) per dirmi che Yes we did. Ce l’abbiamo fatta. E ce l’ho fatta anch’io a reggere ai diversi copioni che prevedevano che dicessi che ero troppo impegnata (no pty.t bsy) per andare al party di Denver o che i genitori mi avevano vietato di prendere il treno per l’Alaska o che non avevo distribuito tutti i signs causa febbre (srr!election’s fever).
Questa che ho raccontato è una favola di oggi vissuta in una stanza (è la stanza tutta per me) con i gerani ancora fioriti sulla finestra e di cui, su Google Earht, si vede il tetto così come quelli delle case dei tanti volontari sparsi nel mondo che un po’ seriamente e un po’ scherzando hanno dato vita a gruppi su gruppi di giovani e meno giovani spinti dalla voglia di vedere come andasse a finire. Fatta la tara e tolti i birbanti come me, rimangono qualche milione di persone che hanno creduto nell’american dream dei sogni liberal , quelli, per intenderci, che qui in Italia si sono intrufolati nei due canali televisivi dei Neodem e dei Red il cui segnale, nella notte delle elezioni americane, era stranamente debole e talvolta, ma forse anche questa me la sono sognata, del tutto assente.