lunedì 29 dicembre 2008

PERCHE' ISRAELE NON SBAGLIA


Con la decisione di ritirare le truppe israeliane da Gaza, Ariel Sharon aveva offerto ai palestinesi un’opportunità. Al tempo stesso, però, il passaggio della sua amministrazione nelle loro mani aveva creato obbiettivamente le premesse di una loro spaccatura. L'opportunità consisteva nella possibilità che le fazioni nelle quali il movimento era diviso abbandonassero la lotta armata, si unificassero sotto Al Fatah e partecipassero al processo di pace con Israele, voluto da Usa e Europa. Le premesse della crisi stavano nell’eventualità di un acuirsi della divisione fra integralisti, contrari a soluzioni di pace, movimento palestinese moderato e governi islamici favorevoli. La crisi di questi giorni conferma che, fra le due prospettive, a prevalere è stata la seconda. Ancora una volta sono state le divisioni all'interno del movimento palestinese e, in parte, dello stesso mondo arabo a prevalere, riaccendendo il conflitto. Con il lancio di missili da parte di Hamas contro le popolazioni israeliane limitrofe, cui ha fatto seguito l'inevitabile reazione di Israele.

Il successo di Hamas nelle elezioni per l'amministrazione di Gaza, nel gennaio 2006; la rottura, nel giugno 2007, dell'accordo con Al Fatah, raggiunto solo poco più di tre mesi prima, nel febbraio dello stesso anno, ne erano state le avvisaglie. C'è un convitato di pietra che blocca ogni possibilità di pace. È l'Iran. Che sostiene il rivendicazionismo di Hamas; che, con la sua corsa all'armamento atomico, inquieta Israele, l'Occidente e pressoché l'intero mondo arabo, dall’Arabia Saudita—promotrice, nel marzo 2002, dell’iniziativa Arab Peace e fallita nel 2007 — all'Egitto, alla Giordania. Forse non è superfluo ricordare che l'articolo 7 della Carta di Hamas non propugna solo la distruzione di Israele, ma lo sterminio degli ebrei, così come sostiene il presidente iraniano Ahmadinejad; che all'articolo 13 si invoca la guerra santa; che il nazionalismo del movimento affonda le sue radici nell’interpretazione di Teheran della religione. La maggioranza del mondo arabo è per la pace. Lo testimoniano — al di là delle condanne di rito di Israele e delle manifestazioni di piazza—le reazioni alla crisi di Fatah. Abu Mazen, il presidente dell’Autorità palestinese, ha ricordato di aver implorato Hamas a non rompere il cessate il fuoco. L'Egitto fa trapelare che esiste un piano Iran-Hamas-Fratelli musulmani per creare disordini in Palestina e nel suo territorio. Tacciono la Giordania, l'Arabia Saudita, i palestinesi della West Bank. L'attacco israeliano—invece di ricompattarlo contro Israele, come vuole una tesi propagandistica anti israeliana — ha rinsaldato il mondo arabo contro Hamas e l'Iran. È un ulteriore segno che Ariel Sharon aveva visto bene.

Pietro Ostellino dal Corriere della Sera

29 dicembre 2008

giovedì 18 dicembre 2008

SI VOTERA' DI SABATO E DOMENICA


Per le amministrative e le europee 2009 ci sarà un «election day», il 6 e 7 giugno del 2009. Lo dice il ministro dell'Interno Roberto Maroni, in conferenza stampa a Palazzo Chigi. «Il voto- spiega- interessa oltre 4 mila comuni e 73 province, oltre alla tornata per le europee. Si voterà sabato 6 pomeriggio, invece del lunedì, e tutta la domenica 7 giugno».

sabato 6 dicembre 2008

SANTORO E GLI ALTRI (NAUFRAGHI A VITA)


All'Isola, all'Isola! Come farebbe bene un po' d'Isola dei famosi a gente come Michele Santoro, Sandro Ruotolo, Piero Sansonetti, Norma Rangeri. Un po' d'Isola, madornale sfizio, per grattare via dalla loro dura scorza di combattenti qualche chilo di inutile ipocrisia e malriposta supponenza. Un po' d'Isola per lasciare tutti senza fiato, in silenzio, per una salutare pausa di riflessione.

L'unico modo, come suggerivano Fruttero & Lucentini, perché l'apodittico dubiti, il pontificante scenda dal pulpito, l'agitatore si sieda su una panchina, il gonfiato si sgonfi. Si discuteva ad «Annozero» (Raidue, giovedì, ore 21,10) d'Isola dei Famosi (con il titolo più demente dell'intera collezione: «L'Isola di Obama»), della vittoria «comunista» di Vladimir Luxuria, dell'oscenità del genere. Si discuteva e si mostravano immagini del programma non per ricavarne un qualche traino ma per denunciare la «pornografia dei sentimenti » (definizione di quello scoppiato di Wim Wenders, citata da Simona Santoro), per esercitare un po' di sana pedagogia del reality: per questo lo studio pullulava di norme, paragoni, rondò(lini): bisognava pur piantare dei paletti, segnali di spartitraffico, cavicchi di comportamento.

In Inghilterra, a fine '800, l'ex primo ministro Mr William Gladstone adescava le prostitute solo per adempiere alla pia missione di redimerle. Le cose più intelligenti della serata le ha dette Belen Rodriguez, almeno è stata sincera: c'è molta differenza tra la Rodriguez e la Granbassi che lascia l'Arma per apparire in tv? E c'è molta differenza strutturale tra il reality e i talk officiati da Simona Santoro? E alla vincitrice Luxuria non è mai venuto in mente che la sua sia stata una vittoria pilotata (dal punto di vista linguistico, sia chiaro) a fini di audience? Quando il Servitore del Popolo s'intrattiene sulla politica, spero dimostri un maggior livello di competenza dell'altra sera.

Aldo Grasso Corriere della Sera
06 dicembre 2008

giovedì 4 dicembre 2008

VOGUE FOR EVER


Il Diavolo veste Prada, parte seconda: tra indiscrezioni e smentite la direzione di Anne Wintour a Vogue America potrebbe essere davvero agli sgoccioli. Il New York Post che per primo alcuni giorni fa aveva raccolto le voci di corridoio sulla fine dell"era Wintour' ha oggi ripreso una smentita di S.I. Newhouse, il presidente del gruppo Conde Nast a cui fa capo la celebre rivista di moda: "Mai pensato di sostituire Anna con Carine Roitfeld", la direttrice del ben più smaliziato Vogue France. Newhouse si è però ben guardato dallo smontare il teorema secondo cui la direzione di Anna sarebbe arrivata dopo vent'anni al capolinea. Il problema per la britannica Wintour è che i conti non vanno affatto bene: la crisi economica che ha investito l'America dei giornali ha mangiato pagine di pubblicità anche alla patinata e voluminosa rivista di moda. Conde Nast a fine ottobre ha avviato una drastica cura dimagrante chiedendo ai direttori di testate di tagliare sia lo staff che il budget del 5 per cento. La scure era caduta con particolare violenza su Vogue Living, mandato definitivamente in pensione, e su Men's Vogue, edizione americana, costretto a uscire con solo due numeri all'anno e che potrebbe in un secondo tempo chiudere completamente. La Wintour è direttrice editoriale di entrambi. "Men's Vogue sarà una versione piccola piccola rispetto ad oggi - aveva detto all'epoca una fonte - e questa versione piccola esisterà solo perché Anna possa salvare la faccia". Era stato il segnale che aveva dato via libera alle voci: "Sta pensando di ritirarsi", aveva confidato al New York Post una fonte ben informata: "Anna pensa che ha fatto tutto quel che poteva, che ne ha abbastanza e che è meglio smettere ora prima che il suo universo crolli". Il contratto della Crudelia de Mon della moda a cui nella fiction cinematografica ha dato il volto Meryl Streep sta per scadere: Gawker.com, il principale sito di gossip newyorchese, aveva alzato la posta ipotizzando che Newhouse avesse fatto un viaggio ad hoc a Parigi per reclutare la Roitfeld per la direzione della testata che nonostante tutto resta la più redditizia del gruppo. La voce è stata oggi puntualmente smentita, ma non ha fermato il gossip. Altri nomi hanno continuato a circolare per il posto della Wintour: Cindi Leive, che dirige Glamour, e Linda Wells, al timone di Allure, oltre a Amy Astley, la direttrice di Teen Vogue che a sua volta è una protetta di Anna, e Aliona Doletskaya, direttrice di Vogue Russia. La Wintour ha 59 anni e dirige American Vogue dal 1988 quando ha ereditato il posto dalla leggendaria Diana Vreeland. Sebbene l'autrice lo neghi, sono ispirate a lei le vicende del romanzo Il diavolo veste Prada del 2003, scritto da una sua ex-assistente, Lauren Weinsberger. Giornalista di moda da quando aveva 16 anni, nei 20 anni al timone di Vogue ha lanciato nell'olimpo delle passerelle stilisti americani come Tom Ford o Marc Jacobs che col suo aiuto è diventato direttore creativo della maison francese Luis Vuitton.

mercoledì 3 dicembre 2008

Closet Centrist

In Obama's Cabinet, the Audacity of Moderation
Wednesday, December 3, 2008; A17

It is a lineup generous in its moderation, astonishing for its continuity, startling for its stability.

A defense secretary, Robert Gates, who once headed the George Bush School of Government and Public Service at Texas A&M. A secretary of state, Hillary Clinton, who supported the invasion of Iraq, voted to label the Iranian Revolutionary Guard a terrorist organization and called direct, unconditional talks with Iran "irresponsible and frankly naive." A national security adviser, retired Gen. James Jones, most recently employed at the U.S. Chamber of Commerce, who served as a special adviser to the Bush administration on the Middle East. A Treasury secretary, Timothy Geithner, who is one of Henry Paulson's closest allies outside the administration. A head of the Council of Economic Advisers, Christina Romer, whose writings and research seem to favor low tax rates, stable money and free trade.

It is tempting for conservatives to crow -- or liberals to lament -- that Barack Obama's victory has somehow produced John McCain's administration. But this partisan reaction trivializes some developments that, while early and tentative, are significant.

First, these appointments add evidence to a debate about the political character of the president-elect himself. Conservatives have generally feared that Obama is a closet radical. He has uniformly voted with liberal interests and done nothing to justify a reputation for centrism.

Until now. Obama's appointments reveal not just moderation but maturity -- magnanimity to past opponents, a concern for continuity in a time of war and economic crisis, a self-confidence that allows him to fill gaps in his own experience with outsize personalities, and a serious commitment to incarnate his rhetoric of unity.

All the normal caveats apply. It is still early. Obama is benefiting from being the only player on the stage -- all his pretensions of moderation could be quickly undermined by a liberal Congress, unhinged by its expanded majority. And Obama's social liberalism could still turn Washington into a culture-war battlefield.

But honesty requires this recognition: So far, Barack Obama shows the instincts and ambitions of a large political figure.

Second, Obama's appointments reveal something important about current Bush policies. Though Obama's campaign savaged the administration as incompetent and radical, Obama's personnel decisions have effectively ratified Bush's defense and economic approaches during the past few years. At the Pentagon, Obama rehired the architects of President Bush's current military strategy -- Gates, Gen. David Petraeus and Gen. Raymond Odierno. At the Treasury Department, Obama has hired one of the main architects of Bush's current economic approach.

This continuity does not make Obama an ideological traitor. It indicates that Bush has been pursuing centrist, bipartisan policies -- without getting much bipartisan support. The transition between Bush and Obama is smoother than some expected, not merely because Obama has moderate instincts but because Bush does as well. Particularly on the economy, Bush has never been a libertarian; he has always matched a commitment to free markets with a willingness to intervene when markets stumble.

The candidate of "change" is discovering what many presidents before him have found: On numerous issues, the range of responsible policy options is narrow. And the closer you come to the Oval Office, the wiser your predecessors appear.

Third, Obama is finding the limits of leading a "movement" that never had much ideological content.

His transition has seen the return of a pack of Clintonistas -- Lawrence Summers, Eric Holder, Rahm Emanuel -- prompting talk of Bill Clinton's third term. Some of this is unavoidable. Governing experience generally gathers in the stagnant pools of past administrations.

But the resurrection of Clintonism is more pronounced because Obamaism is so wispy and indistinct. Obama brings no cadre of passionate reformers with him to Washington -- no ideological vision cultivated in think tanks for decades. Instead, he has turned to experience and competence in his appointments -- which often means returning to the Clinton era. Experience is vital, especially in avoiding rookie mistakes. But, strange as it sounds, a president can become isolated within his own administration -- his agenda undermined by inertia, resistance or conflicting priorities. Obama eventually will need to define Obamaism and cultivate allies in his own administration who will fight for his enthusiasms.

Whatever the caveats, Obama is doing something marvelously right: He is disappointing the ideologues. This is more than many of us hoped -- and it is causing some of us to raise our hopes in Obama again.

michaelgerson@cfr.org

CHI HA PAURA DI HILLARY CLINTON?

In a period that has been less a traditional transition than an incremental inauguration, Obama so far has performed masterfully. Before the Mumbai terrorist attacks, he dominated the news and drove world financial markets with three successive press conferences, announcing a heavyweight economic team and previewing a deficit-heavy stimulus package. Last week, markets rose on the updraft of Obama’s words; evidently, there is a futures market for hope (though as Monday’s steep decline revealed, that doesn’t alter the dreary fundamentals).


At his national security press conference on Monday, Obama introduced a team that not long ago would have been as unexpected as his own election. He has engaged a retired Marine general as National Security Adviser and re-enlisted Bush’s Secretary of Defense to help engineer his withdrawal from Iraq. (I don’t share the apprehension of some Democrats about Obama’s choices; he won’t break his pledge on Iraq, which would shatter both his credibility and his party.)

The star turn belonged, of course, to Hillary Clinton, whose elevation to Secretary of State was opposed by some of Obama’s closest advisers. Some still worry about the risks, real or imagined. In the latter category is the notion that Clinton somehow will outshine President Obama. But no one in a cabinet outshines the President, and Obama has less to fear in this regard than most.

Other risks, however, are real. To dispel them, Clinton will have to pass the Hillary Test in the days and months ahead.

First, will she be a team player or a barely disguised competitor?

During the making of this Secretary of State, the leaks from her camp weren’t encouraging. She was inclined to say “yes” and then “no” and then “yes” again; she had to pick her subordinates; she needed guarantees about her role. High Clintonian drama was thus introduced into the precincts of No Drama Obama. Some of Clinton’s concerns were reasonable, but there was no reason to leak them—except as a pre-emptive excuse in the event of a vetting failure (think Bill, not her). Then the leaks abruptly stopped.

The test grows harder once she is in office. It will be difficult to sustain trust and coherence in foreign policy-making if unsourced stories proliferate, assigning Clinton credit for success, offering inside accounts of her dissents or blaming Obama for failing to heed her advice. She must resist such temptation, and I believe she will, not least because a split would likely endanger her future more than his.

However, it’s also possible that the new President will forge a genuine bond with the primary campaign rival he once said he liked “well enough.” Their relationship, after all, is a two-way street. The oft-cited comparison with Lincoln’s selection of his archrival, William Seward, for Secretary of State is instructive. Lincoln often walked across Lafayette Park to Seward’s home to confer with him. Seward, who in an early memo had proposed that Lincoln devolve presidential powers to him, became Lincoln’s closest friend in the Cabinet. Obama won’t be walking the two miles to Clinton’s residence off Embassy Row, but these latter-day rivals will succeed only if both principals work for it.

For her part, Clinton must be—and be seen to be—genuinely comfortable yielding center stage to Obama, as she did at the Democratic Convention. She will also have to foreswear a shadow political operation, including poll briefings from her strategist Mark Penn, the salient points of which would no doubt find their way into the press. (Come to think of it, she would have been better off without those poll briefings during her campaign, as well.) And President Bill Clinton will have to discipline himself to play a supporting role—for Obama as well as for his wife. Any hint of a policy split with the former president would be instantly attributed to Hillary.

Finally, atmospherics matter. In the 2000 Gore campaign, I witnessed the media’s fascination with each scintilla of interaction—every smile or scowl exchanged—between Al Gore and Bill Clinton. Any sign of discomfort generated speculation, headlines and damage. The same unforgiving klieg light will shine on the new President and Secretary of State when they’re together—or if they’re not together enough.

Hillary Clinton now has a big job. If she still aspires to the top job, she can’t afford to treat this period as an eight-year transition to her Presidency. If she contemplates a candidacy in 2016—and I suspect she does—the way forward is to focus on being an effective and loyal Secretary of State. Then, around 2014, she can resign and run from a position of greater strength than she was afforded in 2008. She will have no need of stories about sniper fire in the Balkans. And she will have proved that she can manage a large organization better than she ran her presidential campaign. In other words, to fulfill her ambition, Clinton must ignore it. For now.

Clinton was unquestionably a risky choice. But the move can pay off for Obama, for the country and ultimately for Clinton herself if she remembers something Obama himself has been repeating lately: We only have one President at a time.

That’s the Hillary Test.

Condoleza Rice plays piano