venerdì 30 maggio 2008

IDEOLOGY BRAND

Il tatuaggio che immortala il «Che» sul braccio dell’uomo che ha guidato la spedizione squadristica del Pigneto celebra a suo modo l’anniversario del ’68 e chiude un’epoca trasformando definitivamente la faccia del comandante Guevara in icona post-icona, come un adesivo, un marchio vuoto, un brand di moda, potrebbe essere l’aquilotto dell’emporio Armani o la virgola della Nike. È per questo che la lunga confessione consegnata dal picchiatore a Carlo Bonini di Repubblica dovrebbe segnare anche la fine dell’ossessione compulsiva di etichettare politicamente le emergenze sociali: la sicurezza è un sentimento di destra, le ronde sono fasciste, i raid sono nazisti.

Un impulso che risponde al bisogno rassicurante di tener viva la cornice ideologica del Novecento come chiave di interpretazione di tutto.

Un vizio italiano, ma non solo. Il Times di Londra ieri leggeva la faccenda romana in chiave di xenofobia denunciando il rischio razzismo in Italia; il Financial Times rilanciava l’allerta per i rom. Vero, certo. Ma pure questo è un automatismo, anch’esso a suo modo ideologico, che non basta a spiegare quel che bolle nel calderone italiano.

Per illustrarlo il capo della polizia Antonio Manganelli ha parlato ieri alla Camera di «indulto quotidiano», che in altre parole significa impunità permanente in una situazione di «delinquenza diffusa», dove un terzo dei reati viene commesso dai clandestini. Molto più al nord che al sud, ma si sa.

Il picchiatore del Pigneto - che ieri si è consegnato alla polizia ed è subito stato rilasciato beneficiando anche lui della sua quota di indulto quotidiano - è l’esemplare collettivo che ci permette di sfondare il cristallo delle astrattezze sociologiche. «Nazista a me? sono nato il primo maggio...» La politica non c’entra, la - come si dice? - xenofobia nemmeno. Lui voleva soltanto recuperare il portafoglio rubato la sera prima da Mustafà - un marocchino o tunisino, chissà - perché è una questione di «rispetto», i senegalesi nessuno li tocca perché «portano rispetto» e lui ha litigato con tutti quelli che «non portano rispetto alla gente del Pigneto». Lui è cresciuto al bar Necci, quello del film di Pasolini, Accattone: «Chiedete lì chi sono io», come se fosse un passaporto democratico. Nemico degli stranieri? Ma no, gli algerini lo chiamano «Grande mujaheddin, Grande talibano».

Un autoritratto che esce dal Pigneto, ex borgata romana, ma andrebbe bene a Ponticelli, Napoli, dove sono stati incendiati i campi dei rom, o a Verona, dove in piazza Bra si può morire di botte per il passatempo notturno di una banda di ragazzi. È questa la novità italiana. I colpevoli hanno alternativamente il tatuaggio del «Che» sul braccio, la croce celtica al collo o niente, post-icone frullate in un nulla simbolico di territori privi di anima: giungle urbane che si assomigliano, dove la microcriminalità è insieme jattura ed economia, il bullismo è misura esistenziale, lo squadrismo forma primordiale ma riconosciuta di giustizia fai-da-te là dove non se ne avverte un’altra. Forse - come dicono in molti - la sensazione dell’insicurezza è infinitamente superiore all’insicurezza reale, ma il cortocircuito è adesso innescato, le «ronde» sono ormai una dimensione diffusa di controllo del territorio, i vigili urbani di Milano da qualche giorno rastrellano tram e filobus a caccia di clandestini in guisa di vere «ronde padane».

Una guerra ad alta intensità è di fatto dichiarata, la paura ha diffusione interclassista (ma si sente di più nelle classi popolari), alla presentazione di un romanzo sulla Napoli bene viene invitato Roberto Saviano come se la sua Gomorra si fosse ormai dilatata fin dentro l’anima di tutta la città, lo spirito pubblico è smarrito, nella notte brava di Torino i vigili urbani che distribuiscono multe per divieto di sosta vengono aggrediti su piazza Vittorio, il palcoscenico della città aulica.

La griglia destra-sinistra non tiene più. Nemmeno a Roma, dove da quando è sindaco Alemanno (salutato da non poche «braccia tese» al suo arrivo in Campidoglio), è come se fosse cresciuta un’equivoca attesa. L’ex sindaco Veltroni insiste sul clima di intolleranza. L’uomo del Pigneto, con o senza tatuaggio, racconta un’altra Italia che sembra sfuggire a tutti e due. E forse anche a noi.

martedì 27 maggio 2008

ON THE LIFE


Volevo viaggiare figlio mio. Avrei voluto quel set di valige su cui siede Catherine Deneuve in procinto, chissà, di arrivare o di partire. Avrei voluto arrivare e partire ogni giorno e forse l’ho fatto. Ma tu mi vedevi solo partire. Miss Trolley. Ti ricordi? Era più importante dell’invenzione del fax e del perizoma per signore. E in effetti sono andata, di qua e di là. Mai sola. C’era l’ansia ereditata che tramanderò e tramanderai. Tu pensi si possa raccontare? Non sono parole o gesti che possano descriverla eppure è facile dimenticare a meno che. A meno che non la si condivida. E così è stato. Dentro a un vagone e fuori dallo stesso vagone. Tutto in un attimo. Mai in autostrada, mai in tanti altri modi sostituiti da rituali e liturgie e magie. Che vita figlio mio! Quante paure, quante velocità inserite e disinserite pur di non fermarsi. E dove? E perché?

Potessi partire ancora! Andare a trovare posti nuovi che diventano familiari con un gesto e un istante. Un cuscino. E non vedere e non sentire per restare più sorpresi aprendo gli occhi e le orecchie. Ho pensato (sognato) a una vita col trolley con dentro te. Ti ho portato nel mio mondo ma non funziona così. Se tu vuoi andare non è detto che l’altro lo voglia fare e così finisce che sei sola. Ma non troppo, sia chiaro. Ci sono le cose da vedere per raccontartele. Marmellate e balocchi e vestitini di cui caricarsi per dire “vengono da là”, da quell’altro mondo che forse è persino vicino ma è altro. Come resistere al diverso anche se scopri che per trovarlo devi attraversare qualcosa? Un’immaginazione, un ricordo, una certezza, un risultato perduto o un sogno incompiuto. Non c’è specchio che tenga. C’è sempre un al di là che a volere trovare si trova e che regala stupore e speranza. Poi si scopre che tutto era più banale ma la passione investita nel cercare quel qualcosa che magari non c’era rimane e si imprime e diventa passione della passione. Così ci si consuma e si sogna e si sbaglia senza sapere di consumarsi, di sognare e di sbagliare. A quel punto si potrebbe cadere. E io invece sento che volo.

Something about the Family


The printing of the authorized Roman Catholic books is chiefly in the hands of three publishing houses, Desclée & Cie of Tournai (otherwise known as the Société de St. Jean l'Évangéliste), Pustet of Ratisbon, and the Vatican Press, at Rome, about each of which something should be said.

The brothers Henri and Jules Desclée, who had already built a monastery on their property at Maredsons, Province of Namur, Belgium, founded a printing press in 1882 at Tournai, and under the name Société de St. Jean l'Évangéliste published a series of admirable liturgical works, arranged according to the best liturgical traditions, harmoniously decorated, and technically excellent. They had a part in the musical printing required in the movement for the reestablishment of the liturgical chant, inaugurated largely through the influence of the Benedictines of Solesmes. Their editions served as the basis of the Vatican edition ordered for universal use by Pius X.

In the Desclées' books the principle that the directions are to be printed in red and all else in black is consistently followed, and headings such as "Introit," "Gradual," "Epistle," or "Gospel," are rubricated, as these are in a sense directions Moreover, references to passages in the Old and New Testaments are rubricated, for they are merely guides to the verses quoted and would not be said. For the same reason, apparently, the running headlines describing the contents of the page below appear in red, for they, too, are directions as to the day, hour, or occasion of the service. But for purpose of convenience the headings of each new section on the page are printed in bold black capitals--which, while not absolutely consistent, is convenient for purpose of speedy reference. In these books the "Amen" to prayers is treated as a response--as it actually is--and is preceded by R/ in red in rubricated editions, and the words of all versicles--short sentences said by the officiant--are preceded by V/. In the matter of initials there appears to be no fixed rule, and prayers begin with rubricated initials or black initials, as taste directs. I think this is a mistake. Strictly speaking, prayers should have initials in black, for these initials are part of a word to be said, and, moreover, black initials have a better typographical effect. Rubrics in these books have initials in black, which I think also open to exception, for rubrics, except in rare instances, require no initials; but if used, such initials should be rubricated also. A more serious fault is the introduction of gothic initials in prayers printed in roman type. As a whole, however, these books are consistent and careful pieces of typography.

The Pustet family was of Bavarian origin. In the first quarter of the last century Friedrich Pustet, who had been a bookseller, started a printing house at Passau which four years later, in 1826, he transferred to its present location at Ratisbon. Enlarging the establishment and adding a paper mill to the plant, the firm began to print and issue liturgical books in 1845, and later added facilities for the printing of church music. In 1870 the Pustet house was given the style of Typographus S. R. Congregationis, and the Vatican authorities have placed in its hands the editio typica of all liturgical work. The best books issued by Pustet are excellent, but their product is uneven and they have been less fortunate in their decorations than the Desclées, whose books show a greater uniform excellence. A disagreeable feature is the use of colored lithographic frontispieces and pictures, and a later series of these, intended to be more modern in feeling than those they supersede, are no improvement on them. "In the latest Pustet Missal," writes a correspondent learned in these matters, [5] "the incipit letter of the text itself is often in color, usually red. Another characteristic is the introduction into the Canon of certain parts of the varying Communicantes and Hancigitur prayers, to obviate turning the page at that important moment of the service. In general, this new Pustet Missal pays attention to the pagination of the prayers."

The Vatican Press (Tipografia Vaticana), founded by Pope Sixtus V in 1587, was housed in the palace in the building known as the Cortile della Stamperia and an interesting "specimen" of its types and characters for musical notation--Indice de Caratteri, . . . esistenti nella Stampa Vaticana, & Camerale--was published in 1628. Shortly afterward, the Congregation of the Propaganda established a separate printing office for the needs of missions, in which connection it issued, during the seventeenth century, a series of grammar-specimens of its various exotic alphabets, the first of which, Alphabetum Ibericum, appeared in 1629. This press later developed into the Tipografia Polyglotta. In 1910, Pope Pius X effected an amalgamation of the two, under the name Tipografia Polyglotta Vaticana, and arranged a modern and finely equipped plant. The new office prints the usual output of the Curia, especially the Acta Apostolicae Sedis, as well as the special choral editions of the liturgical chant, and the typical editions of the missal, breviary, ritual, and other service books.

The Vatican editions of plain song printed in one color, italic being used for the rubrics, are practical, workmanlike, and handsome; they are well adapted for what they are meant for. "The typical editions of the Vatican Press have the custom of printing the top of the page in red for the title--for example, Praefatio solemnis in festo Sancti Josephi, but using black for this same title as a heading for the actual preface itself. Furthermore, in the actual directions, when a text is referred to by name, the text itself is printed in black. For example, 'Dicto Pater Noster et Credo,' the underlined words are in black, the others in red"--precisely the use in rubricated English prayer books. To persons wishing to consult authoritative Roman Catholic liturgical books, the Desclées' publications will serve the purpose best. The books to be looked at are the Missal, Breviary (in four volumes for the four seasons), Rituale, and Officium Majoris Hebdomadae (Offices for Holy Week).

lunedì 26 maggio 2008

SOLDES


Clic. Chi vuole commentare commenti. For one week only.

Gamorra's land


Non essere sulla Croisette nei giorni giusti è piuttosto seccante. E lo è ancor più se di red carpet calpestabile è rimasto solo lo scendiletto degli alberghetti pretenziosi. Il fatto è che ci hanno invece marciato sopra registi e attori italiani adorables che hanno schiaffato sullo schermo non bamboccione siliconate made in Italy ma il made in italy stesso, quello siculo-campano-romano e giù di lì con nuove componenti cinesi,vietnamite ecc. ecc. Non so se a voi ma ha me è capitato per anni di girare il mondo (non troppo, ahimè!) e di sentirmi sibilare alla spalle, al suono del mio cinguettante linguaggio, paroline tipo mafia, maccheroni, cicciolina, calcio, al capone, pizza e altre amenità aggiornate tempestivamente sull’onda della cronaca. Ammetto che monnezza, in bocca a un marocchino sia piuttosto divertente così come a un paralord d’oltrematica. Ciò che temo è che dopo una stasi negli spunti, i film che giustamente si sono aggiudicati premi su premi rimettano in circolo quell’immagine dell’Italia che inutilmente l’ex ministro blasè Rutelli aveva tentato di ammorbidire con l’indimenticabile e fallitissima operazione italia.it.

God bless Saviano e soprattutto il divo dei divi ma già mi vedo in un mercato di Los Angeles (ah! magari!) mentre il pirla di turno al pret à manger mi apostrofa come figlia di scampìa (son of scampia), moneza, cammora e via di questo passo. E temo che a poco varrà la mia esibizione dei sandaletti da quinta strada e montenapoleone fatti a nord ovest di Pechino. Insomma, un disastro. E che cosa porto ai miei amici americani? Il Brunello che sono ormai convinti sia taroccato? A Tokio, nei ristoranti italiani, è indicato a chiare lettere (tokiesi) che tutti gli ingredienti dei piatti italiani sono rigorosamente giapponesi. Stesse contraddizioni nel resto del mondo. Insomma, Gomorra è una specie di colpo di grazia sulla mia credibilità di italiana. Italian? Sorry, I dont undestand… I live in an other country… Espagna? Near espagna, very far gomorra’s land…

sabato 24 maggio 2008

My lesson

Quando dico che un tizio è un pessimo candidato non intendo dire che sarà un pessimo amministratore. Il mio giudizio attiene al modo in cui comunica durante la campagna elettorale non solo attraverso il programma (basta!!!) ma soprattutto attraverso il suo comportamento che si traduce nel tipo di rapporti che intrattiene con i partiti, le formazioni e i candidati che lo sostengono, nel modo in cui si confronta con gli avversari e, più in generale, con l’immagine di sé che trasferisce all’esterno.

Ebbene, ancora sto parando le frecciate che mi giungono dalla coalizione (perdente) il cui candidato non era esattamente quello che i manuali definiscono, anzi, il mio manuale definisce come “perfetto”.

E quando coloro che lo avevano sostenuto si accaniscono nel ripetere che era il miglior candidato possibile non intendono quel che intendo io. Per farla breve succede che dalle mie parti viene candidato a sindaco un signore un po’ agè ben conosciuto tra i redivivi della prima repubblica, che se la deve contendere con un altro tizio il cui vantaggio competitivo è semplicemente quello di essere il rettore dell’Università nonché l’ospite fisso, per qualche anno, di “Che tempo fa”. Non è che io di Fabio Fazio vada matta (ma è molto, molto carino e gentile) ma mi è piuttosto chiaro quanto si siano gonfiati i petti dei miei concittadini vedendo che per anni il “loro” rettore sia stato pappaeciccia con un personaggio televisivo a dir poco gradevole (e da me adorato ai tempi di Quelli del calcio, con i gol e tutto il resto vissuti attraverso gli occhi degli altri).

E torniamo alla competizione elettorale: il dott. che sfida il prof., per quanto astuto, abile, lesto di mente, poco può contro chi ha scorazzato negli schermi televisivi e indossato l’ermellino.

E infatti il “magnifico” è stato alla fine eletto e non è detto affatto che sarà un buon amministratore. E nulla mi vieta di ritenere che forse lo sconfitto avrebbe gestito meglio di lui strade, parcheggi e rom.

Che cosa poteva fare il dott. per colmare il gap che lo distanziava dal prof.? Il mio parere è che avrebbe dovuto dimostrarsi più glam del magnificent, più raffinato, più conservative chic e decisamente smart. Invece si è preoccupato di mantenere le distanze dai partiti, di credere nelle liste civiche (a quando la loro eliminazione per decreto?) e di assumere l’aria del vicino di casa. Quello che alla mattina si incrocia in ascensore mentre scende in cantina a prendere la bicicletta e alla sera mentre rincasa dalla corsa sudaticcio e con la maglietta con lo sponsor (!).

Eppoi, un candidato “perfetto” tra il primo e il secondo turno non si diletta a disegnare ipotetiche giunte ma si toglie la maglietta, scende dalla bicicletta e – in giacca e cravatta (deve risultare più smart del fabulous) - se ne va a bussare alle porte e a chiedere quel voto indispensabile per colmare i cinque punti di differenza che lo distanziano dal wonderful. Perchè altrimenti succede, ed è successo, che tutti quelli che si ritengono intelligenti (e sono la maggioranza) alla fine corrano a votare per quello che considerano il loro omologo e ovvio rappresentante. Terrific!

giovedì 22 maggio 2008

What happen?

Illinois Senator Barack Obama earned a majority of pledged delegates May 20, but this still leaves him about 370 delegates shy of securing the Democratic nomination. As polls in recent days indicated, Obama won Oregon’s Democratic primary May 20. With 88 percent of the vote counted in the only U.S. state that conducts all voting by mail, Obama was leading by 16 percentage points. Oregon is a northwest state on the Pacific coast with one of the most liberal populations in the country.On the same day, Hillary Clinton defeated Obama by 35 percentage points in Kentucky, a southern state with a large, white, working-class population. Its demographics are similar to those of neighboring West Virginia, where Clinton won by 41 percent May 13.
In order to become the party’s nominee, a candidate needs to earn the votes of a majority of convention delegates. This includes pledged delegates and unpledged delegates, better known as “superdelegates.” To secure the nomination, a candidate must receive the votes of 2,026 delegates. U.S. media organizations and political parties each use their own formulas for determining just how many delegates a candidate has earned. Often the counts are estimates, because it can take days or even weeks for states’ parties to determine exactly how many delegates each candidate will receive. America.gov uses the delegate count calculated by the organization the Green Papers. As of the morning of May 21, the Green Papers said Obama has earned 1,655.5 of the 3,253 pledged delegates. Clinton has 1,498.5 pledged delegates. Many U.S. media and political organizations include in their delegate tallies the votes of superdelegates who have made their intentions known. Superdelegates are elected officials and party leaders who can vote for any candidate they choose. This means they can change their minds about whom they support, as a handful have done this election season. As of the morning of May 21, 304.5 of the 797 superdelegates said they intend to vote for Obama, while 277.5 superdelegates said they plan to vote for Clinton. Democrats Abroad and some U.S. territories award delegates in half-vote increments so that more people can participate in the national convention.

In a speech May 20, Obama said that with a majority of pledged delegates, he is “within reach of the Democratic nomination for president of the United States of America.” Typically this election season, the candidates have given speeches in a state that just held a primary. But Obama chose to speak in Des Moines, Iowa, which some political experts said signified that he was turning his attention to the general election. Iowa not only was the state where Obama won the first nominating contest of the 2008 campaign, but also is a swing state in which candidates from both parties will want to campaign in this fall.
Talking to the many Iowa supporters who voted for him in the state’s January caucus, Obama said: “You came out on a cold winter's night in January, in numbers that this country has never seen, and you stood for change. … And because you did, a few more stood up, and then a few thousand stood up, and then a few million stood up.”
“And tonight … we have returned to Iowa with a majority of delegates elected by the American people.”
In Louisville, Kentucky, Clinton said she will continue to campaign for the nomination because neither candidate has enough delegates yet to guarantee the position.
“Neither Senator Obama nor I will have reached that magic number when the voting ends on June the 3rd,” Clinton said. Three Democratic nominating contests remain: Puerto Rico holds its primary June 1, followed by South Dakota and Montana June 3.
“This continues to be a tough fight, and I have fought it the only way I know how: with determination, by never giving up and never giving in. …
“And I'm going to keep standing up for the voters of Florida and Michigan. … Democrats in those two states cast 2.3 million votes, and they deserve to have those votes counted,” Clinton said.
In the fall of 2007, the Democratic National Committee (DNC) said it would not count Florida and Michigan’s pledged delegates because the states violated party rules by scheduling their primaries prior to February 5. The presidential candidates agreed not to campaign in those states, and Barack Obama and most other Democratic candidates removed their names from the Michigan ballot.
Clinton earned the most votes in both of those states’ primaries, and has argued that voters deserve to have their voices heard. Obama has maintained that it is unfair to count those delegates because candidates did not campaign in those states.
Both candidates visit Florida May 21. Clinton will work to encourage party leaders to count the state’s delegates, while Obama reaches out to Florida voters who might be offended that votes cast by their Democratic delegates currently would not be counted toward the nomination. Political experts say this outreach is important because, as Americans remember from the 2000 election, Florida is a key swing state.

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Dei tre minuti di silenzio osservati dai cinesi per le vittime del terremoto colpiva soprattutto una cosa: il silenzio. Nelle immagini televisive nulla sembrava poter distogliere dal loro rigore quei corpi immobili e quelle labbra serrate. Un miliardo e trecentomila persone capaci di tenere la bocca chiusa e le mani ferme per tre minuti (il totale fa 7415 anni di silenzio: praticamente un’era glaciale). Il confronto con i funerali della ragazza di Niscemi assassinata dai coetanei non avrebbe potuto essere più deprimente. Applausi scroscianti alla bara, persino durante l’esecuzione del «Silenzio» da parte di un trombettiere.
L’applauso in chiesa o durante le commemorazioni negli stadi è un segnale drammatico di decadenza, tanto più perché pochi sembrano darvi peso. E’ figlio della maleducazione televisiva ed esprime l’ansia di riempire un vuoto. Nelle civiltà in declino ha perso il significato originario di approvazione ed è diventato il modo di comunicare agli altri la propria esistenza. Si applaudono i morti per sentirsi vivi, senza esserlo davvero: solo dei morti viventi, infatti, possono avere tanta paura del silenzio, che li costringe a sintonizzarsi con la parte più profonda di se stessi. Ma il ribaltamento degli impulsi naturali ha trasformato il silenzio in un segnale di freddezza e l’applauso in una forma di partecipazione. I cinesi cominceranno a perdere colpi il giorno in cui scopriranno che muovere le mani e la bocca è un ottimo sistema per mettere a tacere il cuore.

Ma non finiscono così anche i consulenti?


Piero Longo, almeno lui ha parlato chiaro. «Con questo sistema elettorale non siamo eletti, ma nominati», ha dichiarato durante una udienza del processo Mills l’avvocato del premier Silvio Berlusconi, apprestandosi a diventare senatore. Non che l’andazzo fosse molto diverso con la vecchia legge elettorale: in quel caso c’erano i cosiddetti collegi sicuri, e anche allora in Parlamento entrava (nella stragrande maggioranza dei casi) chi decideva la segreteria di partito. Però la forma, almeno quella, era salva. Adesso nemmeno quella. Il Parlamento è diventato sempre più una questione personale dei leader politici, che possono gratificare a loro piacimento gli amici e i fedelissimi con un seggio alla Camera o al Senato. E Longo è soltanto l’ultimo caso: prima di lui, del resto, altri avvocati del Cavaliere sono diventati onorevoli.

Pur conoscendo le assurdità di questa legge elettorale, questa volta era tuttavia legittimo aspettarsi qualcosa di più. Almeno qualche segnale di ricambio, anche se deciso dall’alto: non fosse altro per le polemiche che avevano investito un sistema politico sempre più ingordo e autoreferenziale, a destra come a sinistra. Uno sguardo agli elenchi dei parlamentari della sedicesima legislatura fa invece sgorgare un fiume di domande.

Per esempio, se possa considerarsi un atto di ricambio politico la «nomina» a senatore di Salvatore Sciascia, già tributarista di Berlusconi, attualmente presidente della Holding italiana quattordicesima, una degli scrigni nei quali sono custodite le azioni della Fininvest, nonché vicepresidente della Immobiliare Idra, la società che gestisce le ville del premier, destinatario di una condanna definitiva a un paio d’anni per le tangenti alla Guardia di finanza. Oppure se fosse proprio necessario mandare in Senato anche il vicepresidente di Mediolanum, Alfredo Messina. E passi per Mariella Bocciardo, ex cognata del Cavaliere (è stata la consorte del fratello Paolo Berlusconi) che nel curriculum si definisce «dirigente di partito », come pure per Sestino Giacomoni, per anni prima portavoce e poi factotum dell’ex ministro Antonio Marzano: entrambi erano già parlamentari dal 2006. Passi anche per Silvio Sircana, fedelissimo portavoce di Romano Prodi: anche lui era già deputato. Ma che cosa ha determinato la candidatura a Montecitorio di Deborah Bergamini, ex direttrice del marketing della Rai ed ex assistente personale del Cavaliere?

Che dire poi della nomina, sempre alla Camera, dell’ex capo della segreteria politica di Claudio Scajola ed ex commissario della Cit Ignazio Abrignani? E di quella dell’ex consigliere politico dell’ex ministro della Difesa (di centrosinistra) Arturo Parisi, Pier Fausto Recchia? Oppure del fatto che nella lista dei neoparlamentari si trovino anche i nomi dell’efficiente ex portavoce dell’ex ministro della Difesa Antonio Martino, Giuseppe Moles e del bravissimo braccio destro di Giulio Tremonti, Marco Milanese? O ancora, erano proprio ingiustificate le polemiche che hanno accompagnato la nomina alla Camera di Luciana Pedoto, già segretaria particolare del ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, esponente di spicco del Partito democratico, che si professa «non raccomandata»? E si potrebbe andare avanti ancora, con una doverosa precisazione: se questi casi appaiono più numerosi nel centrodestra, dipende anche dal fatto che lo schieramento di Berlusconi conta un bel numero di parlamentari in più rispetto all’opposizione.

Per carità, siamo certi che in Parlamento tutti quanti si faranno onore, indipendentemente dagli sponsor. Qualche dubbio invece, esiste, eccome, sul fatto che questo sia il modo migliore per rinnovare la classe politica.

martedì 20 maggio 2008

Monnezza a chi?

Non si può dire, onestamente, che lo stato d’animo sia di chi tira un sospiro di sollievo mentre mormora «almeno ’sta rogna gliel’abbiamo mollata».
Però, certo, sotto sotto l’animo è di chi è lì, in attesa, e pensa «adesso vediamo come se la cava lui». Perché magari - ed è la speranza di tutti, napoletani in testa - andrà benissimo, e Berlusconi potrà dirsi il protagonista di un’altra di quelle imprese di cui ogni tanto si vanta: aver ripulito Napoli dall’immondizia. Ma potrebbe anche andare meno bene, cioè com’è andata a chi ci ha messo le mani fino ad ora, da Bassolino a De Gennaro, da Bertolaso a Iervolino. E questo dice di quanto sia coraggiosa e insidiosa la sfida lanciata da Berlusconi: la cui faccia, da domani, sarà inevitabilmente associata ai cumuli di rifiuti.
Pare l’abbiano sconsigliato fino all’ultimo - consiglieri romani e referenti napoletani - di tener fede all’impegno di riunire qui il Consiglio dei ministri che darà il via, tra l’altro, al piano per la guerra alla monnezza. La faccenda si stava facendo - e resta - un po’ rischiosa: campi rom incendiati, falò per le strade, guaglioni della camorra in attività e due cortei già pronti per contestare la riunione del governo (uno con Francesco Caruso). Ma Berlusconi non ha voluto saperne: lo aveva promesso e un impegno è un impegno. A costo di portarsi dietro tutti i ministri. Nel suo ufficio al terzo piano di un bel palazzo di via Santa Lucia, Bassolino conferma: «A me sembra il presidente convinto e impegnato. Ci vuole provare, e noi gli saremo al fianco. Sa perfettamente che è una brutta grana, perché con l’emergenza rifiuti Berlusconi ci ha già avuto a che fare tante volte: ricorderà, immagino, che perfino io - quando lui era al governo - sono stato per tre anni suo commissario...».
E la monnezza, dunque, da domani diventa una grana bipartizan: e già il fatto che sia bipartisan, fa tirare un fiato alle istituzioni locali, triturate dallo scandalo dell’immondizia per le strade. Quando poi all’immondizia sono tornati ad aggiungersi i raid notturni, i campi rom incendiati e i pompieri presi a sassate, si è tornati ai livelli di guardia - quelli di oggi, appunto - della prima emergenza-rifiuti, che a gennaio fece il giro del mondo. Sistemato dietro la scrivania ultramoderna del suo ufficio al 16° piano del Centro direzionale, Velardi - assessore regionale al Turismo e storico consigliere di D’Alema - sostiene che le cose non starebbero così. «Bisogna cominciare a dirsi che sono fatti diversi. La prima crisi, quella sì, fu la crisi dei rifiuti. Questa è un’altra cosa: è la crisi della convivenza, dello spirito pubblico che muore. Intorno alla monnezza si agitano camorristi e ultrà, gente di Forza Nuova e quelli di Caruso, e la città ne è travolta e anzi fa il tifo ora per questo, ora per quello... E nessuno ha i titoli per ripristinare un principio di autorità. Bisognerebbe azzerare tutto e ricominciare».
Ieri mattina uno sciopero a tradimento dei servizi di trasporto pubblici ha paralizzato la città. La notte prima, due ragazzi minorenni hanno sbattuto con la moto e sono morti: naturalmente, erano senza casco. Forse è poco pietoso aggiungere che ogni volta è un po’ peggio, che passa il tempo e la parabola della città non s’arresta. La violenza e l’abitudine alla violenza, anzi, si radicano: e diventano cultura. Ieri Napoli mandava in giro per il mondo film come «Morte di un matematico napoletano» o il «Ricomincio da tre» di Troisi. Oggi a Cannes ci va «Gomorra». E non c’è niente da dire. «A fine mese torna a Napoli il Re di Spagna. E ci siamo appena aggiudicati il Festival internazionale del Teatro, 200 spettacoli, 15 Paesi coinvolti, comincia il 6 giugno - gesticola Bassolino per dire che Napoli non è solo immondizia, come ieri si diceva che Napoli non era Calcutta, ed è un paragone che è prudente non rifare -. In più, è imminente il restauro del San Carlo. Noi ci abbiamo messo 50 milioni di euro, è il più importante intervento dal 1737...».
La parte finale della Riviera di Chiaia, la strada parallela all’incantevole lungomare, è colma di immondizia: il vento che viene dai Campi Flegrei ne spalma la puzza e magari la spinge fin lì, a piazzetta Trieste e Trento, al San Carlo, appunto. Nei quartieri di periferia, dove un teatro nemmeno c’è, è peggio: si sguazza in un pantano di reciproche illegalità e poi ci si meraviglia che si arriva al punto che la gente applaude i guaglioni che danno fuoco ai campi rom. Una miscela esplosiva. Napoli ha conosciuto altri precipizi, il colera negli Anni 70 e il terremoto dell’80, gli omicidi di Prima Linea e le stragi di camorra: ma si rialzava e reagiva, aggrappandosi a qualunque cosa - dal teatro di Eduardo a Maradona - per mandare di sé un’immagine positiva e viva. Oggi, tra rassegnazione e rabbia, non sembrano esserci stazioni intermedie...
Ed è in una polveriera così che Berlusconi ha deciso di giocarsi un po’ della faccia del suo quarto governo. «E noi dovremo collaborare - assicura Velardi -. Anzi, dovremo essere il suo braccio operativo qui. Solo una cosa il Cavaliere deve aver chiara: che quanto più forti sono le aspettative che si suscitano, tanto più forte sarà la rabbia per un fallimento. E’ un’equazione matematica. E’ quella, in fondo, che qui ha già tramortito un’intera classe dirigente».

mercoledì 14 maggio 2008

TODAY

Invito

TAVOLA ROTONDA

LA COMUNICAZIONE HA VINTO O PERSO LE ELEZIONI?”

Analisi e riflessioni su stili, miti e modelli della nuova politica

MERCOLEDI’ 14 MAGGIO

ORE 17

SALA CONVEGNI DELLA CAMERA DI COMMERCIO

PIAZZA VENERIO

UDINE

Ne discutono

Marco Cucchini Politologo

Fabio de Visintini Università di Udine

Gabriele Qualizza Sociologo

Maria Bruna Pustetto Political Observer

Riccardo Rudelli Consulente Politico

Dibattito

Drink


lunedì 12 maggio 2008

Tempi duri per Mamma Hillary


With her campaign falling ever deeper into debt, Sen. Hillary Rodham Clinton spent a rainy Mother's Day seeking votes ahead of Tuesday's primary here, turning a deaf ear to calls for her to leave a Democratic presidential contest she has little hope of winning.

Clinton aides continued to insist that she will remain in the race even while confirming that she is $20 million in debt. "The voters are going to decide this," senior adviser Howard Wolfson said on "Fox News Sunday," acknowledging the $20 million figure. "There is no reason for her not to continue this process." Wolfson said he has seen "no evidence of her interest" in pursuing the second-place spot on the Democratic ticket, contrary to rumors that she is staying in the race to leverage a bid for the vice presidential nomination.

With the primary season nearing its close, Sen. Barack Obama's advisers are beginning to consider the question of his running mate with more urgency as they focus more openly on the general election. Although Obama himself has been careful to insist that the Democratic race is not over as long as Clinton stays in it, his advisers have planned a trip to Missouri -- a state that held its primary on Feb. 5 but appears certain to be a key November battleground -- this week.

While not dismissing the states entirely, Obama's campaign is making it clear he will not aggressively contest West Virginia or Kentucky, which holds its primary a week from Tuesday. Obama is likely to win in Oregon, also a May 20 primary state. Clinton has campaigned hard in West Virginia, and her aides said Sunday that she will hold a victory celebration at the Charleston Civic Center on Tuesday night.

With nearly everyone -- including, privately, many on her own team -- contemplating when, not if, she will quit the race, the questions surrounding Clinton now go largely to her motivation. Publicly, her campaign argues that victories in West Virginia and Kentucky could shift the growing tide of momentum for Obama back to her by demonstrating that she has appeal in states that Democrats must to win to take back the White House in November. What is unclear is whether she hopes strong performances will make Obama consider her for the No. 2 slot or at least help her retire her growing debt.

"I don't believe that Senator Clinton is looking for a deal," Obama strategist David Axelrod said on the same Fox show on which Wolfson appeared. Saying that Clinton "competed hard" and is "playing it out as she sees fit," he said the Clinton campaign is capable of deciding how to leave for itself. "I don't think she's waiting for a cue or a signal from us or an offer of financial assistance. And I think that would demean her to suggest otherwise," he said.

Axelrod added: "I don't think even under any scenario . . . that we were going to transfer money from the Obama campaign to the Clinton campaign. We obviously need the resources we have. We have a great task ahead of us."

There was, Axelrod said, "a misunderstanding out there about that." After reports that Michelle Obama, the senator's wife, has rejected the possibility of an Obama-Clinton ticket, Axelrod flatly said: "That's false." He said there have not been overtures made to the Clinton team to negotiate her departure from the campaign.

Clinton has spent the better part of the past year on the campaign trail, with almost every holiday doubling as a campaign opportunity. Mother's Day was no exception: After holding a fundraiser in New York, Clinton and her daughter, Chelsea, went to West Virginia and toured the birthplace of Anna Jarvis, the woman who founded the holiday a century earlier. Clinton told reporters that she had gotten flowers from her daughter and husband, as well as a vase and a perfume bottle made in West Virginia. She continues campaigning here Monday with stops in four towns, Montgomery, Clear Fork, Logan and Fairmont.

giovedì 8 maggio 2008

Et voilà!



mercoledì 7 maggio 2008

Hillary's race


Even with a narrow victory in Indiana's Democratic primary Tuesday, Sen. Hillary Clinton failed to gain any ground on Sen. Barack Obama in the race for the Democratic nomination. Now the attention turns to whether or not Clinton's campaign will have the resources and the energy to move forward. Speaking to supporters Tuesday night, a noticeably fatigued Clinton indicated she could still remain in the race, at least until the end of the primary season June 3.

"These next primaries are another test," Clinton told supporters. "I'm going to work my heart out in West Virginia and Kentucky this month, and I intend to win them in the general election."

Clinton and Obama split Tuesday's primaries. In Indiana, Clinton bested Obama with 51 percent of the vote to his 49 percent. But in North Carolina, Obama notched a significantly larger win than some polls were predicting, garnering 56 percent of the vote to Clinton's 42 percent.

Obama's sizeable win in North Carolina means he will take the lion's share of the delegates up for grabs Tuesday, even when Indiana is factored in. So, despite the split decision, Hillary Clinton will fall even further behind in the overall pledged delegate count.

"Given how far she's come and how little time there is to go, I can't imagine [Clinton] drops out before the last primary," says pollster and Democratic strategist Mark Mellman. "The more places she wins, the better off she is, because it's all about talking points for superdelegates right now."

If she moves forward, strategists say Hillary Clinton faces an uphill fight with her campaign needing to find a way to keep the money flowing after Tuesday's results. The campaign also needs to convince superdelegates to hold off on making a decision until after the last primary vote is cast-a call Mellman thinks the supers are likely to heed. "There's still no clear objective criteria on which [superdelegates] can base a decision," he says. "I think some of them are just waiting to have the full picture before they decide."

Next up on the primary docket is West Virginia on May 13, followed by Kentucky and Oregon a week later. Clinton is heavily favored in West Virginia, where the working class white voters who helped carry her to victory in Ohio, Pennsylvania and Indiana make up an overwhelming majority of Democrats in the state.

With a win in Indiana under her belt, Clinton would look to bolster her electability argument with wins in places like West Virginia that give her another chance to tout her dominance among blue-collar white voters. She could also look to Puerto Rico, which votes June 1, where she can flex her muscle with Hispanics.

"If she shows real strength in a place like West Virginia and then can win a state like Oregon, the electability questions remain," says Democratic strategist Liz Chadderdon. "She's already proven there are a significant number of voters that are drawn to her over Obama."

With no poll numbers to parse just yet for any of the remaining states, the demographic make-up is the best indicator of how those contests may shape up. Democratic strategist Tad Devine says expectations will be high for Clinton in West Virginia, Kentucky and Puerto Rico. But Devine thinks the key state moving forward will likely be Oregon. "That state's going to have a lot of weight," he says. "It's a more progressive state that doesn't fit naturally into her column, so if she can win there it helps her chances and her argument immeasurably."

And despite primary fatigue from party insiders, Democratic voters appear anxious to keep the contest moving. A Gallup poll released Tuesday found that 60 percent of Democrats want both Obama and Clinton to continue their campaigns. Just 23 percent of Democrats said Clinton should drop out; 15 percent said Obama should leave the race. The same poll found that 45 percent of Democratic voters think the party's superdelegates should wait until the official end of the primary season June 3 to declare their allegiance. And a full 26 percent of voters want the supers to wait until the convention in Denver.

Coming into Tuesday, Clinton was some 415 pledged delegates short of the number needed to clinch the nomination-that count does not include Florida and Michigan. Obama was just 280 shy entering Tuesday. Come Wednesday, Obama will likely be within 200 delegates of reaching the magic number of 2,025 pledged delegates.

If the Clinton campaign decides to fight on, the race for the nomination could enter a contentious and confusing phase as the end of the primary season nears. The Democratic National Committee's Rules and Bylaws Committee is set to meet at the end of the month, where members will debate whether to seat the delegations from Michigan and Florida. Tad Devine says that meeting could be the start of weeks of procedural wrangling between the campaigns, assuming the Clinton campaign takes up that fight.

"Anything from inconsequential action to turmoil can come out of that process," Devine says. "It's really up to the campaigns to decide what they want the tone of this to be, because the rules are such that they could go as nuclear as they want if it drags on, especially if it gets to Denver."

And given the chance, says Liz Chadderdon, Hillary Clinton will take the fight to Denver.

"Hillary has proven that she doesn't go quietly, so I can only imagine they have figured out a path to victory," she says. "Now, do I think [the Clintons] would rip apart the party for her to be the nominee? ... I actually do, which is really quite a depressing thought for a Democrat."

martedì 6 maggio 2008

Grande è la confusione sotto il sole e la situazione NON è eccellente

Sono trascorsi tre anni da quando in Italia si svolsero le elezioni che segnarono un grande successo del centrosinistra in quasi tutte le regioni e particolarmente nel Sud continentale. Sono trascorsi due anni dalle elezioni politiche che diedero la vittoria di misura all’Unione prodiana. E solo due anni addietro, nelle elezioni comunali di Roma, Veltroni ottenne il 67 per cento dei voti, mentre Alemanno si fermò al 33 per cento. Eppure, a leggere alcune analisi dei risultati elettorali del mese scorso, sembra che la destra abbia vinto non tanto per gli errori politici e di comportamento dei partiti del centrosinistra e del governo che esprimevano, ma perché il mondo che li circonda e condiziona è radicalmente cambiato.

Eugenio Scalfari nel suo editoriale domenicale ha scritto: «Io credo che l’emergere elettorale del centrodestra e la rivoluzione parlamentare che ne è seguita siano state largamente determinate dal nuovo atteggiarsi delle forze produttive, lo sgretolarsi dei tradizionali blocchi sociali, la scomparsa delle classi, il frazionarsi degli interessi fino alla loro completa polverizzazione». Dubito che le classi siano scomparse, e mi chiedo se i processi a cui accenna Scalfari siano emersi in questi ultimi due-tre anni.

Nei giorni scorsi nella trasmissione «Otto e mezzo» ho ascoltato Nichi Vendola che analizzando le ragioni della sconfitta ha parlato di sconvolgimenti economici, sociali e civili «epocali» tali da mettere in discussione tutto l’assetto politico-culturale della sinistra. Eppure tre anni addietro Vendola, dirigente di Rifondazione comunista, vinse le primarie nel confronto con un esponente dell’Ulivo e vinse il ballottaggio con l’ex presidente della Regione, Fitto, leader di Fi. In quell’occasione si disse che Vendola aveva interpretato bene i mutamenti profondi che si erano verificati nella società. Oggi lo stesso Vendola ci dice che la sinistra non è stata in grado di capire quei mutamenti.

La verità è che in questi due-tre anni si sono verificati alcuni fatti politici di cui non si parla con sufficiente realismo e spirito critico. Anzitutto il governo Prodi di cui nella campagna elettorale si esaltavano i risultati sul terreno del risanamento dei conti pubblici (i risanatori però - Prodi, Padoa-Schioppa, Visco - non erano candidati), si denunciavano i limiti sociali della sua opera ma non si capiva qual era il giudizio complessivo che ne dava il Pd. L’Arcobaleno vantava la fedeltà a Prodi ma denunciava con violenza il «massacro sociale» consumato in questi anni. Non si può fare una campagna elettorale senza un giudizio chiaro, netto, comprensibile sul governo di cui si fa parte.

L’altro fatto politico verificatosi alla vigilia delle elezioni è stato la nascita del Pd, del Pdl e dell’Arcobaleno: una «rivoluzione» nelle forze politiche senza un processo politico-culturale e una partecipazione reale che l’accompagnasse. La destra, con Berlusconi, non ha questi problemi. La sinistra sì, e si è visto. Queste osservazioni servono per dire che le questioni che debbono affrontare le forze politiche del centrosinistra sono squisitamente politiche e sono due: ridefinirsi come partiti e attrezzarsi per fare un’opposizione «normale» rispetto a un governo che, come dice Marcello Sorgi, dovrebbe essere anch’esso «normale». Il malessere che serpeggia nel Pd non è dovuto solo a un risultato deludente, ma al fatto che quel risultato è ascritto all’incerta identità di un partito che oggi non è in grado di definire le sue alleanze, necessarie, come dice D’Alema, per condurre un’opposizione più incisiva. Un partito che, a un anno dalle elezioni, non sa ancora dove collocarsi nel Parlamento europeo.

Ma un dibattito politico su questi temi non si è ancora aperto. Nella sinistra Arcobaleno e nei socialisti la confusione è grande e non si vede una via d’uscita. Quel che ormai dovrebbe essere chiaro a tutti è una cosa: non è pensabile e non è serio che forze politiche con l’uno, due, tre per cento o poco più si definiscano socialiste o comuniste. Un partito socialista in tutto il mondo è tale se ha un consenso largo di popolo. E in Italia anche il partito comunista ebbe carattere di massa. La Costituente socialista doveva partire da questo punto per essere credibile. Nei giorni scorsi Pannella ha promosso un dibattito con pezzi dell’Arcobaleno sul futuro della sinistra. Tuttavia non mi pare che si esca da una logica e una visione minoritarie: comprensibile per un partito radicale, ma non per una forza socialista. Insomma, una forza di sinistra in competizione virtuosa col Pd è utile solo se ha consistenza e si colloca nell’ambito del socialismo europeo. Oggi, invece, tutto è confuso e incerto. Sono queste le ragioni per cui penso che le analisi «epocali» possono essere fuorvianti se non si affrontano i veri nodi politici messi in forte evidenza dal risultato elettorale.

lunedì 5 maggio 2008

AS WE ARE


Abito Versace, giacca Halston, borsa Fendi e scarpe Brian Atwood. Quando si intervista Sarah Jessica Parker non ci si può esimere dal fare l'elenco della spesa delle firme che indossa: dopo tutto, cosa c'è di più importante per le quattro amiche di Sex and the City che la moda, il sesso e gli amori?

Dopo sei anni di fortune televisive, le vicende tratte dal romanzo di Candace Bushnell arrivano sul grande schermo (il 30 maggio negli USA e in Italia), per la regia di Michael Patrick King. Nel film Carrie Bradshow (Sarah Jessica Parker), Samantha Jones (Kim Cattrall), Miranda (Cynthia Nixon) e Charlotte York (Kristin Davis) continuano la loro amicizia a New York, fra tribolazioni amorose, matrimoni annunciati e cancellati, tradimenti, gravidanze e sfilate di moda.
Tornano personaggi conosciuti, fra cui Mr. Big (Chris Noth), che finalmente ha capito che Carrie è la donna della sua vita e Steve Brady (David Eigenberg), che dopo aver tradito Miranda capisce il suo madornale errore, e un nuovo volto, l'attrice Jennifer Hudson (Dreamgirls) nei panni dell'assistente di Carrie.

Ne abbiamo parlato con la Parker, che è anche produttrice del film.

Sono passati più di quattro anni da quando Sex and the City è apparso per l'ultima volta in televisione. Come è stato tornare a questo ruolo?
E' stato incredibile. Ho cominciato a lavorare per mettere insieme questo film dalla primavera del 2006, e quando abbiamo cominciato qualche mese dopo a girare mi sembrava quasi irreale che fossimo riusciti a mettere insieme tutti i pezzi necessari! Per un momento io e Michael Patrick pensavamo sarebbe stato impossibile, tanto era tutto complicato!

Come avete fatto per rendere la storia ancora significativa oggi per il grande schermo?
Il film non comincia dove era finita la serie: sono passati quattro anni, e il film affronta il momento in cui i personaggi cominciano a invecchiare e si domandano cosa sia veramente importante nella loro vita; le frivolezze cominciano a diventare meno importanti.

Temeva che Carrie venisse percepita dal pubblico come un personaggio superficiale, esageratamente fissata con la moda?

No, non avevo quel timore. A volte magari mi domando se dopo aver tanti anni di quel personaggio la gente non mi confonda con una persona per cui la moda sia la cosa più importante! Ovviamente Carrie ha un rapporto molto forte con gli abiti, ma se fosse tutto lì non saremmo riuscite a mantenere uno spettacolo del genere in TV per tanti anni.

Vuol dire che lei non ama la moda quanto Carrie?
No, mi dispiace deludervi! Non che non ami fare shopping, ma non c'è spazio per quello nella mia vita! Non sono euforica per un acquisto e tendo a sentirmi in colpa se lo riporto indietro. Ho un bambino (James, avuto dal marito, l'attore Matthew Broderick, ndr) e se passassi il mio tempo a entrare e uscire dai negozi non starei affatto bene! Non vuol dire che non mi diverta a sfogliare riviste di moda e pensare, "mi piacerebbe avere quelle scarpe!" Ma finisce li'.

Perché pensa che le donne in tutto il mondo abbiano sviluppato un legame così forte con Carrie?
Credo abbia a che fare con l'aver creato un personaggio che vive in una sorta di posto irreale. Abbiamo dipinto un ritratto di New York che non è veramente New York, ha un aspetto poetico e idilliaco, piena di romanzo, architettura e letteratura, e credo che questo sia eccitante per le donne. Nel film Carrie attraversa un momento molto difficile della sua vita in cui emergono i suoi difetti, ma allo stesso tempo non perde di vista i suoi profondi legami con le sue amiche e tutte queste sono qualità che la rendono interessante.

Pensa che Sex and the City abbia insegnato qualcosa alle donne?

E' una grossa affermazione, ma non posso fare a meno a volte quando vedo donne camminare insieme a New York di pensare che forse abbiamo contribuito qualcosa a far capire l'importanza dell'amicizia nella vita. Il film, come la serie, è una commedia, non è un dramma, ma parla di amicizia e di crescita, delle decisioni, i trionfi e gli sbagli della vita. Penso che tanta gente rimarrà sorpresa da quanto sia un film adulto, per un pubblico adulto. La disperazione che provi a 20 anni è molto diversa dalla disperazione che provi a 40: a 20 anni le amiche ti possono trascinare fuori dal letto e portarti in discoteca per tirarti su il morale, e tu pensi che questo ti possa davvero aiutare! Poi arriva il momento nella vita in cui nessuno, nemmeno le tue amiche, può aiutarti a superare una perdita come quella che Carrie subisce nel film, quando Big non si presenta al matrimonio! E lì sta a te tirarti su con le tue forze! Penso che questo sia un buon insegnamento.

All'epoca della serie televisiva si è parlato molto del fatto che lo show era stato creato tenendo presente la sensibilità del pubblico gay. Ne era consapevole?
Non fino a quando qualcuno me l'ha detto. Io vengo da una città metropolitana e sono cresciuta nel mondo del teatro, quindi per me la comunità gay fa parte naturale dell'arte e della cultura. Era chiaro però fin dall'inizio che avevamo una forte componente di spettatori gay fra i nostri fan, girava addirittura la voce che gli autori fossero uomini gay, che non era vero. Anzi, c'erano molte più donne che uomini fra gli sceneggiatori, soprattutto donne eterosessuali e singole!

Cosa ha imparato dalla costumista originale della serie, Patricia Field, sulla moda?
Tantissimo. Per esempio che nella moda devi buttare le regole dalla finestra e prendere rischi, anche se a volte i risultati sono comici! Non avrei mai fatto questo film senza di lei come costumista!

giovedì 1 maggio 2008

Se avessi parlato con Edward...

I was sitting in a New York City restaurant with Jonathan Prince, John Edwards' deputy campaign manager, and at that moment the future of our candidate's quest for president was being decided.

But not by us. All that Jonathan and I knew was that we each had two air tickets: one for Atlanta, in case we were going there the next morning to prep the senator for a televised debate; and the other for New Orleans, in case Edwards was flying there instead to announce he was dropping out of the race. Jonathan told me that he felt there was maybe an 80 percent chance that Edwards would end his campaign. Nah, I said, it was more like 50/50.

 It was not until much later that night that the text message came: Use the New Orleans ticket. And that's when we found out it was all over.

I don't know, and will probably never know, just how Senator Edwards arrived at his decision. He isn't one to pull a bunch of people into a room and take a vote. He asks you individually what you think, and you basically get one shot to make your argument. I got my chance. And for the first time in thirty years of political work, I didn't go with my gut.

I didn't tell him what I should have told him: That I had this feeling that if he stayed in the race he would win 300 or so delegates by Super Tuesday and have maybe a one-in-five chance of forcing a brokered convention. That there was a path ahead that would be extremely painful, but could very well put him and his causes at the top of the Democratic agenda. And that in politics anything can happen-even the possibility that in an open convention with multiple ballots an embattled and exhausted party would turn to him as their nominee. I should have closed my eyes to the pain I saw around me on the campaign bus, including my own. I should have told him emphatically that he should stay in. My regret that I did not do so-that I let John Edwards down-grows with every day that the fight between Hillary Clinton and Barack Obama continues.

To explain why I didn't say all that, let's go back to late January. We were in the middle of a five-day bus tour through South Carolina and the polling was getting worse and worse for Edwards. A candidate who had been second in Iowa early that same month had just gotten 4 percent in Nevada, only two contests later.

Now we were battling for votes in the state where he was born, and people on the campaign were really worried. No one on that bus wanted to see the senator go to South Carolina and take 7 percent or so, and have the media talk about his disappointing showing in the state of his birth. We were fighting for our lives to get him to 15 percent, maybe 20.

In the end, we scratched out about 17 percent-a kind of moral victory-but that still put us well behind Obama and Clinton. And Super Tuesday loomed ahead. I believed we could go on, accrue more delegates, take part in more debates. But we would lose a lot of our money people and we'd have to lay off large chunks of staff-people who had been working hard for Senator Edwards for months on end. That would sink morale even more.

It's not only painful for those still on staff to part with friends and colleagues, but it's very tough to take the level of your campaign down in order to survive. A campaign gets used to flying around in a chartered jet and using an air-conditioned bus. Now you're looking at staying at a Motel 6. Meanwhile, you have the Clinton and Obama campaigns yelling at you, saying why don't you drop the hell out of this thing so we can scoop up your supporters and win? In the end, you can't help wondering if it's right to ask the candidate to accept all that, and to stomach more defeats down the road, because you, Joe Trippi, have a vision that even in your own view has little more than a 15 percent chance of being anything but a pipe dream.

Truth is, though, I did have a vision for the thing. So did Jonathan and others. It was a longshot, to be sure, but there remained the chance of a three-way battle going all the way to the convention. I thought we could make a big dent in Ohio by appealing to middle-class working people. The same in places like Kansas, Colorado and the Dakotas. It was possible to make those a dead-heat for all three candidates in terms of delegate wins. And today, as I write this, I realize we might have had as many as 500 delegates heading into Pennsylvania and North Carolina, two states that would probably be strong for Edwards.

That would mean Edwards, Obama and Clinton would go into the convention without any of them close to sealing the nomination. You would have had months of Obama and Clinton banging away at each other, with Edwards able to come across to weary Democrats as a welcome, fresh face.? You'd have the electability argument begin to play to Edwards' advantage, since he always did well against McCain in polling. These possibilities and more played through my mind.

Of course, it's easier to see today that what seemed like a wistful hunch back in January would actually be the right course. In the midst of a hectic and draining campaign, it's tough to decide that question that most campaigns eventually face: Do we fight on or drop out?

As Super Tuesday loomed, we were facing this question for the third or fourth time. But for the first time in my professional life, I didn't heed a lesson that had served me well for 30 years. I didn't go with my gut. Instead I said to Senator Edwards, this is your decision to make. You have to go with your heart on this. Only you can decide if it's worth it to keep going.

I was right, of course, that it was his decision to make. And I can't pretend to know what decided the matter in his mind. I know one factor was that the senator questioned why he'd be remaining in the race. Would he be grinding out delegates only to be in a position to cut a deal at the convention for his own gain? That wasn't why he had gotten into the race for president. He had entered it to push causes like ending poverty, championing health care for every American and fighting for working people, and it just wasn't him to turn it into a selfish quest. I really respect that, and it helps explain why I so fervently wanted John Edwards to become president. The man cared deeply about those causes, and he did not want to see them tarnished because of a string of embarrassing losses.

My mistake was not seeing more clearly then what is so obvious to me now: He could have kept his agenda in the forefront by staying in the race and forcing Obama and Clinton to focus on those issues because he, John Edwards, would hold the key to the convention deadlock. And maybe, just maybe, a brokered convention would have stunned the political world and led to an Edwards nomination.

If I had expressed these thoughts to the senator, it's possible that he would still be in the fight and leading Obama and Clinton on the issues. If I had only gone with my gut, the text message I received that night in New York City might have said something very different: Use the Atlanta ticket.

Joe Trippi, who was Howard Dean's campaign manager in 2004, served as a senior adviser to the John Edwards campaign.